Ha senso studiare il DNA di Hitler?
Un nuovo documentario nel Regno Unito ha generato attenzioni e dubbi sul valore delle correlazioni tra genetica e comportamento

Sabato scorso il canale televisivo britannico Channel 4 ha trasmesso la prima parte di un documentario intitolato Il DNA di Hitler: modello di un dittatore, che racconta il tentativo recente di un gruppo di ricerca di sequenziare il genoma di Hitler a partire da un pezzo di tessuto intriso di sangue, che si ritiene provenga dal divano su cui si suicidò il 30 aprile 1945. Una delle autrici è la genetista britannica Turi King, già nota per avere identificato nel 2013 i resti del re d’Inghilterra Riccardo III.
Se n’è parlato molto perché i risultati della ricerca, presentata a una rivista scientifica ma non ancora pubblicata, hanno permesso di formulare alcune ipotesi, più o meno solide ma molto gustose per i media, sulla salute di Hitler. Una è che soffrisse della sindrome di Kallmann, una malattia genetica che determina un incompleto sviluppo sessuale. Un’altra, molto più dubbia, è che avesse una particolare predisposizione al disturbo da deficit di attenzione e iperattività, e ad altri disturbi mentali.
La discussione si è concentrata sull’attendibilità dei risultati, ma anche sul senso e sui rischi di condurre ricerche di questo tipo su personaggi illustri della storia: a maggior ragione nel caso di personaggi famigerati e violenti.
Da una parte, ricerche simili potrebbero in teoria contribuire a rendere più tridimensionali quei personaggi, fornendo elementi contestuali utili da un punto di vista storiografico. Dall’altra parte c’è però il rischio che dati già di per sé molto incerti siano utilizzati per stabilire correlazioni tra determinati tratti genetici e presunte attitudini umane corrispondenti. Il rischio, in particolare, è che le ricerche rafforzino implicitamente l’idea che scelte e azioni negative o persino micidiali dipendano da fattori genetici ereditari e prevedibili più di quanto siano influenzate da fattori ambientali variabili e imponderabili.

Un ritratto di Adolf Hitler da bambino, senza data (Bettmann/Getty Images)
Per provare l’autenticità del sangue sul tessuto, conservato in un museo di storia militare a Gettysburg, in Pennsylvania, il gruppo di ricerca ha prima di tutto chiesto un campione di DNA a parenti sopravvissuti di Hitler, che si sono rifiutati di collaborare per il rischio di ricevere attenzioni mediatiche. Alla fine il gruppo ha sostenuto l’autenticità del reperto confrontandolo con un campione di sangue di un presunto parente di Hitler, che era stato raccolto nei primi anni Duemila da un giornalista belga (non è chiaro però come il gruppo sia venuto in possesso di quel campione).
Una prima conclusione tratta dal gruppo di ricerca ha permesso di sfatare una famosa teoria del complotto – da tempo sostenuta, tra gli altri, dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov – secondo cui Hitler avesse origini ebraiche e che suo padre fosse nato da una relazione extraconiugale. Secondo il gruppo è invece fondata l’ipotesi che fosse affetto dalla sindrome di Kallmann, che può influenzare la pubertà, lo sviluppo degli organi sessuali e la libido. Lo proverebbe l’analisi di un gene chiamato PROK2, i cui risultati sono peraltro compatibili con un documento noto risalente a una visita medica a Hitler eseguita nel 1923, che riportava una diagnosi di criptorchidismo (la mancata discesa di un testicolo o di entrambi nella borsa scrotale).
Se il documentario si fosse limitato a queste conclusioni, sarebbe stato sensazionalistico ma tutto sommato credibile, ha commentato il Guardian. Il problema è che gli autori hanno voluto anche valutare la predisposizione genetica di Hitler a patologie psichiatriche e neurologiche attraverso i cosiddetti test di rischio poligenico, da cui è emersa una probabilità da «alta» a «superiore alla media» di sviluppare il deficit di attenzione e iperattività (ADHD), la schizofrenia e il disturbo bipolare.
È la parte più discussa e scientificamente più debole di tutta la ricerca. I test di rischio poligenico sono utilizzati per elaborare una stima approssimativa del rischio di sviluppare determinate malattie multifattoriali, cioè causate da più fattori. Sono malattie – perlopiù neurodegenerative, metaboliche e cardiovascolari – che non dipendono soltanto dalla genetica, ma anche dall’ambiente, dalle abitudini, dai comportamenti e dal caso. In generale, il loro valore predittivo è molto dubbio anche perché i dati di confronto utilizzati per elaborare le stime provengono da campioni di popolazione limitati e non abbastanza eterogenei.
Uno dei rischi segnalati da diversi scienziati non coinvolti nella ricerca è che documentari come quello sul DNA di Hitler possano favorire approcci basati sul determinismo genetico e non sostenuti da valide prove scientifiche. «I punteggi di rischio poligenico forniscono informazioni sulla popolazione in generale, non sui singoli individui», ha detto al Guardian David Curtis, professore del Genetics Institute all’University College London.
Anche se un test indica una certa predisposizione, ha spiegato Curtis, «il rischio effettivo di avere quella condizione può essere comunque molto basso, anche per condizioni fortemente influenzate da fattori genetici». E nel caso dei disturbi mentali, secondo molti scienziati, il valore predittivo dei test poligenici non può essere paragonato al valore di un qualsiasi strumento diagnostico.
In generale, soprattutto nel caso dell’autismo e del disturbo da deficit di attenzione e iperattività, associare queste condizioni a una figura universalmente considerata la personificazione del male rischia di accrescerne la stigmatizzazione. O, al contrario, rischia di suscitare atteggiamenti di empatia e comprensione verso comportamenti individuali le cui relazioni con quei disturbi potrebbero essere infondate e inesistenti.



