L’Accordo sul clima di Parigi funzionicchia

In dieci anni è diventato un importante punto di riferimento per la crisi climatica, ma molte promesse non sono state mantenute

L'Arco di Trionfo illuminato di verde per festeggiare l'entrata in vigore dell'Accordo di Parigi il 4 novembre 2016, dopo la sua approvazione l'anno precedente, Parigi, Francia (Chesnot/Getty Images)
L'Arco di Trionfo illuminato di verde per festeggiare l'entrata in vigore dell'Accordo di Parigi il 4 novembre 2016, dopo la sua approvazione l'anno precedente, Parigi, Francia (Chesnot/Getty Images)
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Quando l’Accordo di Parigi sul clima fu sottoscritto dieci anni fa, la maggior parte dei paesi del mondo si impegnò ad attuare politiche per limitare il più possibile l’aumento della temperatura media globale, riducendo per esempio le emissioni di anidride carbonica e altri gas serra. Si erano dati il limite di un aumento di 1,5 °C della temperatura (rispetto al periodo preindustriale) entro la fine del secolo, ma quella soglia è stata temporaneamente già superata e appare ormai improbabile che l’obiettivo sia raggiunto. È un fallimento, ma parziale: nell’ultimo decennio ci sono stati importanti progressi in parte attribuibili proprio al trattato.

L’anniversario è al centro, per lo meno simbolicamente, della conferenza sul clima (COP30) iniziata lunedì 10 novembre a Belém, in Brasile. Proprio come dieci anni fa, i rappresentanti di quasi tutti i paesi del mondo stanno lavorando alla definizione e alla revisione di molte politiche sul clima. Ci sono praticamente tutti, tranne gli Stati Uniti che non hanno inviato rappresentanti di alto livello e che, per volere del presidente Donald Trump col suo negazionismo climatico, all’inizio del prossimo anno usciranno dall’Accordo di Parigi e non rispetteranno gli impegni assunti negli ultimi anni per ridurre le emissioni e il consumo di combustibili fossili (nel 2017 aveva fatto la stessa cosa).

Nel 2015 la sottoscrizione del trattato, entrato poi in vigore l’anno seguente, fu resa possibile da una situazione internazionale sicuramente più tranquilla dell’attuale, con meno tensioni tra alcuni dei paesi più potenti come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. In quel contesto il senso di urgenza per la crisi climatica si tradusse in un accordo importante, ma che era pur sempre una mediazione tra paesi con interessi molto diversi.

Oltre al limite di 1,5 °C, fu deciso che ogni paese si sarebbe impegnato in autonomia a ridurre le emissioni di gas serra, immaginando che i paesi più ricchi avrebbero fatto più velocemente i compiti, vista la maggiore disponibilità di risorse, e che avrebbero aiutato i paesi più poveri a proseguire nel loro sviluppo in modo sostenibile. I piani climatici volontari (“Contributi determinati a livello nazionale”, NDC) non sono stati però rispettati o sono stati adottati con grande lentezza, e proprio questo è uno dei problemi affrontati alla COP30. I paesi ricchi non hanno inoltre speso quanto promesso per aiutare quelli poveri, che in pochi anni si sono ritrovati a fare i conti con eventi atmosferici sempre più estremi e frequenti.

Quando fu approvato, nessuno pensò veramente che l’Accordo di Parigi potesse essere risolutivo, soprattutto perché arrivava dopo un secolo e mezzo in cui l’umanità aveva bruciato enormi quantità di combustibili fossili, e stava continuando a farlo. Anche nel caso di una forte riduzione delle emissioni, sarebbe stato comunque necessario molto tempo prima di vedere qualche risultato. E così il decennale dell’Accordo di Parigi è pressoché coinciso con il periodo di dieci anni più caldo mai registrato. Il 2024, in particolare, è stato l’anno più caldo da quando abbiamo dati affidabili ed è coinciso secondo alcune misurazioni con il temporaneo superamento della soglia di 1,5 °C ben prima della fine del secolo, ma il dato singolo non va confuso con quello medio e siamo quindi ancora sotto il limite, seppure di poco.

Nel 2015 il mondo era su una traiettoria che lo avrebbe portato a un aumento della temperatura media globale fino a 3,8 °C entro la fine del secolo, secondo i modelli di previsione di allora. A dieci anni di distanza, l’attuale traiettoria indica un aumento di 2,5–2,9 °C rispetto alla temperatura media globale del periodo preindustriale. Il risultato è riferito al mantenimento degli impegni assunti dieci anni fa e misure più incisive nei prossimi decenni potrebbero ridurre quel valore. Il problema è che per ora i principali produttori di gas serra – come Cina, Stati Uniti, Unione Europea e India – non hanno mantenuto le promesse, continuando a emettere più gas serra di quanto avevano dichiarato.

Le promesse mancate hanno riguardato anche lo stanziamento dei fondi per aiutare i paesi più poveri a organizzarsi e ad adattarsi al cambiamento climatico. A fatica, solo nel 2022 si sono raggiunti i 100 miliardi di fondi e si è lontani dai 300 miliardi di dollari che dovrebbero essere stanziati entro il 2035. Se ne discuterà in questi giorni a Belém, considerato anche che la spesa indicata sarà comunque insufficiente e che non è chiaro come saranno finanziati i fondi aggiuntivi approvati l’anno scorso per arrivare a 1.300 miliardi.

La produzione di gas serra negli ultimi dieci anni ha continuato a crescere, ma in compenso la sua crescita è diventata sensibilmente più lenta. Parte di questo progresso è stata resa possibile dal ricorso sempre più ampio a fonti energetiche come il Sole e il vento per produrre elettricità. Il solare, in particolare, sta crescendo molto più velocemente del previsto, secondo alcune analisi in modo esponenziale. Nel 2015 la potenza installata a livello globale era di circa 200 gigawatt, mentre nel 2024 sono stati installati pannelli solari per 600 gigawatt.

Il successo del solare è dovuto in larga parte alla forte riduzione nei costi di produzione e di gestione dei pannelli fotovoltaici, che nel tempo sono diventati più efficienti e resistenti. Il principale produttore di pannelli è la Cina e il ritmo di produzione è talmente alto da avere ridotto drasticamente i prezzi, rendendoli accessibili anche nei paesi meno avanzati economicamente. Il costo di produzione dell’elettricità dal solare e dall’eolico è ora ampiamente inferiore rispetto a qualsiasi altro metodo di produzione da fonte fossile.

La transizione energetica sta interessando anche i trasporti e in particolare quelli su strada. Negli ultimi dieci anni le vendite dei veicoli elettrici sono aumentate del 3.300 per cento e nel 2024 circa un’automobile su cinque venduta era elettrica o ibrida. I dati parziali sul 2025 indicano un lieve rallentamento nelle vendite, ma nel complesso il passaggio ai veicoli elettrici è ritenuto ormai inevitabile e avrà forti conseguenze su interi settori produttivi. Anche in questo caso la Cina è avanti con alcuni dei più grandi produttori di veicoli elettrici, mentre le aziende automobilistiche storiche di Europa e Stati Uniti hanno grandi difficoltà nel gestire la transizione dei loro interi sistemi produttivi.

Nonostante gli importanti progressi legati alle rinnovabili e all’elettrificazione dei trasporti, il mondo continua a consumare quantità eccessive di combustibili fossili. Il dato più preoccupante per molti analisti riguarda la riorganizzazione del mercato legato al gas naturale. Con i tagli alle forniture del gas russo in seguito alla guerra in Ucraina era stata ipotizzata un’accelerazione della transizione energetica verso fonti più pulite, da usare al posto del gas. Le cose sono andate diversamente, soprattutto in seguito ai grandi investimenti degli Stati Uniti iniziati una decina di anni fa e che li hanno portati a essere ora il principale esportatore di gas naturale liquefatto, seguiti da Australia, Qatar e poi dalla Russia.

La gestione del gas naturale implica la costruzione di infrastrutture, sistemi di stoccaggio e di distribuzione, con investimenti che si ripagano nel medio-lungo termine. In altre parole, una volta costruita l’infrastruttura, questa deve essere usata per rivelarsi redditizia e ciò renderà meno probabile un veloce abbandono del gas.

In Cina si è invece assistito a un aumento senza precedenti del consumo di carbone per la produzione di energia elettrica. Il governo cinese negli ultimi anni ha inaugurato molte nuove centrali, che producono grandi quantità di anidride carbonica e di altri inquinanti che rimangono a lungo nell’atmosfera. L’aumento del consumo ha superato le previsioni e controbilancia in parte gli sforzi di numerosi altri paesi che hanno invece avviato lo smantellamento delle loro ultime centrali a carbone, come il Regno Unito.

Dopo dieci anni è quindi difficile fare un bilancio sull’Accordo di Parigi, considerata soprattutto la complessità della questione climatica e gli approcci che sono stati seguiti in questo decennio, senza una grande coordinazione tra i principali produttori di gas serra. Il trattato ha sicuramente avuto il pregio di fissare gli obiettivi più importanti e in certa misura di condizionare l’attività non solo dei governi, ma anche di numerose multinazionali in giro per il mondo. Benché molte cose siano cambiate, è rimasto un punto di riferimento su cui misurare i parziali successi e i numerosi insuccessi delle politiche per contrastare il riscaldamento globale e adattarsi agli effetti ormai inevitabili del cambiamento climatico. Un elemento è emerso più di tutti: la lentezza.

I tempi di reazione rispetto a quelli indicati dalla ricerca, che ha ormai prodotto una mole enorme di dati e analisi su cui c’è un altissimo consenso scientifico, non sono adeguati e proprio su questo si confronteranno i gruppi di lavoro alla conferenza sul clima in Brasile. Il riscaldamento globale va più veloce degli sforzi per contrastarlo, con effetti sempre più tangibili e costosi ormai per miliardi di persone in tutto il pianeta.