Perché la Toscana è una regione “rossa”

Per capirlo, e per capire cosa si intende con questa espressione, bisogna andare indietro di circa 150 anni

Eugenio Giani durante la conferenza stampa per la vittoria alle elezioni regionali in Toscana (CLAUDIO GIOVANNINI/ANSA)
Eugenio Giani durante la conferenza stampa per la vittoria alle elezioni regionali in Toscana (CLAUDIO GIOVANNINI/ANSA)
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Il giorno dopo la sua riconferma a presidente della Toscana, a chi gli ha fatto notare che la «vittoria era scontata», Eugenio Giani ha replicato che «la vittoria è scontata solo dopo che si è vinto». Giani parla col tono di chi non ci sta a sminuire il suo successo come qualcosa di ineluttabile, e ribadisce quel che spesso ha ricordato nei suoi incontri elettorali, nelle scorse settimane, per mobilitare le persone e convincerle ad andare a votare, e cioè che anche l’Umbria e le Marche erano considerate regioni “rosse”, e che però a un certo punto sono state vinte dalla destra. Insomma, la storia e le tradizioni contano, ma fino a un certo punto, perché poi ogni volta le elezioni bisogna vincerle.

– Leggi anche: In Toscana l’approccio moderato del centrosinistra ha pagato

A dispetto delle comprensibili rivendicazioni di Giani, che peraltro è un raffinato conoscitore della storia della sua terra, vincere in Toscana, se sei un candidato del centrosinistra, è immensamente più facile che vincere in Lombardia, in Veneto, o in Sicilia. Lo è praticamente da sempre. Alle elezioni politiche del 1919, le prime in Italia fatte col sistema proporzionale, il Partito socialista, il partito di riferimento della sinistra in quel momento, in Toscana ottenne il 44 per cento dei voti, eleggendo da solo 18 dei 39 seggi disponibili. Nel 1948, alle prime elezioni repubblicane, in Toscana il Fronte democratico popolare, composto da socialisti e comunisti, vinse in Toscana con percentuali che andarono, a seconda delle province, dal 42 al 55 per cento.

Fu in quell’epoca che iniziò a diffondersi l’espressione “regione rossa”, che si sarebbe consolidata negli anni Sessanta e che tuttora viene usata nel gergo politico per indicare Emilia-Romagna, Toscana (sempre governate dalla sinistra o dal centrosinistra dal 1970, quando le regioni vennero istituite), Umbria e Marche (dove invece il monopolio della sinistra si interruppe nel 2019 e nel 2020).

Gli esperti di sociologia e di cose elettorali la chiamano «subcultura politica territoriale», e in Toscana questa subcultura, cioè questo insieme di ideologie e di valori condivisi in maniera sostanzialmente compatta da un’ampia maggioranza delle comunità, è diffusa dalla fine dell’Ottocento. In gran parte affonda le sue radici nel modello di sviluppo che si affermò lì nei decenni, fondato prevalentemente sulla mezzadria, cioè un sistema economico in cui i contadini (mezzadri, appunto) lavorano i campi di proprietà di ricchi possidenti in cambio di una parte del raccolto. Questo contesto favorì ben presto, nell’Italia unitaria, la nascita di leghe di braccianti e di cooperative che in Toscana vennero influenzate dalle ideologie socialiste che andavano diffondendosi nella vicina Emilia-Romagna, e dunque si connotarono subito come cooperative rosse (distinte dalle cooperative bianche, presenti pure quelle in varie province toscane, di ispirazione cattolica).

Alcune delle cosiddette Società di Mutuo Soccorso, di fatto associazioni sindacali ante litteram nate in Toscana tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento, ebbero un’enorme influenza e si proposero come modelli anche al di fuori dei confini regionali: la Fratellanza artigiana di Firenze, fondata nel 1861, divenne presto una di quelle di riferimento per tutta l’Italia; la Camera del lavoro di Firenze, nata precocemente nel 1893, fu un’esperienza importante per la nascita della CGL (l’attuale CGIL) 13 anni più tardi. Di esempi analoghi se ne potrebbero citare molti.

Come anche per l’Emilia-Romagna, questa dimensione agricola del socialismo è ciò che spiega la sua pervasività e la sua diffusione un po’ dappertutto nella regione: nelle altre regioni del Nord, pure quelle terre di grande fortuna del marxismo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la questione di classe e le lotte sindacali erano spesso strettamente connesse alle dinamiche di fabbrica, e dunque trovavano fortuna nelle città o nelle periferie urbane. In Toscana, invece, dove di grandi stabilimenti industriali ce ne furono meno rispetto alla Lombardia o al Piemonte, e dove l’economia restò a lungo prevalentemente contadina, questa distinzione ci fu assai meno.

Ma oltre alle campagne, furono un contesto favorevole alla diffusione delle idee marxiste anche i cantieri navali e siderurgici del livornese, così come le cave di marmo a Carrara e dintorni, dove si sviluppò tra l’altro una solida cultura anarchica e anticlericale. In una terra molto condizionata dal pensiero di Giuseppe Mazzini – fu a Pisa che Mazzini trascorse gli ultimi mesi della sua vita, e questo contribuì alla fortuna del suo mito in Toscana – per decenni il socialismo visse di costanti tensioni tra il riformismo gradualista e quello massimalista e rivoluzionario, venato talvolta da aspirazioni anarchiche più o meno radicali. Non a caso, fu a Livorno che nel 1921 avvenne la scissione del Partito socialista, con la nascita del Partito comunista d’Italia, più intransigente e fedele alle direttive di Mosca.

La Resistenza, poi, fece il resto. In Toscana, formalmente sotto il controllo della Repubblica sociale italiana, l’entità parastatale guidata da Benito Mussolini per conto della Germania nazista, furono attive molte bande e brigate partigiane, quasi sempre di ispirazione marxista. E questo lasciò una memoria vivida per tutto il secondo Dopoguerra. Anche la cultura cattolica ne risentì: Don Lorenzo Milani, ma anche i più importanti leader democristiani della Toscana, come Giorgio La Pira e per molto tempo Amintore Fanfani, espressero una visione politica per molti versi progressista e più a sinistra di molti altri nel partito.

Si spiega anche così la persistente predominanza della sinistra, sul piano elettorale, che comunque non è sempre stata uniforme. C’è stata una Toscana indiscutibilmente rossa, quella delle province di Firenze, Siena, Pisa e Livorno, dove ha a lungo dominato il Partito comunista; una Toscana di centrosinistra, più socialista che comunista, che è quella della Versilia, della Garfagnana, e di Arezzo; e poi quella che è spesso stata in controtendenza, e cioè connotata da una maggior radicamento della cultura conservatrice o moderata, come Lucca e la Maremma (anche se in ciascuna di queste aree c’erano poi eccezioni e situazioni diverse, che fanno storia a sé).

L’allora sindaco di Livorno Filippo Nogarin raggiunge la camera ardente del presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, a Roma, il 17 settembre 2016 (GIORGIO ONORATI/ANSA)

Tutto ciò è rimasto valido almeno fino a una quindicina d’anni fa. Dalla crisi del 2008 in poi, la partecipazione popolare alla politica è diminuita generando, anche in Toscana, una profonda disaffezione nei confronti dei partiti che stavano al governo, e lì al governo ci stava quasi ovunque la sinistra. La nascita del Partito Democratico, che ha riunito varie culture progressiste ma ha tenuto fuori le correnti più radicali dei movimenti progressisti, ha generato altre tensioni interne al mondo del centrosinistra. In varie città, poi, e a Siena su tutte, un sistema di potere e clientele talvolta anche massoniche si è irrigidito, perdendo la capacità di garantire benessere agli abitanti. E infine, come altrove, la politica si è sempre più allontanata dai saldi legami ideologici del Novecento, con l’elettorato che a sua volta si è fatto più fluido.

Così, già a partire dal 2013, il Movimento 5 Stelle si è preso ampi consensi fino a poco prima appartenuti alla sinistra, specie nelle province di Massa-Carrara e di Livorno. Nel 2014 il grillino Filippo Nogarin, con un passato nel partito radicale della Democrazia Proletaria, divenne il primo sindaco non espressione dell’apparato del centrosinistra, proprio a Livorno.

Ma questo cedimento, evidenziato inizialmente dalla crescita del M5S, è stato poi capitalizzato dalla destra, e in particolare dalla Lega. Oggi infatti la maggioranza dei capoluoghi toscani ha sindaci di destra o di centrodestra. Sfruttando un po’ dappertutto le divisioni interne al centrosinistra, che dava spesso per scontata la vittoria quando scontata non era più, la Lega ha vinto prima a Cascina, in provincia di Pisa, nel 2016; poi nel 2018 furono eletti sindaci leghisti anche nella stessa Pisa e a Massa, e per la prima volta ci fu un sindaco di centrodestra anche a Siena. Ad Arezzo c’era un sindaco di centrodestra già dal 2015, mentre nel 2017 venne eletto sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi di Fratelli d’Italia, che alle regionali appena concluse era il principale candidato insieme a Giani.

Insomma, a un certo punto, mentre le Marche e l’Umbria smettevano di essere considerate regioni “rosse”, commentatori e politici si sono iniziati a chiedere se anche la Toscana lo fosse ancora.

Susanna Ceccardi al raduno della Lega a Pontida, il 16 settembre 2023 (MICHELE MARAVIGLIA/ANSA)

Nel dicembre del 2019, in un moto di ottimismo sorprendente per la sua natura umbratile, il vicesegretario della Lega Giancarlo Giorgetti pronosticò che «a breve le repubbliche socialiste sovietiche di Emilia-Romagna e Toscana diventeranno forse ex repubbliche socialiste sovietiche». La Lega era da poco tornata all’opposizione, dopo la crisi del Papeete di agosto e la nascita un po’ rocambolesca del secondo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da PD e M5S, e Salvini, sfruttando l’enorme consenso di cui ancora godeva, sperava che proprio vincendo le regionali in Emilia-Romagna e in Toscana, nei mesi successivi, avrebbe potuto aprire una crisi per quel governo piuttosto fragile.

Non andò così. Nel 2020 centrosinistra, sia pure con più difficoltà del solito, vinse in entrambe quelle regioni: a gennaio in Emilia-Romagna, con Stefano Bonaccini, e a settembre in Toscana, con Giani, entrambi del PD. Quella fu però la sola occasione, in cinquant’anni di storia di elezioni regionali, che il risultato fu considerato non scontato. Ed è stata un po’ un’eccezione.