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  • Venerdì 3 ottobre 2025

Lo sci professionistico è troppo pericoloso?

Se ne sta parlando dopo la morte di un altro sciatore italiano; è una questione di piste e attrezzature, e riguarda anzitutto gli allenamenti

di Michele Pelacci

(Markus Tobisch/SEPA.Media /Getty Images)
(Markus Tobisch/SEPA.Media /Getty Images)
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In meno di un anno, mentre si allenavano, sono morti tre giovani sciatori italiani. Matilde Lorenzi in Val Senales, in Trentino-Alto Adige; Marco Degli Uomini sul Monte Zoncolan, in Friuli; infine, Matteo Franzoso è morto lo scorso settembre a La Parva, in Cile. Proprio la morte di quest’ultimo ha creato agitazione tra gli addetti ai lavori come poche altre volte in precedenza, rianimando il dibattito sulla sicurezza nel mondo dello sci alpino.

Adrien Théaux, uno degli sciatori più esperti in attività, si stava allenando a La Parva quando Franzoso è caduto, superando due file di barriere protettive e sbattendo la testa contro una staccionata «posizionata 6-7 metri fuori dal tracciato», secondo la FISI, la Federazione italiana che regola sci alpino e diversi altri sport invernali. Dopo l’incidente Théaux ha scritto: «Quante tragiche morti dovremo sopportare prima di aprire finalmente un dibattito sul tema della sicurezza, in particolare durante gli allenamenti?».

È un discorso complesso, che ha come protagonisti chi lo sport lo pratica, sciatori e sciatrici professioniste, e poi tutto ciò che c’è attorno, dalle aziende produttrici di materiali a chi organizza le gare e gli allenamenti. Di sicurezza sugli sci non si parla solo in Italia, a causa di altri incidenti mortali recenti, come quello della francese Margot Simond. Il suo connazionale Alexis Pinturault, tra i migliori sciatori degli ultimi anni, ha detto una cosa condivisa da tanti suoi colleghi: «Le parole “fatalità” e “disgrazia” non sono presenti nel vocabolario di un professionista. Non si può andare a sciare e non tornare più a casa».

Nelle cosiddette discipline veloci dello sci alpino, ovvero discesa libera e Super G, si va molto veloce. Su piste come la “Streif” a Kitzbühel, in Austria, non è difficile che si raggiungano i 150 chilometri orari. Sopra i 100 chilometri orari gli sciatori fanno tante cose: ammortizzano salti di decine di metri, curvano piegandosi fino a quasi toccare terra, si confrontano su pendii e neve di vari tipi, si raggomitolano per essere più aerodinamici. Lo sforzo, durissimo per mente e corpo, dura circa due minuti.

La velocità è una componente fondamentale dello sci alpino ed è ciò che lo rende uno sport al contempo così affascinante e pericoloso. La vincitrice della Coppa del Mondo generale nella stagione 2024-2025, Federica Brignone, sostiene che «la velocità, ingrediente dello show, è ciò che ci rende degli eroi». Altri invece non ne sono così attratti: certi sciatori si specializzano quindi nelle due discipline più lente e tecniche dello sci alpino, lo slalom gigante e lo slalom speciale, in cui le porte sono più ravvicinate tra loro.

Ciò che rende lo sci alpino uno sport pericoloso non è solo la velocità. Si scende su pendii ripidi e resi artificialmente durissimi, quasi come fossero lastre di ghiaccio, che rendono più omogenea la pista per tutti i partenti (un’operazione che in gergo si chiama barratura, che consiste nell’iniettare acqua ad alta pressione nella neve per aumentarne il peso specifico). Fino a pochi decenni fa, quando le protezioni erano quasi inesistenti, non era inusuale finire a tutta velocità nei boschi che circondano le piste. Il fatto di essere legati a due lunghi sci tramite scarponi e attacchi, inoltre, vincola molto i movimenti delle gambe. Per questo gli infortuni più frequenti che capitano a chi scia sono alle gambe e alle ginocchia.

Negli ultimi decenni, perlomeno sulle piste del massimo circuito internazionale di sci alpino, la Coppa del Mondo, le condizioni di sicurezza sono state migliorate. Il casco è diventato obbligatorio, barriere raffazzonate come balle di fieno sono state sostituite da reti di protezione moderne, vie di fuga ed elicotteri facilitano un rapido trasporto in ospedale. Di recente è diventato obbligatorio anche l’uso di abbigliamento anti-taglio, e l’airbag (una sorta di giubbotto che si gonfia e attutisce urti improvvisi) è sempre più diffuso.

Tuttavia non su ogni pista ci sono le stesse condizioni e non esistono stringenti criteri internazionali per l’omologazione delle piste d’allenamento. Durante i mesi estivi, moltissimi sciatori – anche nazionali giovanili o sci club – vanno nell’emisfero sud per trovare condizioni invernali e allenarsi. Buona parte della preparazione prestagionale di campionesse come Sofia Goggia avviene nei comprensori sciistici cileni di Portillo, La Parva o Valle Nevado, nella Terra del Fuoco argentina o in Nuova Zelanda.

A La Parva, a 50 chilometri da Santiago del Cile, da decenni si allenano nazionali di tutto il mondo. Secondo lo sciatore Giovanni Franzoni, che in Cile condivideva la camera con Franzoso, il problema sta proprio nelle piste di allenamento, che non sono sicure come quelle di Coppa del Mondo: «Succede qui in Cile come in Italia, Svizzera, Austria. La mia proposta è che la FIS crei un team di specializzati che controllino le piste di allenamento. Devono essere come in gara».

Paolo De Chiesa, ex sciatore e oggi telecronista, ha spiegato che erano piuttosto risapute le condizioni precarie delle piste a La Parva. Secondo tanti esperti che hanno visionato il luogo dell’incidente di Franzoso, le reti di protezione non erano sufficienti per numero e caratteristiche. Esistono infatti varie tipologie di reti di sicurezza; le due più usate sono quelle cosiddette di “tipo A”, fisse e molto alte, di «assoluto contenimento»; e quelle di “tipo B”, più mobili ma meno assorbenti.

Quando è uscito di pista, Franzoso ha divelto due reti di “tipo B” definite «obsolete» da Sepp Brunner, allenatore austriaco che per decenni ha portato squadre in allenamento a La Parva. Su molti punti pericolosi nei tracciati di Coppa del Mondo, invece, vengono usate reti di “tipo A” oppure tre file di “tipo B”. La pista “Stelvio” di Bormio, in provincia di Sondrio, che ospiterà le gare maschili di sci alpino delle Olimpiadi di Milano Cortina 2026, per esempio, è un pendio lungo circa tre chilometri, sul quale vengono sistemati 20 chilometri di reti di entrambi i tipi.

Di norma, ogni mattina le piste d’allenamento vengono preparate da molti tecnici e allenatori diversi. Oltre alla tracciatura del percorso, con pali o porte piantati nella neve ghiacciata grazie a un trapano, nel preparare la pista si possono modificare le condizioni della neve, su tutto il tracciato o su una sua parte, iniettando acqua (la barratura di cui sopra), spargendo sale o altre sostanze. Viceversa, alla preparazione delle piste da gara vengono dedicati più tempo, dedizione e soldi.

Come, quanto tempo prima e con quali risorse sono state preparate, appunto, la pista di La Parva e le reti circostanti? Il presidente della Federazione cilena, Stefano Pirola, afferma che «da quando ho memoria, nessuno aveva mai avuto un incidente in quel punto della pista». Alla Stampa Marcello Franzoso, padre di Matteo, ha detto invece che «in Cile sono successe cose strane, ne parlerò più avanti».

(Mitchell Gunn/Getty Images)

Un altro tema dibattuto riguarda i caschi. Più di un osservatore auspica l’adozione di caschi integrali, simili a quelli che hanno i piloti di MotoGP. In una recente intervista, d’altra parte, Federica Brignone ha definito l’uso di caschi integrali «impossibile», e come lei tanti sciatori li ritengono troppo ingombranti e pesanti da sostenere. Secondo Marco Pastore di Dainese, azienda che produce airbag e caschi molto usati da chi scia, il rischio zero purtroppo non esiste, ma gli spessori attuali dei caschi sono davvero un po’ al limite.

Il discorso sui materiali è complesso. Markus Waldner, direttore delle gare maschili di Coppa del Mondo, ricorda che gli standard di sicurezza si sono dovuti alzare «con l’aumentare delle prestazioni degli sci, che hanno generato velocità più elevate». Sull’estremizzazione dell’equipaggiamento tecnico, in seguito alla brutta caduta del velocista francese Cyprien Sarrazin, Waldner ha ammonito: «Stiamo arrivando al limite, o lo abbiamo già superato. Il problema è l’attrezzatura: è troppo aggressiva».

Uno degli accessori più discussi è una sorta di parastinco di carbonio. Aumentando la leva della tibia sullo scarpone, permette una maggiore spinta sullo sci e, in ultima istanza, più velocità. Dopo aver incontrato la resistenza delle maggiori federazioni nazionali, la FIS ha vietato l’utilizzo di questi parastinchi nel maggio 2025. Una decisione così netta non è stata invece ancora presa sull’airbag. Sebbene sia certo che dia un’importante protezione aggiuntiva, la FIS ammette eccezioni al suo utilizzo: di fatto, chi non vuole usarlo non lo usa.

Oltre ai ragionamenti sui materiali, qualcuno all’interno dello sci alpino lamenta un modo errato di fare le cose. Matteo Marsaglia, ex velocista della Nazionale, oggi consigliere federale della FISI, l’ha chiamata «vecchia mentalità del the show must go on». Camilla Alfieri, ex sciatrice e oggi telecronista, concorda: «Abbiamo sempre pensato “si fa così”, e invece è ora di svoltare».