A Modica non tutto il cioccolato è «di Modica»
La produzione è in aumento ma ci sono cioccolatai che non aderiscono al marchio IGP e alle sue regole: alcuni addirittura lo ritengono dannoso
di Francesco Gaeta

Vista dall’alto Modica, una cittadina da 53mila abitanti nella provincia di Ragusa, appare «una melagrana spaccata in due». La descrisse così nel 1990 lo scrittore Gesualdo Bufalino: intendeva dire che le case basse e chiare della cittadina, costruita all’interno di una vallata, sono divise da una lunga strada, corso Umberto I. Ai tempi era soltanto la via principale di Modica. Oggi corso Umberto I è il centro di un noto distretto commerciale, pieno di negozi che vendono quasi solo cioccolato-di-Modica.

Modica bassa vista dal belvedere Pizzo: al centro corso Umberto I (Francesco Gaeta/il Post)
Fino a qualche anno fa il cioccolato di Modica era una ricetta che si tramandava di generazione in generazione. Oggi è un settore che produce 4 milioni di tavolette all’anno (in aumento del 3,8% nel 2024 rispetto al 2023) e un giro d’affari da 11 milioni di euro. Come è avvenuto in altri casi – il pistacchio di Bronte, la cipolla di Tropea – un prodotto alimentare si è legato a una cittadina come una sineddoche.
– Leggi anche: Come fa a esserci tutto questo pistacchio “di Bronte”?
A Modica i turisti arrivano anche per altre ragioni: per esempio visitare il magnifico barocco del duomo di San Pietro, in cima a una ripida scalinata che inizia a metà di corso Umberto I. In molti poi attraversano la strada e fanno tappa da “Bonaiuto”, da “Rizza”, da “Donna Elvira”, da “Peluso”. Ne escono con tavolette di cioccolato aromatizzate ai gusti più disparati: alla cannella e alla vaniglia, ma anche ai fiori di cocco, al caffè di Timor, allo zucchero muscovado, al latte d’asina, al gelsomino. Tutti più o meno figli di mode contemporanee. Eppure per certi versi il cioccolato di Modica è un prodotto preistorico.
In città si segue ancora quella che viene definita una ricetta azteca importata nel Cinquecento dagli spagnoli e qui rimasta immutata, non si sa esattamente perché. Il cioccolato di Modica contiene zucchero, cacao e basta: nelle sue versioni più elaborate qualche aroma, originariamente cannella e vaniglia. La ricetta non prevede nessun concaggio, il procedimento che nell’industria di oggi impasta lo zucchero, leviga le superfici e rende le tavolette un blocco lucido. Quello che si mangia a Modica è invece un “fossile gastronomico”, come dicono gli esperti: ha un sapore forte e una consistenza al contempo dura e friabile, perfino un po’ ostica per chi ha problemi di denti.
In pochi però conoscono le vicissitudini nate in seguito al successo di questo cioccolato – che alcuni riconducono a una famigerata puntata del Maurizio Costanzo Show – che oggi fa sì che a Modica non tutto il cioccolato sia “di Modica”, tecnicamente parlando.
Gli unici autorizzati a usare questa denominazione sono i produttori che osservano un disciplinare di produzione previsto dalla denominazione IGP. È un marchio che l’Unione Europea concede agli alimenti lavorati in un modo peculiare su un certo territorio, e che distingue il prodotto finale da altri simili. Quello di Modica è stato il primo cioccolato in Europa a ottenere l’IGP, nel 2018. Fu il risultato di un proficuo lavoro di lobby portato avanti da un coordinamento di produttori nato circa 20 anni fa e riconosciuto come consorzio di tutela dal ministero delle Imprese e del Made in Italy, sebbene solo pochi mesi fa.
Tuttavia, disciplinare e IGP sono un grande argomento che divide i produttori, come peraltro avviene spesso anche altrove per altri prodotti “protetti”. Ma in questo caso la storia si arricchisce di gelosie e ripicche personali. Qui tutti si conoscono da sempre e ciascuno è convinto di essere il vero depositario del vero cioccolato di Modica.

Turisti davanti all’Antica Dolceria Bonajuto, che a Modica produce il cioccolato più antico e più noto (Francesco Gaeta/il Post)
Tra le vetrine di corso Umberto I ci sono i membri di tre fazioni diverse: chi aderisce al consorzio e al disciplinare (14 aziende); chi rispetta il disciplinare ma non fa parte del consorzio; chi è fuori da tutto. Tra questi ultimi, paradossalmente, c’è il produttore più antico, il più blasonato, il più ricercato e intervistato: l’Antica Dolceria Bonajuto, oggi retta da Pierpaolo Ruta, arrivato alla sesta generazione di cioccolatai. La dolceria è un negozio minuscolo, di 30 metri quadri, e fuori ha sempre una certa coda. In agosto Bonajuto ha battuto 18.500 scontrini, in media più di 600 al giorno.
Anche i suoi concorrenti gli riconoscono una primogenitura sul successo del cioccolato di Modica, che si deve all’attività di ricerca e di divulgazione di Franco Ruta, morto nel 2016. Fu lui per certi versi a inventarsi il cioccolato di Modica. Prima con alcune apparizioni al Maurizio Costanzo Show nei primi anni Novanta, in cui Costanzo esaltò il cioccolato definendolo «straordinario» e dal profumo «mai sentito». Poi con l’organizzazione di una edizione modicana di Eurochocolate, la più importante fiera italiana del cioccolato, che di norma si tiene a Perugia. Era il 2003 e la cittadina siciliana si riempì di esperti e assaggiatori, alcuni dei quali scoprirono Modica per la prima volta.
Il resto, concordano qui, lo fece la serie tv sul commissario Montalbano, che fu girata all’epoca in queste zone e contribuì a portare frotte di turisti. Su un balcone che dà sulla scalinata che porta al Duomo, per esempio, fu girata una delle ultime conversazioni fra Montalbano e il suo medico legale, il dottor Pasquano, prima che il suo interprete Marcello Perracchio morisse nel 2017.
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Bonajuto però paradossalmente ha deciso di non aderire al consorzio: non ne condivide alcuni punti del disciplinare e la sua politica commerciale. Il risultato è che non può usare il marchio IGP, se non vuole ricevere una multa. «Al massimo possiamo dire che il nostro è un cioccolato fatto in un paesino vicino a Ragusa», dice sorridendo.
A dividere i produttori ci sono alcune beghe sulla ricetta da seguire: per esempio se si debba o no fare il temperaggio, cioè un raffreddamento graduale del cioccolato ancora caldo per ottenere maggiore lucentezza. Per alcuni è un’eresia. Soprattutto, però, ci sono in ballo scelte in fatto di prezzi, canali di distribuzione e posizionamento del cioccolato locale sul mercato. Da un po’ di tempo il cioccolato di Modica è arrivato nei supermercati della grande distribuzione organizzata (GDO), e si trova anche a 1,60 euro per una tavoletta (secondo il disciplinare può pesare al massimo 100 grammi e deve avere per forza la forma di un «parallelepipedo rettangolare con i lati rastremati a tronco di piramide»).
Per i produttori che hanno puntato sulla quantità – i primi due soci del consorzio rappresentano da soli il 60% dell’intera produzione – è stato un modo per allargare acquirenti e fatturati. Ma è una scelta che non piace a chi punta su un prodotto di fascia più alta. «Dovremmo imporre alla GDO un prezzo minimo almeno doppio» dice Giovanni Cicero, titolare di Ciokarrua. «Il rischio è svendere la qualità. E dover poi spiegare ai turisti perché a Modica pagano una tavoletta anche quattro volte di più».

Il laboratorio di Ciokarrua, uno dei marchi di cioccolato di Modica che aderiscono al consorzio di tutela (Francesco Gaeta/il Post)
I prezzi oscillano così tanto soprattutto perché il cacao con cui si produce il cioccolato di Modica non è tutto uguale. Quello che proviene dall’Africa (Ghana e Costa d’Avorio) è meno pregiato di quello sudamericano (Colombia, Venezuela, Ecuador), perché lavorato su scala industriale da multinazionali del settore e non da cooperative di agricoltori. Comprare massa di cacao (è il nome del semilavorato, che assomiglia a un mattone marrone scuro) lavorata in Africa con tecniche e tempi da grande industria significa spendere meno, ma per una materia prima meno pregiata.
Africano o sudamericano che sia, negli ultimi tre anni il prezzo del cacao è comunque aumentato di quasi cinque volte: tra il 2022 e il 2024 sul mercato di Amsterdam, cioè quello di riferimento, il costo medio è salito da 4 a 19 euro al chilo. Il rincaro si deve a diversi fattori, tutti piuttosto noti: le conseguenze del cambiamento climatico che ha allagato diverse piantagioni; i danni di un virus che ha colpito negli ultimi anni la produzione africana; la conversione di terreni coltivabili destinati sempre più all’estrazione di terre rare, ben più profittevoli del cacao. «Alla luce di tutto questo, scegliere la strada della GDO e mantenere quei prezzi significa uccidere la biodiversità del cacao e alla lunga il brand del cioccolato di Modica» afferma Sara Ongaro, proprietaria di LAeQUA, che lavora nel circuito del commercio equo e solidale.
C’è chi ha scelto un’altra strada per “salvare la qualità”: importare e lavorare non la massa di cacao semilavorato, ma i semi. È un po’ come acquistare l’uva e non il mosto per fare il vino. La chiamano produzione bean to bar, dalla fava di cacao alla tavoletta: va forte negli Stati Uniti e a Modica molti produttori ne fanno una linea di produzione a parte, di fascia premium. Significa alzare i costi e quindi i prezzi anche di tre volte rispetto alla produzione standard. «Ma è il vero rimedio se non vogliamo inflazionare il prodotto», argomenta Elvira Roccasalva, proprietaria di “Donna Elvira” e vicepresidente del Consorzio di tutela.
Roccasalva tiene a chiarire come a Modica la sua sia «l’unica etichetta interamente bean to bar: io il cacao lo compro direttamente dai produttori, in Sudamerica». Aggiunge che «la scelta di andare sulla GDO non è una scelta del consorzio ma di alcuni produttori del consorzio. Per conto mio, al supermercato il cioccolato di Modica IGP dovrebbe stare in un angolo che ne sottolinei la diversità, e non a scaffale come tutto il resto».
Aderire al consorzio sarà da qui in avanti obbligatorio anche per chi finora si è limitato a osservare il disciplinare senza essere socio. È l’effetto del riconoscimento arrivato dal ministero pochi mesi fa, cosa che ha reso quello che prima era un semplice comitato di produttori un consorzio di tutela a tutti gli effetti. Solo chi ne farà parte potrà ottenere il marchio IGP e usare la dicitura “cioccolato di Modica”. A fronte di un maggiore riconoscimento, ci saranno degli oneri che peseranno soprattutto sui produttori più piccoli.
Bisognerà versare una quota di adesione annuale al consorzio; ci sono spese legate al francobollo digitale, cioè il sistema di tracciamento anticontraffazione realizzato con la zecca di Stato, e all’etichettatura, che dovrà cambiare. Il consorzio poi deve autofinanziarsi i controlli sulla propria produzione. Sono compiuti da un ente terzo che si chiama CSQA (Certificazione Sicurezza Qualità Agroalimentare) e svolgerà almeno due verifiche all’anno.
«Sono spese non sostenibili per la piccola pasticceria o dolceria che produce pochi chili all’anno», racconta Innocenzo Pluchino, titolare di Ciomod, che fin qui aveva rispettato il disciplinare senza aderire al consorzio. Nel quartiere Pizzo di Modica alta, Pluchino sta avviando in questi giorni il primo Festival che unisce arte contemporanea e cioccolato, Mani in Arte. «L’IGP e il consorzio dovrebbero servire non a vendere di più ma a promuovere un territorio ed essere una leva di sviluppo economico e culturale. Sarà uno stereotipo da meridionale ma a Modica, invece, marciamo divisi alla meta».



