Sempre più giuristi pensano che Israele stia compiendo un genocidio a Gaza
Abbiamo sentito alcuni tra i maggiori esperti italiani e internazionali: il dibattito pubblico è molto politicizzato ma tra gli addetti ai lavori è aumentato il consenso
di Ginevra Falciani

All’inizio di aprile, rispondendo alla domanda di un giornalista, il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres si è rifiutato di descrivere le conseguenze dell’invasione israeliana della Striscia di Gaza come un genocidio. Guterres ha detto che la situazione «è già abbastanza orribile, senza che serva mettere in mezzo la semantica» e che queste definizioni «sono competenza della Corte internazionale di giustizia», il principale tribunale delle Nazioni Unite. È una risposta esemplare di molte difficoltà e ambiguità sorte in questi anni attorno a un dibattito straordinariamente teso e ricco di pressioni e implicazioni.
Una parte delle difficoltà dipende dal fatto che da tempo il termine genocidio ha assunto un significato più ampio e meno tecnico, cioè meno legato alla sua rigida definizione giuridica. Come ha scritto anche il quotidiano israeliano Haaretz, «il termine “genocidio” ha allo stesso tempo un significato giuridico, morale, storico, comparativo e strategico».
In un pezzo di opinione pubblica, poi, si è affermata l’idea che un genocidio sia semplicemente una strage molto più grave delle altre, una strage su una scala più grande, per dimensioni e brutalità, che però non è il modo in cui questo crimine viene definito nel diritto internazionale. Nessuno per esempio ha mai considerato un genocidio il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, quando gli Stati Uniti sganciarono due bombe atomiche radendole al suolo e causando in pochi giorni circa 200mila morti, in larghissima parte civili.
Inoltre, nel caso di Israele e della guerra a Gaza decidere di usare o meno il termine genocidio è diventato spesso il segno di un’appartenenza politica: un modo per dire da che parte si sta. La discussione è così accesa che nessuno dei principali e più autorevoli giornali internazionali, a prescindere dal suo orientamento politico, ha deciso fin qui di usare la parola “genocidio” per descrivere i crimini di Israele, se non nel discutere proprio dell’uso del termine o in articoli di opinione dove è chiaro che quella esposta è la posizione di chi scrive, e non del giornale.
Ognuno di questi aspetti ha complicato il lavoro di chi si occupa di diritto internazionale, e che sarebbe quindi più competente per stabilire di volta in volta se si possa giuridicamente parlare di genocidio o no.
Per provare a fare chiarezza e isolare il piano giuridico dagli altri, il Post ha sentito diversi giuristi di fama nazionale e internazionale per capire a che punto sia il dibattito, riscontrando che esiste oggi un ampio consenso che quello che sta facendo Israele nella Striscia rientri nella definizione di genocidio. La ricostruzione e spiegazione che segue è frutto di ricerche, risposte e conversazioni che non si sono limitate alle persone direttamente menzionate.
Naturalmente anche dentro al dibattito accademico esistono sfumature, differenze, esitazioni e dissensi, e le varie posizioni non sono necessariamente immuni da parzialità o dalle pressioni dell’opinione pubblica. Gli studiosi e i giuristi lavorano nello stesso contesto culturale e politico in cui avvengono il resto delle discussioni su Israele e la Palestina, una delle questioni più divisive e polarizzanti dei nostri tempi. Da una parte il loro lavoro influenza quel contesto, dall’altra ne è influenzato.

Tende tra le macerie dopo l’offensiva aerea e terrestre israeliana a Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, il 16 febbraio 2025 (AP Photo/Mohammad Abu Samra)
Il genocidio nel diritto internazionale
La parola e il concetto di “genocidio” furono inventati nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin per descrivere i crimini dell’Olocausto e altri casi di persecuzione sistematica di gruppi nazionali, etnici, religiosi o culturali. Secondo Lemkin, il genocidio non consisteva solo nello sterminio fisico di un gruppo, ma anche nella distruzione delle sue istituzioni, della sua cultura, della sua lingua: un processo coordinato di annientamento di un’identità collettiva. Anche forme di violenza molto meno estese dell’Olocausto, diceva, se rivolte a questo scopo, potevano rientrare nella definizione.
La definizione giuridica di genocidio che fu inserita nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, un trattato approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1948, è molto più circoscritta di quella di Lemkin; ne conserva però i tratti fondamentali. Il testo del trattato dice:
Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) l’imposizione intenzionale di condizioni di vita che determinino la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo;
d) l’imposizione di misure destinate a impedire le nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
Affinché si possa parlare di genocidio serve anzitutto che si verifichi almeno una fra queste cinque condotte, ma non solo, altrimenti molti conflitti armati potrebbero essere definiti un genocidio: la condizione necessaria e imprescindibile – e anche la più dibattuta e quella su cui si concentrano le maggiori attenzioni – è che ci sia «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale». Per dirla come dicono gli esperti, che ci sia un intento genocidario.
Sul primo punto, cioè che sia stato compiuto almeno uno fra quei cinque crimini, non ci sono dubbi. Secondo quattro importanti giuristi che si occupano di diritto internazionale sentiti dal Post, fra cui il canadese William Schabas – uno dei massimi esperti mondiali del crimine di genocidio, autore del libro largamente considerato il più importante sul tema – Israele starebbe compiendo quattro dei cinque crimini elencati (tutti tranne l’ultimo, quello sui fanciulli).
Nell’ultimo anno e mezzo i continui bombardamenti israeliani hanno ucciso più di 60mila persone, l’entrata di cibo è stata bloccata a tratti totalmente, i civili sono stati costretti a spostamenti continui. Quasi il 70 per cento degli edifici è stato distrutto, così come quasi tutto il sistema sanitario, e i bombardamenti sui terreni coltivabili hanno reso la Striscia un luogo inabitabile anche per le generazioni future. Oggi c’è un gravissimo problema di malnutrizione. Sono elementi che rientrano nei punti a), b) e c). Secondo diversi esperti, inoltre, la distruzione «sistematica» e «intenzionale» dei centri per la fecondazione assistita nella Striscia rientra nel quarto caso, previsto dal punto d).
Come abbiamo detto, però, la parte più dibattuta è la seconda, quella che riguarda l’intenzione. È dibattuta perché è molto complicato stabilire con certezza se il fine di certi atti sia la distruzione di una certa comunità in quanto tale.

Una famiglia durante il Ramadan, fuori dalle macerie della sua casa a Rafah, Striscia di Gaza, 18 marzo 2024 (AP Photo/Fatima Shbair)
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Come si dimostra che c’è un genocidio?
Visto che per parlare di “genocidio” serve dimostrare l’esistenza di un intento genocidario, il dibattito tra giuristi ed esperti si sta concentrando proprio su questo punto: Israele agisce con l’obiettivo di eliminare in tutto o in parte la popolazione palestinese di Gaza? E come si dimostra, nel caso, l’esistenza di questa volontà?
La Convenzione sul genocidio non contiene indicazioni su come stabilire l’esistenza di un intento. Il modo più facile per farlo, come sempre quando si vuole dimostrare qualcosa, è avere documenti e prove in cui si parli di un piano di sterminio: fu il caso del genocidio compiuto dalla Germania nazista contro gli ebrei.
Nonostante le più ampie politiche israeliane di insediamento in Cisgiordania e di isolamento della Striscia di Gaza, un piano israeliano di sterminio dei palestinesi di Gaza non c’è o non è stato trovato. Per questo secondo alcuni giuristi non può essere sostenuta giuridicamente la tesi del genocidio.
Molti giuristi però, inclusa la maggioranza di quelli sentiti dal Post, la pensano diversamente: sostengono che non sia per forza necessario che esistano prove e documenti, perché l’intento genocidario può essere «dedotto» dagli eventi in corso. È un’opinione basata sul fatto che questa possibilità è stata riconosciuta in passato anche dai tribunali che si sono espressi su altri casi di genocidio.
Fu così per esempio per il massacro di Srebrenica, in cui il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e la Corte internazionale di giustizia riconobbero che la mancanza di una chiara ed esplicita pianificazione precedente non bastasse a scagionare i generali serbo bosniaci dall’accusa di aver compiuto un genocidio. Fu stabilito che i militari «non potessero non sapere» che uccidere circa 8mila uomini bosgnacchi e trasferire fuori da Srebrenica migliaia di donne e bambini appartenenti allo stesso gruppo avrebbe inevitabilmente portato alla scomparsa della popolazione bosgnacca della città. I tribunali accettarono come prova anche il fatto che i militari serbo bosniaci avessero saccheggiato e distrutto le case dei bosgnacchi, lasciando intatte le altre.
Su questa base, il dibattito giuridico sulla Striscia di Gaza diventa quindi: in mancanza di documenti, gli altri elementi bastano a provare con certezza l’esistenza di un intento genocidario?

Palestinesi in attesa della distribuzione del cibo a Gaza City, nel nord della Striscia, il 26 luglio 2025 (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
Le dichiarazioni pubbliche di politici e militari israeliani
Uno degli argomenti adottati dai giuristi che credono che Israele stia commettendo un genocidio fa riferimento a molte dichiarazioni pubbliche di membri del governo israeliano nell’ultimo anno e mezzo. Nei processi sui genocidi di Srebrenica e del Ruanda, le dichiarazioni pubbliche furono fondamentali nel determinare l’esistenza di un intento genocidario, ed è proprio a partire dalle dichiarazioni pubbliche che alla fine del 2023 il Sudafrica ha accusato Israele di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia, il principale tribunale dell’ONU.
Da tempo politici e militari di carriera israeliani, incluso il primo ministro Benjamin Netanyahu, dicono che la Striscia di Gaza va rasa al suolo, paragonano i suoi abitanti a degli «animali» e sostengono che tutto sommato non esistano davvero dei civili a Gaza che si possano considerare innocenti. Riferendosi all’attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre del 2023, il presidente israeliano Isaac Herzog disse: «È un’intera nazione che è responsabile. Non è vero che i civili non sono consapevoli e non sono coinvolti» (poi sostenne che quelle parole fossero state decontestualizzate).
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Negli stessi giorni l’allora ministro dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano Israel Katz disse che la completa interruzione delle forniture di acqua, energia e gas nella Striscia di Gaza era quello che si meritava una «nazione di assassini e macellai di bambini». Lo scorso gennaio Katz è diventato ministro della Difesa e da allora è direttamente responsabile delle operazioni nella Striscia di Gaza. Netanyahu ha più volte parlato del futuro della Striscia di Gaza evocando gli Amaleciti, un antico popolo nomade che viveva in Palestina prima degli ebrei, presentato nella Bibbia come il nemico del popolo ebraico e poi sterminato.
Col passare dei mesi i toni di diversi politici, fra cui il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, non si sono affievoliti, anzi. Negli ultimi giorni il ministro del Patrimonio culturale Amichai Eliyahu ha detto che «il governo sta avanzando rapidamente per cancellare Gaza» e che presto «tutta Gaza sarà ebraica».
Frasi come queste, dice Micaela Frulli, docente di diritto internazionale all’Università di Firenze, mostrano una «disumanizzazione totale» delle persone palestinesi: un elemento che da solo non prova che sia in corso un genocidio, ma che sta alla base di tutti i genocidi passati e riconosciuti come tali dai tribunali e dalla comunità internazionale.

Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz a luglio del 2025 (AP Photo/Mark Schiefelbein)
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In una recente intervista con il sito di news Middle East Eye, il giurista William Schabas ha detto che negli ultimi anni non c’è «nulla di paragonabile» alle dichiarazioni dei leader israeliani sui palestinesi. Nel 1993 Schabas fu uno dei primi giuristi a sostenere che in Ruanda esistesse un rischio concreto di genocidio, circa un anno prima che avvenisse, proprio a partire dalle dichiarazioni dei leader di etnia Hutu nei confronti dei civili Tutsi vittime dello sterminio. Oggi dice di vedere molte somiglianze con le dichiarazioni dei politici israeliani.
Schabas ha lavorato più volte con la Corte penale internazionale e con la Corte internazionale di giustizia, ed è stato presidente dell’International Association of Genocide Scholars. Più di dieci anni fa presiedette una commissione d’inchiesta dell’ONU sulle violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele durante la guerra nella Striscia di Gaza del 2014. La sua nomina fu criticata dalla destra israeliana, che lo accusò di conflitto di interessi per una consulenza da 1.300 dollari all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2012. Furono accuse considerate da altri pretestuose, ma Schabas alla fine si dimise, dicendo che non voleva compromettere il lavoro della commissione.
Tra i giuristi internazionali, Schabas ha un’interpretazione molto ristretta del crimine di genocidio, ma sostiene che quello in corso a Gaza lo sia «assolutamente». Dice anche che le azioni israeliane dell’ultimo anno e mezzo non sono minimamente paragonabili a quelle osservate nel 2014, un tempo in cui non avrebbe mai sostenuto questa posizione.
Non tutti i giuristi sono d’accordo con questa interpretazione delle dichiarazioni dei leader israeliani. Alcuni ritengono che non siano sufficienti per parlare di genocidio. È per esempio la posizione di Giorgio Sacerdoti, docente emerito di diritto internazionale all’università Bocconi di Milano e importante esponente della comunità ebraica italiana.
Sacerdoti dubita che le dichiarazioni pubbliche dei politici israeliani si possano considerare espressione di un piano genocidario. Dice che quelle del presidente israeliano Isaac Herzog, per esempio, furono pronunciate nei giorni immediatamente successivi al massacro del 7 ottobre, in cui circa 1200 persone vennero uccise e più di 250 vennero prese in ostaggio, quando in Israele l’impatto emotivo provocato dall’attacco di Hamas era enorme. Quelle di diversi ministri, come Katz o Smotrich, sarebbero invece dichiarazioni propagandistiche di politici estremisti, e non un’espressione del volere del governo, del parlamento e quindi dello stato di Israele.

Le macerie della moschea Yassin, colpita dai bombardamenti israeliani sul campo profughi di Shati, nella Striscia di Gaza, 9 ottobre 2023 (AP Photo/Adel Hana)
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L’obiettivo militare dichiarato e il principio di proporzionalità
Oltre alle dichiarazioni pubbliche, un altro punto al centro del dibattito è il rapporto tra l’obiettivo militare dichiarato da Israele e le misure adottate per raggiungerlo. Ufficialmente il governo israeliano ha sempre detto di aver invaso la Striscia dopo l’attacco del 7 ottobre del 2023 con l’obiettivo di sconfiggere del tutto Hamas e riportare a casa gli ostaggi rapiti. Che oggi questi obiettivi siano ancora validi, o che siano gli unici obiettivi di Israele, è un punto di discussione tra giuristi.
Secondo Sacerdoti, è innegabile che Israele a Gaza stia usando «la mano pesante» e che abbia violato le Convenzioni di Ginevra, i trattati fondativi del diritto internazionale umanitario che sanciscono cosa sia legale e cosa no in una guerra. Dice che Israele non starebbe rispettando il principio di proporzionalità previsto dai trattati, secondo cui la violenza e i danni causati a persone e obiettivi civili non devono essere «eccessivi» rispetto all’obiettivo militare dichiarato. Dice però che commettere crimini di guerra non basta a provare l’intenzione genocidaria: Israele starebbe sì combattendo una guerra brutale, ma le disastrose condizioni di vita nella Striscia e la quasi totale assenza di beni di prima necessità sarebbero una conseguenza di questa guerra, non la realizzazione di un piano di uccisione sistematica e intenzionale del popolo palestinese.
Altri giuristi consultati dal Post ritengono invece che la sproporzione delle azioni di Israele rispetto al suo obiettivo militare dichiarato sia un argomento a favore della tesi del genocidio.
Alcuni pensano che sia possibile provare che ormai gli obiettivi dichiarati da Israele siano una facciata che nasconde l’intento di sterminare in parte il popolo della Striscia ed espellere il resto. Schabas, per esempio, sostiene che dopo un anno e mezzo di assedio questi obiettivi militari non solo abbiano ampiamente superato il principio di proporzionalità, ma anche che «non siano da considerarsi credibili». In altre parole, se l’obiettivo fosse davvero solo distruggere Hamas e liberare gli ostaggi, Israele non avrebbe bisogno di impiegare tali livelli di violenza, bloccare per mesi l’entrata di beni essenziali e distruggere gran parte degli edifici della Striscia.

Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza, il 14 marzo 2025 (AP Photo/Jehad Alshrafi)
La giurista Paola Gaeta, docente di diritto internazionale al Graduate Institute di Ginevra, ha detto che «Israele non può non sapere che a causa del modo in cui sta conducendo questa guerra non sarà più possibile una vita palestinese a Gaza». Come detto, questo argomento era già stato usato nella sentenza sul genocidio di Srebrenica del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, dove Gaeta ha lavorato all’inizio della sua carriera: in quel caso si disse che i serbi bosniaci non potevano non sapere che stavano compiendo un genocidio contro i bosgnacchi.
Anche la giurista Melanie O’Brien, attuale presidente dell’International Association of Genocide Scholars, sostiene che le dichiarazioni dei leader israeliani unite ai bombardamenti indiscriminati, alla distruzione del sistema sanitario e delle infrastrutture della Striscia, e in particolare al blocco dell’entrata di beni di prima necessità, abbiano creato una situazione che porta al genocidio come risultato «inevitabile».
Con il blocco totale dell’arrivo dei beni di prima necessità nella Striscia e la creazione della Gaza Humanitarian Foundation, con cui Israele ha preso il controllo praticamente totale della distribuzione di cibo, diversi giuristi prima contrari alla tesi del genocidio hanno cominciato a cambiare idea o l’hanno cambiata del tutto.
Uno di loro è Marco Sassòli, docente emerito di diritto internazionale all’università di Ginevra e considerato uno dei principali esperti del diritto internazionale umanitario. Sassòli pensa ancora che sia molto difficile provare che nella Striscia di Gaza stia avvenendo un genocidio, anche per via della sua interpretazione molto stringente della Convenzione, ma oggi ne è un po’ meno convinto rispetto a qualche tempo fa: «Per me il genocidio dovrebbe essere ristretto a casi estremi, ma forse Gaza diventa un caso estremo».

Un uomo palestinese beve dell’acqua da un sacchetto di plastica mentre trasporta un sacco della Gaza Humanitarian Foundation a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, il 6 giugno 2025 (AP Photo/Abdel Kareem Hana)
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Sull’eventuale condanna davanti alla Corte internazionale di giustizia
Nonostante questo crescente consenso tra gli esperti di diritto internazionale, è tutt’altro che scontato che Israele venga condannato davanti alla Corte internazionale di giustizia. La situazione è complicata anche dal fatto che nei soli due casi in cui si è espressa sul genocidio che si sono finora conclusi, la Corte non ha condannato uno stato per aver commesso il crimine (la Corte internazionale di giustizia si occupa solo delle responsabilità degli stati, mentre le sentenze di condanna citate finora sono dei tribunali penali internazionali, che hanno competenza sui singoli individui).
Il fatto che non sia mai arrivata una condanna dipende anche da quanto sono stringenti i criteri usati dalla Corte nei casi di genocidio, dove si richiede che la quantità e la qualità delle prove portino alla conclusione che il genocidio sia «l’unica deduzione ragionevole» per le azioni dello stato accusato. Nei casi invece di altri crimini internazionali basta un’alta probabilità. Cosa si intenda esattamente per «l’unica deduzione ragionevole» è dibattuto.
Per alcuni giuristi «l’unica deduzione ragionevole» significa che per condannare uno stato per genocidio la Corte debba stabilire che il genocidio sia l’unico motivo che ne spieghi le azioni: quindi in questo caso dimostrare che Israele ha invaso la Striscia di Gaza con l’obiettivo di sterminare i palestinesi, e che la liberazione degli ostaggi e la sconfitta di Hamas sono solo obiettivi di facciata. Questa prima interpretazione è molto stringente e riduce i casi in cui la Corte potrebbe arrivare a una sentenza di genocidio.
Esiste un’altra interpretazione, più larga. Altri giuristi, fra cui Micaela Frulli, sostengono che l’espressione non escluda per forza la presenza di altri obiettivi, tra cui quelli militari. Secondo questa interpretazione, la Corte potrebbe ritenere Israele colpevole di genocidio anche se non avesse come unico obiettivo lo sterminio, ma coesistesse con obiettivi militari come liberare gli ostaggi e sconfiggere Hamas.
Può sembrare un punto tecnico o per addetti ai lavori, ma è importante: il prevalere dell’una o dell’altra interpretazione potrebbe essere decisivo nella decisione della Corte di condannare o meno Israele per genocidio.
I tempi sono lunghi e una sentenza della Corte potrebbe anche arrivare tra diversi anni. Intanto, valutando le accuse del Sudafrica contro Israele come plausibili e nonostante i suoi criteri molto stringenti, nel gennaio 2024 la Corte stabilì di fatto, attraverso la prima di una serie di misure provvisorie e urgenti, che esistesse un «rischio reale e imminente» di genocidio nella Striscia di Gaza. Ordinò a Israele di fermare tutti gli atti compiuti dal suo esercito che potessero rientrare in questo crimine.
Israele ha sostanzialmente ignorato questa richiesta e secondo diversi giuristi questo potrebbe rendere più probabile una sentenza di condanna. Chantal Meloni, docente di diritto penale internazionale all’Università Statale di Milano e una dei rappresentanti legali delle vittime palestinesi alla Corte penale internazionale, ha detto che potrebbe essere un fattore «determinante» nella decisione dei giudici.

Una manifestazione contro il governo di Benjamin Netanyahu e a favore della fine della guerra nella Striscia di Gaza a Tel Aviv, in Israele, il 26 luglio 2025 (ANSA/Ori Aviram/Middle EastImages/ABACAPRESS.COM)
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Il problema dell’usare la parola “genocidio”
Il crescente consenso tra i giuristi internazionali che Israele stia commettendo un genocidio è ancora poco percepito dall’opinione pubblica, anche a causa delle caratteristiche del dibattito su questo tema, a cominciare dall’idea – reale o percepita, o entrambe – che usare o non usare questa parola indichi innanzitutto un’appartenenza; senza contare il comprensibile desiderio di risparmiarsi la minacciosa ostilità espressa online da migliaia di persone una volta che si sostenga pubblicamente una tesi o il suo contrario.
In alcuni contesti, poi, come i talk show televisivi o i social media, che mescolano i giuristi a giornalisti, intellettuali, politici e attivisti, capita che gli argomenti giuridici vengano spostati su un piano retorico in cui è considerato inimmaginabile e irrispettoso accusare Israele di genocidio, di per sé. A rendere ancora più delicata questa discussione infatti è il peso politico e storico di questo termine, creato proprio in seguito al massacro di milioni di ebrei da parte della Germania nazista.
Secondo Francesco Strazzari, politologo e professore di relazioni internazionali della Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna, menzionare il genocidio innesca reazioni polarizzanti perché ha «implicazioni enormi sul piano della legittimazione storica, sul piano del senso di colpa dell’Occidente e su tutto quello che è stato mal digerito nella sua storia»: non solo significa accettare che Israele, nato in seguito a quello che è considerato il paradigma del genocidio, sia a sua volta capace di compierne uno, ma anche che tutti i paesi che lo sostengono siano complici di quello che sta avvenendo.
Sul piano politico, infatti, in passato il riconoscimento di un genocidio è stato spesso evitato o ritardato per non doverne affrontare le conseguenze.
È successo per esempio con il genocidio degli armeni: per decenni molti governi hanno evitato di definirlo come tale per non incrinare i rapporti con la Turchia. Una cosa simile accadde anche negli anni Novanta con il Ruanda e con la Bosnia Erzegovina, quando i governi e le istituzioni internazionali esitarono a usare la parola genocidio mentre erano in corso i conflitti: usarla avrebbe potuto implicare l’obbligo morale di intervenire per fermare i massacri, o quantomeno rafforzare gli argomenti di chi pensava fosse opportuno fare qualcosa.
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