La “settimana corta” per i parlamentari non è per forza una brutta idea

In breve: l'efficienza dei deputati non è direttamente collegata al tempo che trascorrono alla Camera

L'aula della Camera, semideserta, durante lo svolgimento di interpellanze urgenti il primo febbraio del 2019 (Roberto Monaldo/LaPresse)
L'aula della Camera, semideserta, durante lo svolgimento di interpellanze urgenti il primo febbraio del 2019 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Il 25 giugno, al termine della riunione dei capigruppo dei vari partiti alla Camera chiamata a definire il calendario dei lavori di luglio, il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, ha chiesto se non fosse il caso di modificare un po’ le abitudini dell’aula di Montecitorio. Ciriani ha cioè proposto, in modo abbastanza vago, di svolgere le interpellanze il giovedì, e non il venerdì come avviene ora di prassi.

L’idea nasce da una ragione molto pratica. Alle domande scritte che i deputati rivolgono al governo per conoscerne le intenzioni su alcune questioni molto specifiche (le interpellanze, appunto) deve rispondere un ministro o un sottosegretario competente: ma il venerdì è sempre abbastanza difficile garantire la presenza di esponenti del governo, essenzialmente perché il resto dell’attività parlamentare della settimana è già terminata e in tanti usano proprio il venerdì (o il lunedì) per svolgere impegni sul territorio o partecipare a eventi.

La proposta di Ciriani, dopo che Repubblica ne aveva dato notizia due giorni dopo, ha subito alimentato un dibattito animato e dai toni demagogici sul fatto che i parlamentari lavorano poco, che vogliono ottenere la «settimana corta», che sono scansafatiche, eccetera. L’opposizione, i cui rappresentanti alla riunione dei capigruppo non avevano affatto contestato Ciriani, ne ha approfittato per criticare il governo, vari giornali hanno esasperato il tutto, e alla fine lunedì Giorgia Meloni ha fatto sapere che non aveva gradito, né condiviso, quell’iniziativa di Ciriani.

La polemica poggia su un fraintendimento abbastanza ricorrente, quando si parla dell’attività del parlamento: che il rendimento del lavoro di deputati e senatori dipenda dal tempo effettivamente speso a Montecitorio o a Palazzo Madama, le sedi di Camera e Senato. Che insomma maggiore è il numero di ore e di giorni che trascorrono in aula, e più efficiente è il loro mandato di rappresentanti del popolo. Non è affatto così: anzi, spesso proprio le storture dei regolamenti, o le abitudini meno virtuose del lavoro parlamentare, fanno sì che il prolungarsi della permanenza in aula di deputati e senatori coincida con le circostanze di più scarsa produttività.

La questione delle interpellanze è un buon esempio di questa realtà. Quando le si fanno alla Camera, quasi sempre il venerdì mattina, l’aula è frequentata da una sparuta manciata di deputati: per lo più quelli che devono intervenire leggendo la domanda, e i pochissimi che sono interessati al tema posto. Le interpellanze riguardano infatti spesso temi molto specifici (per quelli più generali si prediligono, di solito, le interrogazioni, che avvengono di prassi il mercoledì pomeriggio durante il question time), e non di rado si concentrano sui problemi territoriali di scarso rilievo nazionale. E siccome i dettagli sulle interpellanze in programma vengono diffusi almeno il giorno prima, non c’è motivo per cui il deputato di Bologna debba restare a Roma un giorno in più per sentire parlare dei ritardi nel collaudo della diga in provincia di Matera, o quello siciliano dell’annosa questione dei lavoratori frontalieri di Como: preferiscono entrambi, e con buona ragione, tornarsene nei loro collegi elettorali e svolgere attività politica lì.

Il risultato è un’aula semideserta, con un paio di sottosegretari che rispondono alle domande, in un colloquio che quasi sempre si trascina stancamente. I vari ministeri ricevono con largo anticipo le domande, e i funzionari si occupano di scrivere le risposte che gli esponenti del governo dovranno leggere: quindi è rarissimo che durante questi dibattiti ci siano momenti di tensione.

Proprio il giovedì era stato a lungo il giorno dedicato alle interpellanze. Lo stesso regolamento della Camera suggerisce implicitamente questa soluzione, laddove stabilisce, all’articolo 138 bis, che le interpellanze urgenti, cioè quelle presentate più a ridosso della scadenza su questioni impreviste di una certa gravità, vengano «di norma» svolte il giovedì mattina. Da questo punto di vista, dunque, la proposta di Ciriani sarebbe un ritorno a un’antica prassi che è rimasta valida per decenni, e che è ancora largamente prevalente al Senato (che quasi mai si riunisce di venerdì).

Il ministro per i rapporti con il parlamento Luca Ciriani durante il question time alla Camera dei deputati, il 15 gennaio 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Il primo a metterla in discussione, ma solo parzialmente, fu Gianfranco Fini. Quando si insediò come presidente della Camera, nel 2008, annunciò che una delle priorità del suo mandato sarebbe stato quello di aumentare l’efficienza dei deputati, e disse dunque che si sarebbero svolte sedute «dal lunedì al venerdì». Erano i tempi in cui il dibattito sui privilegi del parlamento si stava facendo più violento, prendendo pieghe populiste a cui la classe politica provò in vario modo a reagire: il libro La casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo venne pubblicato nel 2007, lo stesso anno del primo raduno dei seguaci di Beppe Grillo a Bologna (il V-Day).

Ma la proposta di Fini fu poco più di un annuncio. E solo di rado le interpellanze vennero svolte il venerdì. Fu poi Dario Franceschini, tra il 2013 e il 2014, da ministro per i Rapporti col parlamento, ad affermare il cambio della prassi: vari ministri si lamentavano infatti che spesso il giovedì c’era troppa incertezza sull’orario dei loro interventi in aula per le interpellanze, subordinato alla conclusione delle sedute precedenti che si prolungavano in vari casi più del previsto. E per evitare quella perdita di tempo, Franceschini suggerì di spostare le interpellanze al venerdì mattina, in un orario che fosse più certo.

Ma siccome ogni governo ha le sue abitudini in merito alla programmazione dei lavori, ora i ministri e i sottosegretari del governo di Meloni hanno avanzato questa lamentela di cui Ciriani si è fatto portavoce. È un’iniziativa che, a seconda degli interessi dei singoli parlamentari, può comportare più o meno vantaggi, ma di certo non è un incentivo alla pigrizia. Anche perché l’attività politica di deputati e senatori non si esaurisce nelle loro funzioni parlamentari strettamente intese. Anche incontrare gli elettori, visitare uno stabilimento industriale o un carcere, confrontarsi con un imprenditore o con un sindacalista, partecipare a manifestazioni o convegni, fare sopralluoghi nelle zone problematiche delle loro regioni, tutto ciò è fare il parlamentare.

Non a caso, il regolamento della Camera tuttora prevede che per una settimana al mese, a eccezione del periodo di sessione di bilancio dedicato all’approvazione della manovra finanziaria, vengano sospesi i lavori di aula e di commissione e che quei giorni vengano destinati «allo svolgimento della altre attività inerenti al mandato parlamentare». È una disposizione tradizionalmente disattesa, questa, o meglio interpretata in modo un po’ fantasioso: la «settimana» non viene considerata nel suo intero, da lunedì a domenica, ma come la somma dei vari giorni del mese in cui l’attività è di fatto sospesa.