Le norme anacronistiche che rallentano i lavori del parlamento

In certi casi sono residui del passato, in altri procedure a cui deputati e senatori sono affezionati, ma si perde un sacco di tempo

di Valerio Valentini

Una foto dei banchi della camera semivuoti
L'aula della Camera semideserta, il 27 gennaio 2020 (Vincenzo Livieri/LaPresse)
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Alcuni a Montecitorio la chiamano «la pausa fiducia»: un po’ come la pausa caffè, o la pausa sigaretta, solo che questa non dura qualche minuto, ma una giornata intera. Il regolamento della Camera prevede infatti che quando il governo pone la questione di fiducia su un provvedimento l’attività parlamentare si interrompa per 24 ore. E così i deputati si ritrovano spesso senza granché da fare: i più solerti ne approfittano per studiare e portarsi avanti col lavoro, altri colgono l’occasione per organizzare incontri o partecipare a eventi pubblici, altri ancora semplicemente passano il tempo.

È una stranezza dei regolamenti parlamentari che di fatto oggi non serve a niente e ha l’unico effetto di rallentare i lavori. Non è l’unica: ci sono anzi molte norme anacronistiche che rendono spesso macchinosa l’attività del parlamento, che in questo modo finisce per essere più inconcludente e meno produttivo.

La «pausa fiducia» è un residuo novecentesco, che aveva un senso quando i trasporti erano complicati e per raggiungere Roma dalle varie zone d’Italia ci si impiegavano spesso intere giornate. Era stato quindi trovato un modo per impedire alla maggioranza di utilizzare in maniera proditoria lo strumento della fiducia, cioè approfittando di momenti in cui tra i gruppi di opposizione c’erano molti deputati assenti. La “fiducia” è l’istituto con cui il governo lega la sua permanenza in carica all’approvazione di un provvedimento: la discussione viene limitata e costretta entro certi tempi, dopodiché si procede al voto di fiducia, ma non prima delle 24 ore di pausa.

Il Senato, che già in passato aveva adottato un regolamento più innovativo e che ancora nel luglio del 2022 lo ha aggiornato, ha reso da tempo meno cervellotiche le procedure di voto in caso di fiducia. Anzitutto non è prevista la sospensione dei lavori per 24 ore. In secondo luogo non c’è la distinzione tra voto di fiducia e voto sul provvedimento su cui la fiducia è stata posta. Alla Camera, infatti, quando il governo pone la questione di fiducia si procede a due diverse votazioni: una sulla fiducia, cioè di fatto sulla riconferma del mandato al governo, e l’altra sul testo da approvare. Ma è chiaro che l’esito di entrambe le votazioni sarà lo stesso, visto che nei fatti si sta decidendo la stessa cosa.

Questo passaggio determina una significativa dilatazione dei tempi, anche perché la votazione sul provvedimento è caratterizzata da un’altra abitudine ormai privata di ogni reale significato, e cioè quella degli ordini del giorno.

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Gli ordini del giorno sono atti d’indirizzo con cui il parlamento impegna il governo a fare o non fare certe cose: ma non sono atti vincolanti, quindi il governo non è tenuto a rispettarli. Erano inizialmente uno strumento utile a segnalare gli orientamenti dei vari gruppi e dei vari schieramenti politici su alcuni temi: come dei segnali che i partiti inviavano al governo per sollecitare alcuni interventi. Col tempo però sono diventati perlopiù un espediente con cui le opposizioni fanno ostruzionismo, prolungando in modo spesso strumentale e pretestuoso le discussioni e rinviando l’approvazione dei provvedimenti, per provare a mettere in difficoltà la maggioranza.

I presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, il 30 maggio 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Negli ultimi tempi, specie da quando l’utilizzo dei social network ha condizionato l’attività parlamentare, gli ordini del giorno hanno assunto sempre più una funzione meramente propagandistica: quando deputati e senatori tengono a far vedere che si danno da fare per una certa causa, o a favore di una certa categoria, presentano appunto ordini del giorno che gli consentono di avere un minimo di visibilità, un intervento in aula di qualche minuto per «illustrare il contenuto» (come si dice in gergo), e poi quell’intervento quasi sempre diventa una clip da condividere sui propri profili di Facebook o di Instagram, o quantomeno per sperare che un’agenzia di stampa li noti e ne dia conto.

Nei fatti però gli ordini del giorno che davvero hanno ricadute concrete sull’operato del governo sono una percentuale minuscola delle migliaia discussi ogni mese in parlamento.

Anche in questo caso, il Senato ha un regolamento più ragionevole: gli ordini del giorno vengono presentati e discussi per lo più in commissione, dove però la visibilità mediatica è ridotta e dunque le iniziative strumentali meno incoraggiate. E soprattutto, in occasione dei voti di fiducia, tutti gli ordini del giorno decadono insieme agli emendamenti che non si è avuto tempo di discutere e votare. Alla Camera invece no. Per cui quasi sempre le questioni di fiducia si concludono con sessioni lunghissime in cui si discutono e si votano gli ordini del giorno in un clima un po’ surreale per la sostanziale inutilità del procedimento.

Proprio perché ci sono decine – e spesso centinaia – di votazioni una di seguito all’altra, tutti i deputati sono chiamati a essere presenti in aula, anche se quasi nessuno e a eccezione di poche occasioni politicamente delicate sa davvero, di volta in volta, su cosa si stia votando. I capigruppo, o i delegati d’aula di ciascun gruppo, segnalano al resto dei loro colleghi come votare, o mostrando il pollice (recto, cioè in su, se bisogna votare a favore; verso, cioè in giù, se bisogna votare contro), oppure urlando «rosso» o «verde», a seconda che si debba respingere o sostenere l’ordine del giorno (per votare i deputati hanno dei bottoni nella loro postazione). Per ore, 400 deputati – o pochi meno, a seconda delle presenze – stanno lì a schiacciare distrattamente i pulsanti in maniera spesso quasi del tutto inconsapevole. Un po’ tutti sbuffano e si lamentano di ciò, salvo poi esaltarsi quando è il turno del loro.

Per correggere almeno in parte questa prassi, a ottobre la Camera ha approvato una modifica del regolamento a cui hanno lavorato, in particolare, i deputati Federico Fornaro del PD e Igor Iezzi della Lega. Tra le varie modifiche, entrate in vigore dal primo gennaio, molte sono animate dall’intenzione di ridurre i tempi morti e limitare le consuetudini più improduttive. Per esempio, quando manca il numero legale per una votazione, la sospensione dei lavori non è più di un’ora come avveniva prima, ma di almeno 20 minuti (come avviene già al Senato): il numero legale manca quando al momento della verifica dei presenti in aula c’è meno della metà dei deputati, al netto di quelli assenti con una giustificazione e dunque considerati “in missione”. Con le nuove regole vengono inoltre modificati i parametri con cui si assegna a ciascun deputato e a ciascun gruppo parlamentare un certo tempo per fare i propri interventi durante le discussioni dei provvedimenti. E, appunto, sono state cambiate un po’ anche le norme sugli ordini del giorno.

Si è infatti stabilito che debbano riguardare «specifiche disposizioni della legge in esame», così da evitare il proliferare di testi che hanno solo vagamente a che fare con la materia del provvedimento a cui si agganciano; sono state rese più stringenti le scadenze per la loro presentazione e soprattutto si è eliminata la fase della cosiddetta «illustrazione», quella in cui ogni deputato presentava il proprio ordine del giorno, non di rado ricorrendo a espedienti piuttosto discutibili per attirare l’attenzione.

Nel complesso, però, le modifiche sono piuttosto limitate, e del resto già si sta discutendo un ulteriore e più incisivo aggiornamento del regolamento della Camera, anche per adeguarlo alla riduzione del numero dei parlamentari entrata in vigore da questa legislatura (il Senato vi si è adeguato, almeno formalmente, per esempio riducendo il numero delle commissioni, la Camera non ancora). Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e profondo conoscitore dei regolamenti, ha per esempio deciso di non votare queste modifiche perché, pur introducendo cambiamenti sensati, sono a suo avviso poco efficaci e molto parziali.

Un discorso analogo a quello che riguarda gli ordini del giorno può essere fatto anche sugli interventi di fine seduta: al termine di ogni sessione di voto o di discussione, prima insomma che i lavori vengano sospesi, i parlamentari hanno facoltà di prendere la parola e dire, grosso modo, quello che vogliono. Ricordare un collega di partito morto, celebrare una ricorrenza a cui sono legati, segnalare un avvenimento, richiamare l’attenzione su un certo tema: il tutto avviene mentre il resto dell’aula già rumoreggia e si svuota. Se prima erano un momento di trascurabile discussione, negli ultimi tempi sono spesso diventati motivo di inutile polemica, specie da quando, a partire dal 2013, il Movimento 5 Stelle prima e Fratelli d’Italia poi li hanno trasformati sempre più in circostanze in cui attaccare gli avversari su temi che non hanno attinenza con l’argomento trattato in quel giorno dall’aula.

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Il motivo per cui si fa fatica a liberarsi di questi anacronismi, di cui si parla da anni ma su cui si interviene assai di rado e spesso in maniera limitata, è che queste procedure hanno a che vedere col rapporto tra maggioranza e opposizione, e dunque con gli equilibri istituzionali e politici che si creano all’inizio di ogni legislatura. In sostanza, ciò che alla maggioranza appare come la necessità di snellire le procedure e velocizzare i lavori, l’opposizione lo considera un tentativo di irreggimentare il dibattito e indebolire gli strumenti a disposizione delle minoranze. I ruoli ciclicamente si invertono, con le incoerenze e le ipocrisie del caso: a distanza di anni, chi invocava semplificazioni quando era al governo denuncia le forzature di chi è al governo attuale, e viceversa.

Il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin osserva il collega di partito Claudio Lotito addormentato in aula, il 17 ottobre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

In altri casi, le resistenze ad aggiornare i regolamenti hanno a che vedere con l’affezione per certi formalismi che, proprio in quanto barocchi e desueti, contribuiscono a dare una certa sacralità ai lavori parlamentari. Tuttavia quello che rende davvero nobile l’attività di deputati e senatori è la loro capacità di incidere sulla vita del paese: da questo punto di vista è abbastanza evidente il paradosso per cui il mantenimento di certe procedure anacronistiche ha favorito il progressivo indebolimento delle competenze dei parlamentari, sempre più costretti a subire le iniziative legislative dei governi. È un po’ come se l’inconcludente verbosità e la pretestuosità delle polemiche sia ciò che alla Camera e al Senato è rimasto per affermare la propria ragion d’essere, in una fase storica in cui il potere effettivo di deputati e senatori è stato eroso dall’invadenza dei governi.

Ci sono poi altre procedure abbastanza anacronistiche che possono spesso appesantire o rallentare i lavori, ma che si prestano anche ai giochi tattici dei vari partiti: in questo senso chi sa sfruttare meglio i regolamenti riesce spesso a indirizzare a proprio piacimento i lavori di giornata, e in certi casi anche i destini di governi e maggioranze.

Le sedute dell’aula, sia alla Camera sia al Senato, si aprono con la lettura del processo verbale, cioè del resoconto sommario di quanto accaduto nella seduta precedente: una specie di riassuntone che serve a dare continuità ai lavori. Uno dei segretari d’aula, indicati dai vari gruppi, legge il resoconto che poi, se non ci sono obiezioni, si considera approvato senza bisogno di votazione. La cosa a volte può andare avanti per dei minuti senza che nessuno, o quasi, presti davvero attenzione a ciò che si dice, salvo in rari casi. Come il 19 giugno del 2020, quando proprio questa procedura contribuì a scongiurare il rischio concreto di una crisi di governo.

Il giorno prima, un giovedì, il Senato aveva approvato un decreto su cui il governo di centrosinistra di Giuseppe Conte (quello sostenuto da PD e M5S) aveva posto la questione di fiducia, ma quel voto era poi stato annullato perché ci si era accorti che in aula mancava il numero legale: erano presenti cioè solo 149 senatori, e c’era stato un errore nel conteggio ufficiale. La presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia e quindi all’epoca all’opposizione, aveva quindi deciso in maniera piuttosto irrituale di riconvocare l’aula per far ripetere la votazione l’indomani mattina alle 9:30. L’indomani non a caso era un venerdì, un giorno in cui i parlamentari non sono quasi mai a Roma, ma svolgono attività nei loro collegi elettorali di appartenenza. Tanti esponenti del PD e del M5S dovettero dunque prendere treni e aerei all’alba per arrivare in tempo al Senato, mentre i partiti di destra speravano di propiziare così un incidente nel governo.

A leggere il resoconto della seduta precedente, quel venerdì mattina, fu il senatore di sinistra Francesco Laforgia, uno della maggioranza. Lesse le poche decine di righe con estrema lentezza, con lunghe pause, impiegando oltre sette minuti per svolgere un’operazione che di solito richiede qualche decina di secondi. Poi altri senatori di maggioranza fecero interventi sul verbale stesso, contestando, obiettando, argomentando in maniera più o meno pretestuosa, e nel frattempo l’aula si andava riempiendo. La votazione effettiva iniziò dopo mezz’ora abbondante dall’apertura della seduta, quando ormai tanti dei ritardatari avevano avuto modo di raggiungere le loro postazioni. Alla fine la maggioranza riuscì ad approvare la questione di fiducia, e il governo di Conte si salvò.

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