Il dilemma del freelance

«Dopo sette anni di vita da designer a Londra, l’etichetta comincia a darmi prurito. Alla fine di ogni progetto mi domando: “sto andando da qualche parte?”»

(grafica di Gianluca Alla)
(grafica di Gianluca Alla)
Gianluca Alla
Gianluca Alla

Designer a Londra e altrove. Disegna identità visive, poster, animazioni, lettere e tote bag sotto il nome di agof.

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«E anche stavolta non ho mandato a fanculo nessuno». Questa è, tra le tante perle dette alla conclusione di ogni progetto, la preferita della mia ragazza. Era un venerdì sera e con questa frase mettevo fine all’ennesimo snervante progetto da freelance.

Faccio la vita del designer freelance a Londra da sette anni. Dopo qualche esperienza lavorativa tra Italia e Svizzera, nel 2018 decisi di iniziare una carriera indipendente, convinto di voler gestire il mio tempo senza dipendere da uno studio. Questa decisione maturò anche perché, quando ero uno studente universitario, un designer più grande mi consigliò: «Decidi ora. Studio tuo o carriera in agenzia? Fidati, non farti sfruttare». Mi fidai. Feci di quelle parole un dogma.

La mia ragazza viveva a Londra da qualche anno e pensai quindi che la soluzione più logica fosse quella di spostarmi anch’io oltre la Manica.

Non conoscevo nessuno, ma riuscii tramite lei a racimolare altri contatti di designer freelance, rigorosamente compatrioti, che lavoravano a Londra. Perché si sa che è più facile fidarsi di chi parla la propria lingua piuttosto che di chi beve il cappuccino a pranzo.

Senza essersi messi d’accordo, mi raccontarono la stessa bugia.

«Ah che bello, vieni vieni che così farai un sacco di bei progetti», «La cosa migliore è l’indipendenza, devi rendere conto solo a te stesso», «Contatta questa agenzia, hanno sempre bisogno di qualcuno, ti chiameranno subito».

Mi convinsi che quella era l’unica scelta giusta per me. Mi trasferii a Londra a settembre 2018. Scrissi prima ai contatti che mi erano stati passati, i quali non mi risposero. Passai poi al piano B: contattare tutti gli studi di Londra. Ma veramente tutti. 

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Immettersi in un mercato già ben rodato e saturo di freelance è tortuoso. Bisogna scrivere a molte persone, nella speranza che qualcuno legga la tua mail, ti conceda udienza e poi una possibilità.

Realizzai quello che poi avrebbe preso il nome di “Sistemone”. Il termine ha in realtà altre origini. Un mio amico delle superiori lo attuava con le ragazze. Il senso era: scrivo a tutte, prima o poi qualcuna accetterà un’uscita. Ancora oggi mi sembra che questa tattica non faccia una piega.

I mesi successivi al mio arrivo furono un pellegrinaggio da uno studio all’altro. Tante chiacchiere. Troppe promesse. Nessun progetto.

I colloqui con i creative director degli studi sono spesso situazioni stressanti.

C’è chi non ha tempo e mette fretta, tagliando corto a ogni progetto. Sono i più disinteressati e si potrebbe recitare Il cinque maggio al contrario e non se ne accorgerebbero liquidando la conversazione con uno «strong portfolio».

Poi c’è chi in una chiacchierata di mezz’ora passa almeno 20 minuti a raccontare di tutti i premi che lo studio ha vinto, lasciandoti gli ultimi 10 minuti di tempo per sintetizzare 50 pagine di presentazione che a quel punto bisogna recitare alla velocità di Paolo Bonolis. Oppure c’è chi, a fine colloquio, ti offre un posto di lavoro fisso, il cosiddetto full-time. Ne ricordo uno in particolare. Era un venerdì di novembre. Ero a Londra da qualche mese e non avevo ancora emesso una invoice (fattura). Ero frustrato, triste e cominciavo a essere disilluso. Il tipo però mi era sembrato aperto, mi voleva conoscere. A fine chiacchierata mi chiese: «E se ti offrissi uno stage?». Mi era già capitato altre volte di rifiutare lavori full-time, ma il fatto che mi offrisse “solo” uno stage mi fece sentire sminuito. Quell’offerta mi aprì in due. Una metà lo voleva mandare a quel paese, l’altra disse un secco «No». Rilanciò offrendomi una posizione da junior designer. L’altra metà disse nuovamente «No». Salutai e non lo vidi mai più.

Questo trucco del «ti offro una o due posizioni sotto il tuo livello» mi sarebbe poi capitato altre volte. All’epoca non sapevo che fosse la base di una negoziazione e che non dovevo prendermela. Ma me la presi. Così come in futuro me la sarei presa tutte le altre volte. Tutti quegli incontri però mi insegnarono l’importanza di sapersi vendere.

Fare il designer freelance non vuol dire solo progettare e mostrare quello che si è fatto. Prima ancora, serve avere dei clienti. E per avere clienti, bisogna costruire un network. E per creare un network, si deve capire al volo chi si ha davanti durante un colloquio, saper leggere la situazione. Presentarsi con l’idea di recitare il portfolio a memoria, raccontando quanto si è stati bravi in quel particolare progetto, raramente funziona. È fondamentale adattarsi, capire subito di cosa ha bisogno l’intervistatore e riuscire a vendersi come «la persona giusta al momento giusto».

Dopo mesi passati avanti e indietro per studi e agenzie senza grandi risultati, mi feci più furbo e riuscii a trovare un impiego da permalencer, una sorta di ibrido tra un full-time e un freelance. Rimani freelance con ritmi e impegni da dipendente ma senza i suoi benefici.

L’azienda cercava qualcuno che preparasse delle grafiche giorno per giorno. L’idea era iniziare da permalencer e poi passare al full-time. Non volevo qualcosa di permanente, ma accettai. Mentii senza sentirmi in colpa. Avevo bisogno di lavorare. Qualsiasi stabilità era ossigeno.

Oltre al lavoro da permalencer, iniziai anche a collaborare con alcuni clienti che mi affidavano piccoli progetti. Erano lavori noiosi, ma il solo fatto di avere qualcosa da fare, e di essere riuscito a procurarmelo da solo, mi entusiasmava. Compresi l’importanza di tenere il piede sempre in due scarpe. Avere più conversazioni aperte, gestire più progetti, anche se stressante, ti salva se uno salta. Un freelance non può indirizzare tutte le sue energie su un unico cliente. Nulla è per sempre, figuriamoci un cliente.

A gennaio 2019 finalmente iniziai a emettere qualche fattura. E non c’è niente di più bello che inviare al cliente una fattura. Una fattura vuol dire progetto finito. Una fattura vuol dire che il tuo tempo, concetto astratto, si materializza finalmente in denaro. Sempre pagata con puntuale ritardo, ma comunque soldi sul conto.

Non ero ancora soddisfatto di quello che facevo, avevo altre ambizioni, ma mi ripetevo che quello era solo l’inizio. Prima o poi, le cose sarebbero cambiate.

Infatti durante il mio lavoro da permalencer accadde qualcosa che cambiò la mia permanenza a Londra. A fine marzo riuscii a fissare un incontro con una testata inglese online specializzata in tutto quello che ruota intorno a quella che viene definita “creative industry”. Non avevo colloqui da un paio di mesi e forse, visto che delle volte tendiamo a dimenticare la frustrazione passata con facilità e soprattutto con ingenuità, andai a quell’incontro con un insolito entusiasmo. Due settimane dopo mi proposero un progetto. Ero ancora un permalencer e quindi mi accordai con loro per lavorare di sera e nei fine settimana.

Pubblicato il progetto, una serie di illustrazioni e animazioni per degli articoli, il mio nome era su ogni pezzo della testata e da lì il Sistemone si ribaltò. Non ero più io a dover scrivere alle agenzie. Erano loro a cercare me. Avevano visto il mio ultimo lavoro e volevano collaborare.

A maggio 2019 lasciai il mio ruolo da permalencer ed iniziò così un periodo di tanti progetti che potevano durare un giorno come tre mesi, che si accavallavano tra loro e dei quali non ero mai veramente padrone. Facevo zapping tra uno studio e l’altro. A ogni progetto tutto era nuovo. Persone, sedie, accenti, monitor, musica e odori.

Con quei primi incarichi capii quale fosse il ruolo del freelance all’interno di un sistema lavorativo. A volte si è chiamati per creare il concept e si lascia il lavoro a qualcun altro dello studio. Altre volte si entra nella fase finale, per sviluppare idee pensate da altri designer.

Capita di essere chiamati solo per sistemare le slide finali di una presentazione, o di copertura, quando qualcuno è in ferie e non si sa se ci saranno commenti dal cliente. Spesso non arrivano, e il freelance viene rimbalzato tra un progetto e l’altro, senza direzione, perché nessuno sa bene cosa fargli fare.

Alla fine di ogni progetto non ci si sente parte di niente. Non si appartiene a nessun team e il contributo che si dà ai progetti è spesso percepito come un supporto temporaneo. Inoltre è difficile gestire il tempo libero perché si è sempre alle prese con lavori nuovi e non si trova mai il coraggio di dire «no» a nessuno per paura che quel periodo possa finire. Si cerca sempre il modo di incastrare tutto quello che si deve fare.

Organizzare la propria vita privata, pianificare un viaggio o altri impegni fuori dal lavoro diventa complesso, perché si è sempre sul chi va là nel caso in cui arrivi qualcosa di nuovo.

Tutto questo era faticoso. Ma in fondo mi andava bene, era quello che volevo. E lo stavo facendo.

In quei mesi successe molto, ma un episodio fu fondamentale per farmi capire come viene percepito un freelance dagli studi. Ero stato invitato a parlare del mio lavoro durante una conferenza a Mosca e con la mia ragazza decidemmo di allungare il viaggio. Durante il soggiorno mi contattò uno studio per un progetto al quale mi ero proposto qualche settimana prima.

La call con i due creative director fu tranquilla e informale. Verso la fine, uno di loro commentò: «Ho visto che viaggi molto». Sul mio portfolio, infatti, riportavo: «Gianluca Alla. Graphic Designer. I have set foot in 49 countries. 50 soon». Mi sembrava una nota simpatica. Risposi: «Sì, mi piace viaggiare. Ora per esempio sono in Russia». Lui replicò: «Beato te, noi dobbiamo lavorare e non possiamo viaggiare». La frase mi gelò. Pochi istanti dopo la chiamata finì.

Ci rimasi male. Stavo facendo di tutto per bilanciare lavoro e vita privata, e qualcuno che non mi conosceva mi fece sentire come se non stessi facendo abbastanza. Forse esagerai perché mi sentivo in colpa per essere in viaggio e lavorare da una scrivania d’hotel.

Due giorni dopo mi ricontattarono per iniziare. L’istinto era di rifiutare, ma risposi con un diplomatico «Great, amazing», chiedendo però di parlare del compenso. Mi proposero una day rate. Rilanciai, ma mi dissero che non potevano aumentare il budget e mi chiesero di venire loro incontro. Ero ancora irritato. Pensai di rispondere con sarcasmo, che con loro dovevo applicare la “tassa di antipatia”, o dire che mi servivano più soldi per il prossimo viaggio.

Scelsi invece la terza opzione. Dissi che era un peccato non trovare un accordo economico e che speravo di collaborare in futuro. Li salutai e non li sentii più.

Dopo quella mail, cancellai dal portfolio la frase sui 49 paesi.

Anche se alcuni episodi spiacevoli mi colpivano più del dovuto, mi insegnavano a gestire meglio il lavoro e a costruire un’immagine più solida come professionista. Poco a poco, riuscivo a dare un senso al caos di quel periodo.

Poi nel 2020 arrivò il Covid, una mazzata inaspettata. Dopo un anno e mezzo di capriole, nel giro di due settimane, a maggio 2020 mi ritrovai senza più niente da fare. La casella di posta era sempre vuota. Aggiornavo Gmail sperando succedesse qualcosa.

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Riuscii a “sopravvivere” durante quel periodo solo perché realizzai una serie di progetti personali che ebbero un discreto successo e mi permisero di nuotare in quel mare di tempo libero che avevo a cui non ero già più abituato.

Con il Covid capii però che, nella vita di un freelance, l’alternanza tra periodi caotici e momenti di poco lavoro è frequente e bisogna essere pronti ad affrontarla. Oggi, quando succede, ho una serie di progetti paralleli che mi aiutano a occupare il tempo. Cucio borse, imparo a programmare con p5, scrivo storie come questa, cucino, leggo o faccio una parola crittografata in più.

Dopo l’estate del primo lockdown, improvvisamente l’applicazione di Gmail tornò a mostrare un pallino rosso con un numero al centro. Il numero cresceva e così anche il mio umore migliorava. Il lavoro stava cambiando e non sapevo ancora quanto tutto questo mi sarebbe piaciuto.

Arrivò il “Work from Home”. Non si andava più negli studi. Non si doveva più prendere un mezzo puzzolente in un vagone pieno di persone con bicchieri colmi di caffè pronti a fare uno tsunami. Si poteva lavorare da casa. Bellissimo.

Cominciai, questa volta per davvero, a diventare un po’ più padrone del mio tempo, a gestire il lavoro. Organizzai una sorta di mini studio. Sedie comode. Doppio schermo. Un tavolo più grande. Una cassa Sonos per sentire, rigorosamente in questo ordine, la mattina “Indie Classic” e il pomeriggio “Indie Italia”. Il caffè della moka a merenda. Passeggiate al parco invece che verso la stazione.

Per i successivi tre anni pensai di aver raggiunto un equilibrio.

Entrai in contatto con alcuni brand per cui curavo i progetti dall’inizio alla fine. Cominciai a insegnare e a fare workshop per università e associazioni.

Non saltavo più da uno studio all’altro, ma camminavo come un equilibrista su una linea sottile che divideva la vita privata dal lavoro.

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Qualche anno dopo però, nel marzo 2023, mi accorsi che quella linea sottile in realtà era un elastico, e che bastava poco per deformare la situazione e causare instabilità.

Andai a sentire una lecture durante un evento per il quale avevo disegnato l’identità visiva. Ero lì fondamentalmente in veste di reporter per fotografare il lavoro fatto. Non davo peso a quello che si diceva sul palco. Poi però una ragazza, una collega freelance, prese la parola dal pubblico e chiese un parere alla persona che stava parlando.

«Io sono una freelance, lo faccio da quattro anni. I miei compagni di università che si sono laureati con me lavorano per degli studi. Loro vanno avanti, ottengono promozioni. Io invece rimango sempre freelance, come faccio a fare il salto in avanti?»

Boom.

Sentii questo dentro la mia testa. Mi ero adagiato su una situazione? Stavo andando avanti? 

[Per la cronaca, la risposta del tipo sul palco fu inutile.]

È un po’ come il paradosso dei gemelli. Uno va nello spazio, uno rimane sulla terra. Quello dello spazio invecchia meno che quello rimasto qui. Così, due designer, mettendo per assurdo che abbiano esattamente le stesse capacità, finiscono l’università insieme. Uno inizia a lavorare come freelance, l’altro full-time. Il primo ha una carriera più lenta rispetto al secondo.

Non pensavo che prima o poi il paradosso dei gemelli mi sarebbe servito nella vita.

L’etichetta “freelance” cominciò così a darmi prurito. Alla fine di ogni progetto mi domandavo «Sto andando da qualche parte?».

A distanza di due anni continuo ancora a pormi la stessa domanda.

A questo punto della storia vorrei trarre delle conclusioni. Ma fare il freelance vale la pena? Si è veramente liberi? Vorrei poter rispondere ma evito.

Quello che posso dire è che libertà e autonomia sono concetti quasi utopici nel mondo del lavoro. Alla fine dipendiamo sempre da qualcuno, un capo o un cliente o una terza persona che ci sceglie.

Quando mi si fa notare che i miei racconti tendono ad avere una visione piuttosto negativa, spesso mi viene chiesto: «Ma tu perché lo fai?».

Lo faccio perché «Design is my thing and I’ll do whatever it takes».

E anche se usare frasi in inglese per esprimere un concetto in italiano può risultare antipatico, questa frase è intraducibile. Perché «It’s my thing» significa che una persona è appassionata di quello che fa e, allo stesso tempo, che è portata per quella cosa. È un vestito cucito su misura.

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