Il governo vuole tirarla in lungo sul caso di Almasri

Pensa che gli convenga e spera nell'aiuto di Trump, ma è un approccio rischioso

di Valerio Valentini

Una caricatura del ministro Matteo Piantedosi disegnata dal senatore del PD Filippo Sensi durante l'informativa del governo sul caso di Almasri, 5 febbraio 2025 (ANSA/FABIO FRUSTACI)
Una caricatura del ministro Matteo Piantedosi disegnata dal senatore del PD Filippo Sensi durante l'informativa del governo sul caso di Almasri, 5 febbraio 2025 (ANSA/FABIO FRUSTACI)
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Da parecchi mesi, la strategia del governo di Giorgia Meloni per affrontare il caso di Almasri, il capo della polizia giudiziaria libica, è abbastanza chiara. Gli stessi ministri più direttamente coinvolti, o i loro collaboratori, informalmente lo confermano: guadagnare tempo, se possibile perderne, e alimentare una polemica più sul metodo che non sul merito con la Corte penale internazionale (CPI). È una strategia che poggia sulla convinzione che nei prossimi mesi, con ogni probabilità, il mandato della Corte e le sue facoltà di indagini verranno ridimensionate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, che può influenzare in vari modi la Corte, soprattutto in merito a reati come quelli di cui è accusato Almasri, cioè i crimini di guerra.

– Leggi anche: Cosa non torna nel caso di Almasri

Il governo è dunque convinto di risolversi il problema per via diplomatica e politica, prima che giuridica: perché sia il ministro degli Esteri che quello della Giustizia confidano nel fatto che sarà, tra gli altri, Donald Trump a chiedere di limitare i poteri d’indagine della Corte, e a pretendere una ridefinizione molto più limitata del reato di crimine di guerra. E a quel punto il governo potrebbe assecondare gli Stati Uniti e sostenere che l’operato della Corte nei confronti dell’Italia sul caso Almasri fosse ingiusto.

Anche gli sviluppi più recenti e le ultime scelte del governo di Meloni si spiegano alla luce di questa convinzione. Il 26 giugno la procura della Corte penale internazionale ha replicato al governo, ribadendo le contestazioni fatte in passato sulla mancata esecuzione del mandato d’arresto emesso dalla Corte stessa nei confronti di Njeem Osama Almasri. La Corte ha dunque confutato le osservazioni che la presidenza del Consiglio aveva inviato per giustificare la propria condotta – in particolare, l’aver liberato e rimpatriato Almasri, andando quindi contro la richiesta della CPI – e ha annunciato che deferirà il governo presso l’assemblea dei paesi che riconoscono la giurisdizione della Corte, o al Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi alla Camera dei deputati durante l’informativa sul caso Almasri, il 5 febbraio 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Ma questo esito era in fondo messo in conto dal governo italiano: e avrà l’effetto di dilatare ancor più i tempi. Per il deferimento di un paese agli organi competenti dell’ONU, cioè per avviare una procedura che rimette all’ONU il dovere di risolvere la disputa e stabilire insomma chi ha ragione, ci vorranno dei mesi. E i precedenti dicono che solo di rado ciò porta a sanzioni pecuniarie, che comunque sarebbero di lieve entità per l’Italia. Ma in ogni caso, il tutto si risolve in un ulteriore allungamento dei tempi, e in un inasprimento del confronto tra il governo e la CPI: grosso modo, quel che Meloni e i suoi ministri pensano sia più utile per loro.

Del resto il governo ha seguito questa strada fin dall’inizio. Prima ha cercato di minimizzare la portata dei fatti. Poi ha fornito spiegazioni parziali, lacunose e contraddittorie. Infine, quando ormai non era più possibile liquidare il caso, ha deciso di contestare la condotta della CPI. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha fatto leva su alcuni vizi di forma presenti nel mandato di cattura emesso dalla Corte, ne ha fatto una questione di cavilli senza mai però rispondere all’obiezione di base, tuttora valida, cioè che sarebbe bastato comunque un suo minimo intervento per sanare questi errori e procedere secondo le richieste della CPI. Poi Nordio ha contestato il mandato di cattura sposando in pieno le obiezioni (nel gergo tecnico: la dissenting opinion) di una delle tre giudici che l’avevano emesso, ignorando evidentemente che il collegio decide a maggioranza, e non all’unanimità.

E nel frattempo sia dalla presidenza del Consiglio sia dai ministeri dell’Interno e degli Esteri venivano diffusi informalmente dubbi e speculazioni sul fatto che la CPI avesse emesso il mandato di cattura solo il 18 gennaio, quando Almasri era entrato in Italia, e non nei giorni precedenti quando era in altri paesi europei, proprio per mettere in imbarazzo il governo di Meloni.

Il generale libico Njeem Osama Almasri Habish atterra a Tripoli il 21 gennaio 2025, riportato in patria da un volo di Stato italiano, e viene accolto da uno degli amici e sostenitori presenti al suo arrivo (ANSA/COURTESY FAWASELMEDIA.COM)

Erano tutte ricostruzioni destinate ad avere scarsa o nulla validità nella disputa con la CPI, che infatti si è fatta più ruvida. Il 17 febbraio la Corte ha chiesto chiarimenti al governo, che ha risposto in netto ritardo solo il 30 aprile, dopo aver chiesto e ottenuto due proroghe, a metà marzo e a metà aprile. Nel frattempo il governo ha presentato alla Corte un documento mai citato prima: una richiesta di estradizione di Almasri datata 20 gennaio, fatta dalla procura di Tripoli per ottenere che il miliziano venisse liberato e riportato in Libia. Un documento che avrebbe potuto forse giustificare parzialmente la scelta del governo italiano di rilasciare Almasri: ma questa versione sarebbe stata l’ennesima prodotta dall’Italia, tanto più che di questa richiesta di estradizione nessuno dei ministri chiamati a spiegare il caso aveva mai fatto menzione nei mesi precedenti.

Peraltro il modo in cui è stato scritto l’atto con le osservazioni da parte del governo ha reso di fatto necessario che a replicare fosse non i giudici della CPI, ma la procura, cioè chi di fatto ha condotto l’inchiesta e ha avviato la richiesta di arresto nei confronti di Almasri: ed era dunque scontato che nelle risposte della procura della Corte venissero ribadite le ragioni che avevano portato a contestare l’azione del governo, le cui obiezioni sono state confutate punto per punto.

Il risultato è che tutto si prolungherà per mesi, e tanto basta a Meloni e ai suoi ministri.

Tanto basta perché al governo sanno che all’interno del Consiglio di sicurezza dell’ONU va avanti da mesi una discussione su come ridefinire alcuni compiti della CPI. In particolare, si vogliono ridurre le prerogative dei panel of experts, cioè comitati di esperti in diritto umanitario internazionale e crimini di guerra che vengono nominati di volta in volta dal Consiglio di sicurezza per contribuire alle indagini. Quello che indaga in Libia, per esempio, è scaduto a febbraio e sta lavorando grazie a una proroga momentanea.

Questa tendenza a limitare i poteri d’indagine della CPI è dovuta a una reazione di alcuni dei paesi del Consiglio di sicurezza al nuovo corso seguito dalla Corte negli ultimi anni. Prima con la decisione di emettere un mandato d’arresto per il presidente russo Vladimir Putin, poi con quella analoga sul primo ministro Benjamin Netanyahu, la CPI ha infatti rotto una sorta di tabù: mai, prima di allora, aveva promosso iniziative così evidentemente ostili contro leader di paesi rappresentati nel Consiglio di sicurezza o di paesi alleati degli Stati Uniti.

I senatori del PD protestano in aula contro il governo per il rilascio di Almasri mostrando le foto di persone torturate nelle carceri libiche, il 5 febbraio 2025 (FABIO FRUSTACI/ANSA)

Gli Stati Uniti hanno da tempo un rapporto quantomeno conflittuale con la CPI, e non aderiscono del resto allo Statuto di Roma, quello che ha fondato la Corte nel 1998. E Trump, che ha spesso manifestato la sua insofferenza per questi organismi internazionali e per l’ONU in particolare, sembra intenzionato ad assecondare le richieste fatte dalla Russia e da Israele, che intendono ridimensionare il ruolo della CPI. Un primo segnale piuttosto chiaro è arrivato nelle scorse settimane, quando il dipartimento di Stato americano (cioè il ministero degli Esteri) ha imposto delle sanzioni contro 4 giudici della Corte accusandoli di aver agito deliberatamente contro Israele e gli stessi Stati Uniti, abusando del loro potere.

In questo contesto, aggravato peraltro dalle accuse di molestie sessuali al procuratore capo della Corte che si è autosospeso, anche il governo dei Paesi Bassi (che ospita la sede della CPI all’Aia) ha fatto sapere alla Corte che ridurrà i finanziamenti per il funzionamento della struttura.

È inoltre in discussione da un paio di mesi una ridefinizione dei crimini di guerra, e dei metodi con cui la CPI può indagare per raccogliere prove. Finora la Corte considerava perseguibili non solo gli atti diretti (torture, omicidi, stragi, eccetera), ma anche quelli collaterali, se erano evidentemente finalizzati a rendere possibili quei crimini: quindi anche il contrabbando e le azioni militari che servono per finanziare certe operazioni contrarie al diritto internazionale potevano rientrare nella categoria dei crimini di guerra. La proposta di vari governi al Consiglio di sicurezza dell’ONU è di restringere il perimetro di questo reato, e perseguire dunque solo i crimini in quanto tali.

Sarebbe una decisione che ridimensionerebbe molto le prerogative degli organi che aiutano le indagini della CPI, anzitutto i panel of experts del Consiglio di sicurezza, che negli ultimi anni hanno assunto un ruolo d’indagine sempre più incisivo: con ispezioni e raccolta di prove sul campo, interrogatori, collaborazione con governi e agenzie di intelligence. Anche vari governi italiani, nel recente passato, sono talvolta stati messi un po’ in difficoltà da queste indagini così attive, soprattutto in Libia, perché le inchieste del panel of experts erano percepite come intromissioni che complicavano i già tribolatissimi rapporti diplomatici, più o meno dicibili, con le istituzioni e le milizie libiche.

Ma tutto ciò dal punto di vista del governo di Meloni sarebbe anche una possibile via di fuga dal caso Almasri.

Se il reato di crimine di guerra venisse ristretto non lo sarebbe in maniera retroattiva, però molte delle accuse fatte ad Almasri verrebbero messe in discussione almeno su un piano mediatico e politico. Il governo avrebbe infatti buon gioco a definire come pretestuosa o eccessiva l’attività d’indagine della CPI, mostrandosi allo stesso tempo allineato all’amministrazione Trump.

Perché tutto ciò si compia, ammesso che davvero le cose vadano in questa direzione, ci sarà comunque bisogno di tempo, appunto. E questa attesa potrebbe anche rivelarsi rischiosa. Nei prossimi mesi, e forse già nelle prossime settimane, potranno esserci sviluppi importanti nell’inchiesta in corso al tribunale dei ministri: Meloni, e con lei Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano sono indagati per i reati di peculato e favoreggiamento. L’indagine va avanti dalla fine di gennaio. Inoltre, ci sono le incognite legate alla caotica situazione politica e militare in Libia. A metà maggio, in seguito a nuovi conflitti armati tra le varie milizie, il primo ministro del governo riconosciuto a livello internazionale di Tripoli e di cui anche l’Italia è sostenitrice, Abdul Hamid Dbeibah, ha sostanzialmente scaricato Almasri, dicendosi pronto a collaborare con la CPI.