L’ambulatorio di Palermo che cura i migranti torturati
Lo gestisce Medici Senza Frontiere e da qui sono passate centinaia di persone reduci dalle botte e dagli stupri nei centri in Libia
di Laura Fasani

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Mara Tunno ricorda bene il suo incontro con B., un ragazzo di 20 anni del Gambia. Era tranquillo ma assente, per quasi tutta la durata del colloquio ha tenuto lo sguardo abbassato. «Mi disse che non si sentiva più un essere umano».
Aveva lasciato la sua casa e la sua famiglia per provare a raggiungere l’Europa. Quando era arrivato in Libia era finito in un centro di detenzione per migranti. Lì, per mesi, è stato privato di cibo e acqua, messo in isolamento e torturato: i suoi carcerieri lo hanno appeso con delle corde, gli hanno spento delle sigarette sul corpo e lo hanno sottoposto alla falanga, un tipo di tortura che consiste nel picchiare ripetutamente le piante dei piedi e che alla lunga può compromettere la capacità di camminare.
Tunno ha 34 anni, fa la psicologa ed è responsabile della salute mentale per i progetti di Medici Senza Frontiere (MSF) in Italia. Lei e B. si sono incontrati a Palermo, in una delle stanze dove ogni settimana diverse persone migranti che hanno subìto e sono sopravvissute a torture e violenze vengono seguite in un percorso di riabilitazione da medici, psicologi, operatori sociali, mediatori culturali e avvocati.
Nei centri di detenzione libici, parte del complesso sistema con cui l’Italia e l’Unione Europea cercano di fermare le partenze di migranti dalla Libia, le violenze sono sistematiche: le persone che riescono a uscirne ci mettono molto tempo a riprendersi – alcune non si riprendono affatto – anche perché nella maggior parte dei casi non sono seguite da specialisti.
Molte persone arrivano per la prima volta nell’ambulatorio con sintomi da stress post-traumatico, depressione e ansia. Hanno incubi frequenti, non riescono a dormire, sono sempre all’erta con la sensazione di essere in pericolo costante. Molti hanno pensieri intrusivi, visioni e flashback dei torturatori e degli eventi traumatici che hanno vissuto, oltre ovviamente alle conseguenze fisiche di botte e frustate sul corpo.
MSF ha avviato il progetto nel 2020 insieme ad altri enti. Sono coinvolte l’Azienda sanitaria provinciale di Palermo, il Centro Astalli, il Dipartimento ProMISE e la Clinica legale dei diritti umani dell’università di Palermo, e dal 2023 anche il policlinico Paolo Giaccone. L’obiettivo è seguire a tutto tondo persone che hanno ferite anche molto diverse fra loro, e che sarebbe difficile inquadrare in percorsi ordinari all’interno dei centri di accoglienza o del sistema sanitario nazionale.

(Antonio Gervasi/Medici Senza Frontiere)
L’ambulatorio, così come viene chiamato, ha diverse sedi: le visite mediche si svolgono dentro l’ambulatorio di medicina delle migrazioni, che esisteva già, mentre i colloqui con psicologi e assistenti sociali negli uffici di MSF, vicino alla stazione centrale di Palermo. Dal gennaio del 2021 a oggi sono state seguite circa 320 persone.
In Italia esistono pochi servizi simili, e quello di MSF è un punto di riferimento fondamentale soprattutto in Sicilia, dove sbarca la maggior parte delle persone che ha attraversato il mar Mediterraneo partendo dalla Libia e dalla Tunisia. Come racconta il rapporto di MSF intitolato Disumani, che sarà pubblicato oggi e che il Post ha letto in anticipo, le varie rotte di migranti nel Mediterraneo – cioè quelle che collegano le regioni dell’Africa sub-sahariana ai paesi europei affacciati sul Mediterraneo – sono note non soltanto per l’altissimo numero di morti in mare ma anche per quello delle persone che subiscono abusi e torture.
Non esistono conteggi ufficiali ma solo stime e racconti. Avvengono nei loro paesi d’origine ma anche lungo il tragitto: specialmente nei centri di detenzione per migranti in Libia dove abusi, stupri e torture sono sistematici e hanno l’obiettivo di terrorizzare i migranti, di modo che non si ribellino o cerchino di scappare. Un rapporto del 2020 dell’associazione Medici per i diritti umani (MEDU) stimò che l’85 per cento dei migranti arrivati in Italia dalla Libia fra 2014 e 2020 avesse subito delle torture.

Le condizioni in un centro di detenzione a Sabha, in Libia, fotografato nel 2019 (AP Photo)
Di solito le persone arrivano nell’ambulatorio di MSF su segnalazione di qualcuno che lavora nei centri di accoglienza, o perché vengono a conoscenza del servizio e chiedono di accedervi in autonomia.
Tunno spiega che ogni caso è diverso. Molto dipende dalla situazione di partenza della singola persona: «Mi è capitato un ragazzo del Bangladesh di 20 anni che per due ore ha raccontato ininterrottamente la sua storia, urlando tutta la sua frustrazione per non averlo potuto fare prima, visto che era in Italia da tempo. Non è una reazione standard: una volta ho incontrato una donna che è rimasta in silenzio tutto il tempo. Non aveva la forza di dire niente».
Da gennaio del 2023 a febbraio del 2025 nell’ambulatorio di MSF sono state assistite 160 persone provenienti da 20 paesi diversi: Bangladesh (15,6 per cento), Gambia (13,7 per cento), ma anche dalla Costa d’Avorio, dal Camerun e dalla Nigeria. La maggior parte (75 per cento) erano uomini, con un’età media di 25 anni. In genere sulle rotte mediterranee le donne sono di meno rispetto agli uomini. Sono comunque esposte a sistematiche violenze e torture: su 40 assistite nell’ambulatorio di Palermo in due anni, 32 hanno raccontato di avere subìto violenze sessuali. Un rapporto del 2023 del Consiglio per i diritti umani dell’ONU elenca sei centri di detenzione per migranti in Libia, fra cui alcuni molto grandi, in cui gli stupri sono sistematici.
Le torture subite dai migranti in Libia includono botte, frustate, bruciature, rimozione delle unghie, folgorazioni e soffocamento. Alcune persone (il 12 per cento di 181 casi riferiti) hanno raccontato di essere state private di acqua e cibo, come B.; altri (il 6 per cento) hanno dovuto assistere alle violenze subite da altre persone, tra cui lo stupro delle proprie mogli, compagne o sorelle. I torturatori sono in genere i trafficanti o gli ufficiali delle forze dell’ordine che gestiscono i centri (fra le due figure in Libia c’è grande commistione).
Sono esperienze invalidanti, per la vita di tutti i giorni: «Basta un ricordo, un profumo, una posizione di un oggetto sbagliata per riattivare i ricordi traumatici», spiega Tunno. «Può succedere mentre si è in fila in posta o alla vista di una divisa militare, anche se non c’entrano niente».
Esiste poi un secondo livello, secondo Tunno, che si somma alla sintomatologia clinica e la complica, ed è sempre una conseguenza della tortura: è il profondo senso di spaesamento – in gergo si chiama frammentazione dell’identità – sperimentato da B. e dalla maggior parte delle persone che hanno vissuto esperienze simili. Tunno spiega che dopo la tortura si ha la sensazione di perdere il controllo di sé: del proprio corpo, della propria mente, della propria presenza in un luogo fisico, dato che sono stati alla totale mercé di un’altra persona.
Questo senso di alienazione può rimanere a lungo. Nel percorso di riabilitazione studiato da MSF si lavora tra le altre cose per riacquistare questo controllo.

Una delle persone seguite dall’ambulatorio di MSF (Valentina Tamborra/Medici Senza Frontiere)
Il primo incontro si svolge alla presenza dell’intera équipe ed è importante sia per spiegare in cosa consiste il servizio sia per capire i bisogni della persona. In questa fase non si fanno troppe domande e si lascia spazio alla persona per raccontare la sua storia, se si sente pronta. Tunno dice che a volte ci vogliono mesi o anni per i sopravvissuti a torture per raccontare le loro esperienze. Alcuni poi preferiscono concentrarsi sul presente senza rivivere il trauma, e quindi il piano terapeutico va adattato di conseguenza.
Se la persona acconsente a essere seguita, si inizia a lavorare su un piano di trattamento condiviso, che può durare anche diversi mesi. Dopo il primo incontro ogni gruppo di specialisti (medici, psicologici, divisione socio-legale) fa le sue valutazioni con i colleghi della propria disciplina. A tutte le sedute partecipa il mediatore culturale, considerato essenziale in tutto il percorso: non è un semplice traduttore, ma è un esperto con una formazione anche sull’etnopsichiatria, che è quindi in grado di fare da ponte tra medici, psicologi e la persona che proviene da un certo paese e da una certa cultura. Ogni settimana l’équipe al completo fa il punto su come sta proseguendo il percorso terapeutico.
Se la persona ha bisogno di assistenza medica per le conseguenze fisiche della tortura, i medici fissano un secondo incontro nel giro di pochi giorni ed eventualmente la indirizzano verso altri medici specialisti dell’ospedale (per esempio fisiatri e ginecologi).
In parallelo comincia il percorso psicoterapeutico. Il primo obiettivo è instaurare una relazione di fiducia tra la persona e il terapeuta, attraverso la creazione di un safe place, un ambiente in cui il paziente si sente sicuro – cosa non facile per chi ha subìto violenze o torture. Anche in questo caso quindi il ruolo del mediatore culturale è fondamentale, perché facilita la comunicazione e permette anche di interpretare meglio i segnali non verbali.
– Leggi anche: I soccorsi in mare dei migranti, spiegati bene
Nella sua esperienza Tunno ha notato che è più facile farsi raccontare dalle persone cosa è successo loro subito dopo un soccorso in mare, piuttosto che in una stanza sulla terraferma. Anche se stare su una nave dopo aver rischiato di morire annegati è senza dubbio una situazione stressante, «le persone si fidano subito di chi le ha soccorse. Si lasciano andare e raccontano più facilmente gli orrori da cui sono fuggiti».
Su una nave però non c’è modo di iniziare un vero percorso di riabilitazione, e quello che si fa è rilasciare una certificazione in italiano della presenza di un disagio fisico o psicologico, in modo da aumentare le probabilità di accesso alle cure. «Anche perché altrimenti tendono a finire nel dimenticatoio, o a chiudersi», dice Tunno.
Si lavora poi sulla cosiddetta “normalizzazione dei sintomi”, cioè sulla loro accettazione come conseguenze “normali” di quello che hanno subìto, e sulla memoria del trauma: è un processo più lungo e complesso e non tutti sono pronti ad affrontarlo, perché può riattivare i sintomi post-traumatici da stress e altri disturbi legati all’ansia. Nell’ambulatorio di Palermo viene praticata spesso la terapia dell’esposizione narrativa (NET), che si concentra sulla ricostruzione e sul rafforzamento del senso dell’identità di una persona attraverso il racconto del trauma. È un processo che richiede di solito tempi piuttosto brevi e in cui vengono usati anche degli oggetti, come fiori e pietre, per simboleggiare i vari eventi della vita.
Sulla NET praticata nell’ambulatorio di Palermo ha lavorato anche la fotografa e giornalista Valentina Tamborra con un progetto multimediale, Restano i fiori: attraverso immagini, video, testi e registrazioni audio ha chiesto alle persone in cura di raccontare chi erano prima della tortura, scegliendo una canzone, un ricordo, un oggetto, un proverbio o una storia qualsiasi. È un progetto che ha avuto anche una valenza terapeutica, dice Tamborra, proprio per il suo obiettivo di aiutare le persone a ricomporre la propria identità, e al contempo documentare la loro esistenza andando oltre le etichette e la «pornografia del dolore».
Chi non se la sente, invece, viene aiutato a concentrarsi sul presente, con l’aiuto degli operatori sociali. L’inserimento sociale è una parte fondamentale del percorso di riabilitazione: comincia di solito insieme alla terapia psicologica e consiste nell’aiutare la persona su tutti gli aspetti socio-legali (si capisce per esempio se ha una carta d’identità o se è iscritta al Servizio sanitario nazionale, e in caso cosa le serve per accedervi) in modo da permetterle di integrarsi meglio nella comunità. Gli operatori sociali non possono trovarle un lavoro o un tirocinio, ma creano i primi contatti con altri enti pubblici e privati, tra cui il comune di Palermo, diverse associazioni di volontariato, i Centri di assistenza fiscale (Caf), e così via.
Rafforzare i legami esterni per le persone sopravvissute a torture è molto importante anche perché la maggior parte di quelle assistite a Palermo, il 63 per cento, vive nei centri di accoglienza. Il 38 per cento di loro in particolare è ospite nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS), grossi centri dove spesso non c’è personale formato per gestire le persone che hanno subìto torture e violenze, anche perché nel tempo i vari governi italiani hanno progressivamente ridotto i fondi a loro disposizione.

Alcune persone migranti fuori da un CAS in provincia di Torino (ANSA/TINO ROMANO)
In Italia la presa in carico delle persone migranti vittime di tortura dovrebbe essere facilitata dalle Linee guida relative agli interventi di assistenza e riabilitazione, nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei rifugiati e delle persone che hanno subito torture, adottate nel 2017 (PDF). L’obiettivo di questo documento è garantire a chi ha subito violenze e torture e ha ottenuto una forma di protezione internazionale l’accesso stabilizzato a cure sanitarie.
Per MSF sono indicazioni importanti, che però finora sono rimaste in buona parte inapplicate. Ci sono rilevanti disomogeneità tra le regioni, rileva il rapporto Disumani di MSF, e le esperienze positive sono perlopiù frutto di iniziative individuali e reti informali, come la Rete di Supporto per le Persone Sopravvissute a Tortura (ReSST), nata alla fine del 2024 per volontà di alcune associazioni.
Le Linee guida peraltro sono rivolte soltanto a chi ha già ottenuto un permesso per rimanere in Italia. L’ambulatorio di MSF è aperto anche a chi ne ha solo fatto richiesta, con l’idea che prima si interviene su un disagio e prima lo si risolve: fra le persone seguite solo il 22 per cento ha una forma di protezione internazionale, mentre la metà è richiedente asilo o sta facendo ricorso contro il rigetto di una domanda di protezione.
Elisa Galli e Alessandra Governa, che per questo progetto di MSF seguono tra le altre cose gli aspetti socio-legali, spiegano peraltro che le commissioni per il diritto d’asilo valutano principalmente le torture e le violenze subite nei paesi d’origine (molti dei quali sono peraltro considerati in Italia “paesi sicuri“), e non quelle commesse nei paesi di transito come la Libia, che però sono la maggior parte. Di conseguenza molte persone che iniziano il percorso di riabilitazione si trovano a gestire anche l’incertezza di non sapere se otterranno o no una protezione.