I nostri insegnanti si ricordano di noi?

«Il meccanismo della memoria è divergente, almeno quello della mia. Non restano i grandi sentimenti, le lodi sperticate né i temi da dieci. Restano i gesti e le storie, quelle ce le ricordiamo bene»

(Stefano Guidi/Getty Images)
(Stefano Guidi/Getty Images)
Gemma Romano
Gemma Romano

Nata a Milano nel 1984, dal 2006 lavora con gli adolescenti, nella scuola e anche nel mondo della disabilità, dell'italiano lingua seconda e dei disturbi specifici di apprendimento. Insegna in una scuola secondaria di primo grado della periferia di Milano. Prima o poi finirà uno dei romanzi che ha cominciato.

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Dimenticato, in cima a uno scaffale che non viene più nemmeno spolverato, c’è a casa mia un raccoglitore rosso. Lo tiro giù, lo spolvero, lo apro. La roba dentro è un po’ ingiallita: disegnini, dediche, fotocopie di temi e poesie in tutte le possibili variazioni della lingua italiana, foto di gite scolastiche in cui una giovanissima me sorride in mezzo a gruppi di ragazzi che oggi sono laureati, lavorano, in Italia o chissà dove, hanno fatto dei figli (ebbene sì). Eppure mi sembra la vita di un’altra: non ricordo quasi nulla, i volti riaffiorano e si confondono. C’è una grande dimenticanza che avvolge questi quasi vent’anni.

Una volta ci tenevo molto a conservare i ricordi, li coltivavo. Cos’è cambiato in questi anni? Forse è cambiata la mia versione della memoria, forse sono cambiata io, che mi chiedo cosa resti nella mia vita dei ragazzi che ho incrociato, del tempo che ho passato con loro. E noi insegnanti: restiamo nella loro memoria? O evaporiamo?

C’è stato un tempo in cui con altre colleghe ci scambiavamo ricordini da prof come figurine. Eravamo abbagliate dalla bellezza di quello che leggevamo, di quello che vedevamo. Io lavoravo con ragazzi disabili, tra l’altro. Davanti a una Peroni in orario appena accettabile, dalle 17 in poi, un’amica che lavorava a scuola come me mi leggeva pezzi delle lettere del suo alunno afghano, scritte per esercizio, senza poterle spedire a nessuno. Lo struggimento delle sue parole, che leggo adesso dopo averle estratte dal raccoglitore rosso, è indimenticabile, eppure lo avevo dimenticato.

Testo trascritto:

«Caro, il mio madre. Ciao il mio madre caro, come stai? Tutto bene da tanti tempo è che siamo lontano di insieme, non lo so dove sei? Che cosa fai? Mi scusi che non posso telefonare a te? Lo so che sei da solo con tantissimo problemi in vivere in Afghanistan, ma devi come montagna resisti, ma mai non pensi che io solo da solo io non solo da solo, non pensi non ho nessuno. Io so che Dio è con me. (…) Il mio madre mai non pensi che io dimintica a te, sempre tu sei in il mio cuore, devi essere pazienza e sperare in Dio (…) ciao il mio madre caro».

(foto Gemma Romano)

La verità è che ormai io amo dimenticare, e amo essere dimenticata. Mi piace essere come Mary Poppins, che vola via, si lascia dimenticare e torna solo quando gira il vento.

Del resto se non sei leggero, se non sai volare via, i tuoi alunni ti distruggono, come i figli. Incidono delle cose dentro di te e tu non puoi non soffrire. Gli alunni ti mostrano i tuoi difetti, ti lasciano senza risposte, ti sanno spiazzare. Bisogna mettere su un po’ di difese: se li lasci entrare davvero non se ne vanno più e rischi di affezionarti troppo, per questo bisogna trovare riparo. Mary Poppins resta sempre sulla soglia, non piange mai. Certo, sta coi suoi bambini, e li ama, ma poi li consegna ai Banks e vola via col vento nuovo.

Non mi piace diventare amica dei miei alunni, una volta usciti dalla terza media. Non amo sentirli al telefono, scambiarci messaggini. Altre insegnanti sono diverse. C’è chi colleziona gli ex alunni sui social, li segue su Instagram, mette i “like” e gli auguri di compleanno, come se gli anni trascorsi insieme in aula avessero un naturale prolungamento nel dopo. Io no. Mi piace che la nostra storia inizi e finisca tra i muri della classe, in uno spazio magico, come un dipinto. Come Mary Poppins saltella dentro il dipinto saltelliamo noi dentro ore che trascorriamo insieme, ci facciamo disegno, iconografia. Quello che accade dentro l’aula non è la realtà: è la sua versione migliore, o peggiore. È in ogni caso qualcosa che si esaurirà e che io lascerò esaurire, come la vita di un fiore.

Forse ho scelto le medie per questo, perché sono gli anni per eccellenza dell’atto inconsulto, della dimenticanza. Sono una intercapedine tra l’effusa gioiosità dell’infanzia e la spietata vastità dell’adolescenza, un tempo di inconsapevolezza e nervi scoperti, di impressioni forti, di istinto e di abbandono. Per questo, credo, anche noi adulti ci ricordiamo poco delle nostre medie e quel poco è confuso, un’impressione. Però in qualche modo quello che è accaduto in quegli anni ci ha scolpito dentro, solo che non sappiamo come e io amo questa indefinitezza.

Sto nella fessura tra il loro mondo interno e le difficoltà che il mondo esterno comincia a porre, ben consapevole che presto mi dimenticheranno, perché quello che ti succede tra gli 11 e 14 anni di solito lo dimentichi. Nessuno ama molto ricordare sé stesso quando era alle medie. Dentro a questo tradimento ci sono anch’io, che scompaio come i brufoli o l’apparecchio per i denti o il primo amore, una volta che i ragazzi sono diventati grandi. Tre anni finiscono presto: mi piace che mi scordino e voglio essere libera di scordarli.

Ma non è che mi scordino tutti. Con qualcuno rimane una relazione, una preferenza inspiegabile. Ho giovanissime quasi colleghe che sono state mie alunne: lì la solfa cambia, lì si plana in altri territori. Diventiamo due individui, ci incontriamo fuori dalla scuola, in genere partendo da una e-mail o da un incontro casuale e uno scambio di numeri di telefono: ci incontriamo di nuovo e daccapo, come persone, non come prof e alunna. Allora sì. Del resto il mio primo incarico l’ho svolto a fianco della mia amata prof di lettere del liceo, che quel giorno mi disse «dammi del tu, adesso siamo colleghe», e fu un momento bellissimo per me. Sì, ci possiamo conoscere di nuovo, fuori da scuola, ma guai a fare le rimpatriate, per me sarebbe penoso. Quel che succede a scuola resta a scuola, e si può stemperare nel nulla.

Ci sono colleghi che amano i ragazzi e li ricordano uno per uno, ma che spesso i ragazzi dimenticano lo stesso, li sorvolano. Tanta fatica per entrare in contatto e poi il ragazzino o la ragazzina a cui hai voluto così bene fa finta di non vederti alla fermata del bus.

I professori da Attimo fuggente non esistono, o perlomeno io non li ho mai incontrati, ma sono certa che anche se ci fossero, verrebbero rimossi dagli alunni con la stessa velocità con cui erano stati acclamati «Capitano mio capitano». Non per cattiveria: è la natura delle cose. I giovani svolazzano, perdono pezzi: per questo voglio volare via anch’io, per giocare alla pari con loro.

– Leggi anche: Sei cose che so sulla scuola

Per me prof e alunni hanno un solo e unico bene da condividere: l’ora in classe, il tempo che è dato, poi si torna ognuno a sé, alle proprie finzioni. Se tutto va bene e se ci metti il cuore l’ora sarà un’ora di verità, che lascerà un segno ma non credo che rimarrà come un vero e proprio ricordo, sarà più come un luccichio in uno stato profondo della coscienza.

Il meccanismo della memoria è divergente, almeno quello della mia. Non restano i grandi sentimenti, le lodi sperticate né i temi da dieci. Non ricordo quasi mai le manifestazioni di affetto, anche se sono sincere e mi danno una grande gioia quando accadono. C’è l’alunna che ti abbraccia dopo aver parlato del senso della vita, l’alunno che scrive «quando entra la Romano in classe io sto bene perché mi sento al sicuro con lei». Ne sto citando due, ma chissà quanti ne ho persi da quando non aggiorno il mio raccoglitore rosso con scampoli rubati alla quotidianità. Scordo facilmente le lodi che ricevo, e le soddisfazioni che mi danno. In me restano più spesso i graffi del dolore, gli scontri, quegli occhi arrossati da qualche sostanza psicotropa alle 8 di mattina dietro i quali leggi la voglia di vivere che non ha parole né soluzioni. Restano qualche gesto e le storie, quelle le condivido coi colleghi e ce le ricordiamo bene.

Il ragazzo arrivato clandestino, chiuso nel trolley della madre per otto ore da bambino, attraversando l’Europa da est.

Quello che osò sfidarmi esclamando «io non prendo ordini da una che va in giro con un portabanana!», l’anno in cui mi ero dotata di una custodia ad hoc per la mia merenda.

Quello che in seconda media è scomparso, evaporato un giorno con tutta la sua famiglia, un campanello che suona a vuoto, una riga su un nome nel registro – chissà se è tornato al suo paese.

Quello che non ha mai tolto il giubbotto per tre anni, nemmeno d’estate, nemmeno in gita: nessuno gli ha mai visto le braccia.

Quello che scrisse alla lavagna l’ultimo giorno «capisci il valore di ciò che hai solo quando lo perdi».

Quello che quando è uscito dal Beccaria ha telefonato a un paio di noi professori per salutarli e rassicurarli – tutto bene prof, adesso sto facendo il bravo.

Quella che aveva imparato a fare le trecce boliviane e intrecciava i capelli di tutti, a tutte le ore: alla fine per sfinimento (mio) lo fece anche ai miei.

Quelli che hanno scommesso soldi sul sesso del mio nascituro.

Quello che fingeva di vedere i fantasmi per spaventare la collega di matematica.

Quella che l’hanno fatta sposare al paese, subito dopo la terza media.

Condividiamo il ricordo anche di qualcuno di quelli bravi, quando sono così umili da esser bravi davvero: ti rimane il loro volto quasi bambino e chissà se li riconoscerai in una corsia quando saranno dottori e tu un’anziana sdentata.

La vita avanza, si complica, si riempie: un raccoglitore rosso è troppo piccolo e non hai più tempo e modo di bere Peroni con le amiche in un bar parlando dei ragazzi. Lo show deve andare avanti anche senza trattenerne i pezzi migliori.

E poi c’è una verità di cui ti accorgi dopo una decina d’anni di scuola e cioè che esiste solo una grande classe al mondo, che si ripete in infinite combinazioni. Come i frutti della terra, così sono gli esseri umani. Certo, nessuna mela è identica all’altra, ma sono pur sempre mele. Idem le pere o le arance. È così che hai i tipi umani che si ripropongono identici, in ogni classe. A volte si somigliano anche somaticamente, e la 3ªA del 2025 ha un paio di allievi identici a quelli della 3ªA del 2010. Dopo il quindicesimo anno di docenza inizi pure a sovrapporli e finisce che chiami Filippo col nome di un altro, Myriam col cognome di una che è uscita dalla terza media sette anni fa. Capita.

Oggi ho in testa una gran confusione di volti, di storie, parole e risate: una nuvola di allegria e di struggimento. Il tempo della scuola è come quello della vita: è destinato a finire. Nella vita rimuoviamo questo pensiero, ma a scuola non si può perché giugno è dietro l’angolo, soprattutto quando ci sono gli esami e finisce la terza media. La fine delle fini, con le ragazze in lacrime al pensiero di perdere amiche che a settembre avranno già rimosso dalla mente e dalla rubrica del telefono.

Lo dico sempre nelle terze, verso la fine di maggio: «Ragazzi, il nostro tempo insieme sta finendo» e, contro la mia stessa volontà, non riesco a fare a meno di preparare un ricordino per loro.

Stampo la poesia Invictus di Henley su dei foglietti e ne dono una copia a ciascuno con la mia firma, come quella che metto sotto i compiti in classe. So bene che il 70 per cento dei ragazzi lo perderà o butterà via quella stessa mattina (perché ne trovo nel cestino o sul marciapiede fuori da scuola) e che altri lo perderanno nei giorni a seguire (ho trovato i miei preziosi foglietti anche nei bagni, calpestati e spiaccicati a distanza di qualche giorno).

Ma forse un giorno un 1 per cento troverà Invictus da qualche parte a casa, salterà fuori da una tasca di un abito da buttare o da un vecchio libro. Leggerà corrugando la fronte, come se fosse una cosa nuova e di certo non penserà a me che sono già partita da anni col vento dell’est, ondeggiando aggrappata al mio ombrello, io che non ho bisogno di loro, io che ho la mia vita, io che ho un mondo fuori dalle aule e non lotto più per ricordare niente.

Quell’1 per cento, quel giorno, leggerà sul mio foglietto che dal profondo della notte che ci avvolge si può ringraziare qualsiasi divinità si voglia per il dono della nostra anima. Stringerà tra le mani il cimelio, lo annuserà e gli tornerà in mente la scuola media, quei tre anni confusi di brufoli e sigarette di nascosto e psicodrammi dimenticati. Leggerà che nelle avversità si può non indietreggiare, che oltre la collera e le lacrime si può essere indomiti, perché in fin dei conti ognuno di noi è il capitano della propria anima.

E forse piangerà di gioia perché stava attraversando la valle delle ombre, si stava smarrendo, e quelle parole erano proprio le parole di cui aveva bisogno: me lo sento.

Si sentirà inspiegabilmente bene.

– Leggi anche: Dove vanno gli insegnanti d’estate?

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