Perché Giorgia Meloni non riesce a schierarsi in modo chiaro su Gaza

Non sa se assecondare la sua storia politica o i consensi, ma ora l'ambiguità non basta più

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni riceve a Palazzo Chigi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il 10 marzo 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni riceve a Palazzo Chigi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il 10 marzo 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Mercoledì mattina il ministro degli Esteri Antonio Tajani doveva intervenire al Senato per riferire la posizione del governo italiano sulla guerra e sulla crisi umanitaria a Gaza. Poco prima un gruppo di senatori di Forza Italia, il suo partito, spiegava che era inutile aspettarsi chissà cosa: parlerà molto per non dire niente, dicevano al bancone della buvette, l’elegante bar del Senato. Avevano tutto sommato ragione: l’informativa di Tajani, riferita in entrambe le camere, ha confermato tutte le cautele e l’attendismo del governo di Giorgia Meloni sulla crisi in Medio Oriente.

Tajani comunque ha indubbiamente usato toni e parole di biasimo che molto raramente un esponente di governo italiano ha speso nei confronti di un governo israeliano. Ha elencato le varie iniziative umanitarie portate avanti dall’Italia a sostegno della popolazione di Gaza, ha ricordato le buone relazioni delle autorità palestinesi con l’Italia, ha ribadito in modo abbastanza vago il sostegno dell’Italia al piano di pace e di ricostruzione della Striscia di Gaza promosso dall’Egitto.

Ma sono state evidenti anche le reticenze: non ha fatto alcun cenno a possibili iniziative diplomatiche italiane, non ha parlato del posizionamento italiano rispetto agli altri alleati europei, ha eluso alcune delle questioni politicamente più delicate e infine non ha espresso alcun giudizio diretto sull’operato del premier Benjamin Netanyahu, mai nominato nel suo discorso. «L’intervento di Tajani, nel complesso, riflette molto fedelmente l’inaccettabile immobilismo e l’inconcludenza del governo di Meloni sui terribili massacri in corso a Gaza», ha denunciato il deputato Peppe Provenzano, responsabile Esteri del PD.

La posizione del governo italiano e della presidente Giorgia Meloni sulla guerra a Gaza è stata finora effettivamente molto prudente, ma tutto sommato in linea con l’Unione Europea e coi principali paesi occidentali. Meloni fa fatica a prendere una posizione netta per molte ragioni, che hanno a che fare con la sua storia politica e con anni di lavoro investiti a costruire un rapporto con la comunità ebraica, ma anche più banalmente con la convenienza politica e i sondaggi.

Ora però le cose stanno un po’ cambiando: sia perché l’Unione Europea sta iniziando a criticare il governo israeliano, sia perché l’opinione pubblica, e anche l’elettorato di centrodestra, sta maturando una grossa antipatia verso Netanyahu. Per Meloni è diventato quindi più complicato tenere una posizione che le consenta di ribadire la sua vicinanza a Israele e alla comunità ebraica – cosa che lei reputa fondamentale – senza però apparire troppo in sintonia con Netanyahu, cosa che rischierebbe di causarle una perdita di consenso.

Fin dall’inizio della guerra a Gaza l’Italia ha tenuto una posizione estremamente cauta. Lo ha fatto per esempio ogni volta che l’Assemblea delle Nazioni Unite ha votato delle risoluzioni su questo tema: nel dicembre del 2023, per il cessate il fuoco; nel maggio del 2024, per il riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazione Unite; nel settembre del 2024, sulla richiesta a Israele di lasciare i territori palestinesi occupati. L’Italia si è sempre astenuta.

In questi e in altri casi, su decisioni più o meno simboliche, ha sempre evitato di sostenere con decisione le ragioni della popolazione palestinese, come hanno invece fatto altri paesi europei, come Francia e Spagna. Finora però Meloni e Tajani avevano sempre potuto sottolineare come la cautela italiana fosse in sintonia con quella adottata anche da altri importanti paesi europei e del G7, come Regno Unito, Germania e Canada.

Sul piano della politica interna, Meloni è stata abile nel non mostrarsi mai del tutto ostile alla causa palestinese, ribadendo il principio dei “due popoli, due Stati” che da sempre guida la diplomazia italiana: lo ha fatto, però, mantenendosi su un equilibrio non facile. Fratelli d’Italia in parlamento si è opposta al riconoscimento dello stato palestinese – atto del resto del tutto simbolico – ma a favore del cessate il fuoco e della ricostruzione a Gaza, talvolta anche mostrando una convergenza con le proposte del PD; a più riprese, rispondendo a interrogazioni sul tema, ha espresso la propria contrarietà verso dichiarazioni e iniziative militari di Netanyahu, ma lo ha fatto con una certa discrezione, e senza mai davvero mettere in discussione la vicinanza e l’amicizia del governo italiano con quello israeliano.

Questo atteggiamento, talvolta ambiguo, ha fatalmente generato divergenze nei partiti di governo, che del resto sulla politica estera sono molto spesso in disaccordo. Se per esempio il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e a fasi alterne anche lo stesso Tajani, hanno espresso delle critiche più concrete a Netanyahu, Matteo Salvini ha invece più volte rinnovato la sua sintonia col primo ministro israeliano.

Da qualche settimana però l’equilibrismo tenuto finora è diventato difficilmente sostenibile. A livello internazionale, l’Europa ha iniziato a prendere le distanze da Israele, anche solo con atti simbolici. Il 19 maggio i leader di Francia, Canada e Regno Unito (quest’ultimo finora sempre abbastanza cauto sulla questione) hanno redatto una nota congiunta che esprime una ferma condanna nei confronti della ripresa delle operazioni militari da parte di Israele. L’indomani, su proposta della capa della diplomazia europea, Kaja Kallas, i ministri di Esteri e Difesa dell’UE hanno annunciato la revisione del trattato di associazione politica e commerciale con Israele, in vigore dal 2000.

L’Italia è stata tra i 7 paesi che hanno votato contro la decisione (insieme a Germania e Ungheria), approvata con 20 voti favorevoli. Pochi giorni dopo, anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha detto di non comprendere più l’operato di Netanyahu a Gaza: una presa di posizione misurata ma a suo modo clamorosa, visto che da decenni la Germania, in virtù della memoria ancora viva dell’olocausto, è sempre stato il più filoisraeliano dei paesi europei. Insomma: anche i governi che finora avevano condiviso le cautele italiane hanno iniziato a esporsi in modo più esplicito.

C’è inoltre una questione più semplicemente elettorale. Lunedì scorso è circolato sulle chat di parlamentari di Fratelli d’Italia un sondaggio dell’agenzia Demos di Ilvo Diamanti, pubblicato su Repubblica: mostrava come lo scarso apprezzamento verso Netanyahu fosse diffuso anche tra l’elettorato del partito di Meloni, dove solo il 28 per cento esprime giudizi positivi sul suo conto. Di qui nasce il timore che apparire troppo accondiscendenti verso di lui possa generare, nelle prossime settimane, una perdita di consensi. Anche per questo, alcuni senatori non hanno apprezzato i toni estremamente filoisraeliani utilizzati dal senatore di Fratelli d’Italia Giulio Terzi di Sant’Agata durante il dibattito in aula in replica a Tajani.

Il deputato Giangiacomo Calovini, capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Esteri, è uno di quelli che più incisivamente sono intervenuti in queste settimane per spiegare la posizione del governo e del partito: «L’Italia lavora attivamente per la pace e continua doverosamente a mantenere un dialogo con Israele», dice. «Siamo tuttavia consapevoli che le strazianti immagini che arrivano da Gaza non possano lasciarci indifferenti. Per questo bisogna aumentare gli sforzi affinché tutto questo termini, lavorando sul piano di pace promosso dai paesi arabi e che prevede il riconoscimento della Palestina quando la Striscia non sarà più governata dal gruppo terroristico di Hamas». Anche nelle sue parole è evidente il tentativo di mantenere un certo equilibrio.

Tutto questo non ha a che fare solo con i tatticismi del momento. La questione israelo-palestinese porta con sé problemi storici sia per la tradizione dei governi italiani, sia per l’estrema destra. L’Italia, nel secondo Novecento, ha sempre avuto una posizione peculiare: alleata fedele degli Stati Uniti, ma sempre molto attenta a tenere aperto un dialogo costante con i paesi arabi. I governi democristiani, con sfumature diverse, si sono spesso posti come mediatori tra le parti in causa, talvolta procurandosi per questo i risentimenti degli Stati Uniti e di Israele. C’è dunque una tradizione diplomatica che suggerirebbe di mantenere buoni rapporti con le autorità palestinesi e i loro alleati storici, senza con ciò essere in alcun modo ambigui nella condanna nei confronti di Hamas.

Dall’altro lato, c’è la volontà di Meloni di mantenere quei buoni rapporti con le comunità ebraiche italiane e occidentali che ha faticato parecchio per costruire. La destra italiana, specie quella postfascista, ha scontato per decenni una radicata diffidenza da parte degli ebrei, per il ricordo delle leggi razziali e della collaborazione col nazismo del regime di Benito Mussolini, e poi per i residui di antisemitismo che hanno connotato a lungo alcune frange del Movimento sociale italiano, il partito antenato prima di Alleanza Nazionale e poi proprio di Fratelli d’Italia.

Nel 2003 Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale, pronunciando parole di netta condanna nei confronti delle politiche antisemite del fascismo davanti al Museo dell’olocausto a Gerusalemme, pose le basi per un rapporto meno conflittuale. Quello sforzo è stato portato avanti anche da Meloni e da altri dirigenti di Fratelli d’Italia in anni più recenti. Ci sono episodi che spiegano bene questo tentativo.

Nell’ottobre del 2021, a pochi giorni dalle elezioni amministrative di Roma, il candidato sindaco della destra Enrico Michetti disse che agli ebrei era stata riservata maggiore considerazione rispetto ad altre minoranze perseguitate forse perché queste ultime «non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta». Tra le tante gaffe fatte da Michetti in quella campagna elettorale, questa fu senz’altro quella che fece arrabbiare maggiormente Meloni, che per evitare imbarazzi e contestazioni dovette rinunciare alla visita al ghetto di Roma in occasione dell’anniversario del rastrellamento del 1943.

Analogamente, ciò che più generò preoccupazione tra i dirigenti di Fratelli d’Italia in seguito alle inchieste sotto copertura di Fanpage su Gioventù Nazionale, furono proprio le varie espressioni di antisemitismo da parte di esponenti della federazione giovanile del partito, che proprio per questo alla fine furono spinti a dimettersi.

Meloni è severissima su questo aspetto, proprio perché questi incidenti rischiano di compromettere il lavoro che lei da anni fa per accreditarsi con la comunità ebraica. Non a caso nel 2022 ha offerto una candidatura alla giornalista Ester Mieli, ex portavoce della comunità ebraica di Roma, eletta senatrice. Non a caso, poche settimane dopo l’inizio del suo mandato da presidente del Consiglio, tenne una serie di appuntamenti che mostravano, anche con una certa enfasi, la sua dichiarata attenzione alla comunità ebraica: ricevette a Palazzo Chigi Ronald Lauder, il presidente del World Jewish Congress, cioè della federazione mondiale delle comunità ebraiche; partecipò alla cerimonia in ricordo dei giornalisti ebrei perseguitati; soprattutto, tenne un commosso intervento al museo ebraico, accolta dall’allora presidente della comunità romana Ruth Dureghello, in occasione della cerimonia di accensione della Chanukkah, una delle festività ebraiche più sentite.

In questo lavoro di relazione col mondo ebraico ha avuto un ruolo importante anche Ignazio La Russa. Il presidente del Senato è stato molto attento a coltivare in questi anni buone relazioni con la comunità ebraica milanese, il cui presidente, Walker Meghnagi, ha più volte dichiarato la sua sintonia con Fratelli d’Italia. La Russa è stato inoltre colui che, d’accordo con Meloni, si è occupato di gestire i rapporti piuttosto problematici tra Fratelli d’Italia e la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah e spesso critica nei confronti della posizione del partito su questi temi. Fu La Russa a ricordare come il marito di Segre, Alfredo Belli Paci, avvocato cattolico, negli anni Settanta fosse stato un militante del Movimento sociale italiano vicino a Giorgio Almirante.

Tutto ciò spiega perché Meloni sia ora estremamente cauta nell’esporsi troppo nella condanna del governo israeliano, e perché vari dirigenti di Fratelli d’Italia ritengano prioritario, al di là delle polemiche politiche di questi mesi, tenere saldi i buoni rapporti costruiti negli anni con le comunità ebraiche.

C’è infine un’ultima questione di carattere diplomatico. Meloni è legata a Netanyahu anche da una sintonia politica: sono due importanti leader di destra radicale al governo, ed entrambi, pur per motivi diversi, vicini a Donald Trump. Proprio il presidente statunitense in questa situazione è un’incognita: dopo avere più volte ribadito la sua simpatia per Netanyahu, nelle ultime settimane ha mostrato in varie occasioni una certa insofferenza nei confronti delle sue decisioni. L’eventualità di un cortocircuito interno al mondo della destra sovranista internazionale induce Meloni a essere ancora più prudente sulla questione.

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