Il terremoto più forte della storia cambiò per sempre un pezzo del Cile
Uccise migliaia di persone, distrusse intere città, creò fiumi e nuovi paesaggi, in una zona del paese che da allora ha dovuto reinventarsi
di Valerio Clari

Il 22 maggio del 1960 nella città di Valdivia, nel sud del Cile, la terra tremò per quasi quattro minuti senza interruzioni. Erano le 15:11 del pomeriggio. Ancora oggi rimane il terremoto più forte mai registrato al mondo, di magnitudo 9.5.
Quel terremoto causò danni incalcolabili, migliaia di morti, un’eruzione vulcanica e uno tsunami che uccise persone dall’altra parte dell’oceano, alle Hawaii e in Giappone. Interessò il territorio cileno lungo 1.000 chilometri, cambiò per sempre il paesaggio e la geografia del paese. Alcune zone si alzarono di metri, altre si abbassarono: le pianure diventarono in modo permanente delle paludi. Interi tratti di costa furono cancellati, alcuni fiumi cambiarono percorso e altri passarono da piccoli rivoli a corsi d’acqua navigabili. Cittadine e porti smisero di esistere.
Valdivia cambiò natura, abbandonando la sua vocazione industriale. Le reazioni umane furono molteplici. Da una parte, gli sforzi per salvare la regione contribuirono a formare l’identità nazionale cilena. Dall’altra un caso di cronaca legato a una piccola comunità indigena mapuche causò lunghe discussioni sui giornali.

La città di Valdivia alcuni giorni dopo il terremoto (AP Photo)
Il terremoto di Valdivia è conosciuto anche come “Grande terremoto del Cile”, in un paese che ne ha vissuti molti: il territorio cileno si trova sulla placca tettonica sudamericana, a stretto contatto con la placca di Nazca, che occupa invece una parte dell’area sudorientale dell’oceano Pacifico. Semplificando molto, la placca di Nazca “scivola” costantemente sotto quella sudamericana (subduzione): questo movimento, rallentato dall’attrito, provoca un accumulo di energia che in determinati momenti si libera e causa dei fortissimi terremoti.
Nel 1960 questo fenomeno interessò circa 900 chilometri della linea di contatto fra le due placche. Il terremoto di Valdivia arrivò dopo giorni di attività sismica, anche intensa. Il 21 maggio il terremoto che distrusse Concepción (magnitudo 8.1) sembrò la scossa più forte, dopo la quale di solito lo sciame sismico si riduce. Non lo era.
L’epicentro del terremoto delle 15:11 fu individuato nell’area di Traiguén, 700 chilometri a sud di Santiago, 200 a nord di Valdivia, che fu la grande città più colpita. I testimoni raccontarono di una scossa durata oltre dieci minuti; furono in realtà scosse consecutive e ravvicinate, ma la prima fu lunghissima (quasi quattro minuti) e fortissima.
Il terremoto distrusse quasi 450mila abitazioni, due milioni di persone furono sfollate, i morti furono fra i 1.500 e i 2.500. È un numero inferiore a quello di altri terremoti, meno forti: Valdivia a parte, l’area non era così densamente popolata e la scossa arrivò nel pomeriggio di domenica, quando molta gente non era in casa o comunque fu rapida ad abbandonare le proprie case prima che crollassero.
Meno di un’ora dopo il terremoto, arrivò il maremoto: un’onda di oltre 8 metri di altezza, che si muoveva a 150 chilometri l’ora, colpì un lungo tratto di costa, che il terremoto in vari punti aveva peraltro “abbassato” di almeno un paio di metri. Alcune città portuali, come Corral, furono completamente distrutte; alcune navi e barche furono ritrovate intatte anche a due chilometri di distanza dalla costa: restarono a lungo lì, nei prati, un po’ per difficoltà di trasportarle, un po’ come monumenti per ricordare ciò che era avvenuto.

Corral dopo lo tsunami (Buonasera, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)
Quindici ore dopo lo tsunami colpì le Hawaii, facendo più di 60 morti. Quasi un giorno più tardi arrivò in Giappone, causando quasi 140 morti. Solo dopo quell’evento le Nazioni Unite iniziarono a coordinare un sistema di allerta tsunami che iniziò a operare nel Pacifico nel 1965. Due giorni dopo eruttò un vulcano, il Puyehue, a est di Valdivia. L’eruzione non creò danni eccessivi, se non una grande concentrazione di cenere che arrivò anche in Argentina.
Valdivia si prese la gran parte delle attenzioni: era la città più grande e più nota, anche per ragioni turistiche, e dove effettivamente i danni furono più gravi. In tutto crollarono il 70-80 per cento delle case.
Daniel Navarrete è un giornalista cileno e ha scritto con Daniel Carrillo un libro su quel terremoto: Sesenta historias del terremoto del 60 (Sessanta storie sul terremoto del 1960). Racconta: «Sono cresciuto a Valdivia e i nostri nonni raccontavano di quel terremoto in termini quasi mistici: alberi che sembravano danzare, la terra che inghiottiva persone e cose». Dice che la distruzione della sede dei pompieri, che aveva una torre con un orologio molto «moderno», arrivato in dono dalla Germania, fu interpretata come una sorta di segno della «fragilità dell’urbanizzazione di fronte al potere della natura».
Nei giorni seguenti al terremoto si capì che l’emergenza non era finita: tre frane provocate dalle scosse avevano bloccato il deflusso delle acque dal lago Riñihue (l’ultimo di sette laghi collegati fra loro) verso il fiume San Pedro. Il livello delle acque nel lago, lontano 90 chilometri da Valdivia, salì di 26,5 metri in circa 60 giorni. A quella velocità, nel giro di un altro mese circa 4 miliardi di metri cubi d’acqua, come 1,6 milioni di piscine olimpioniche, si sarebbero riversati su Valdivia e la valle circostante.
Dalla fine di maggio iniziò quindi una mobilitazione per realizzare un’enorme opera ingegneristica: bisognava scavare vie di fuga per l’acqua e rimuovere i tappi di fango e detriti. Esercito, operai e volontari scavarono per due mesi, ma i 27 bulldozer arrivati sul posto presto divennero inutilizzabili per il fondo fangoso. Trecento-quattrocento persone scavarono con le pale, a mano. Alla fine si decise per una inondazione controllata di quattro giorni, che evitò danni peggiori. Lo sforzo per evitare l’alluvione divenne nota come L’epopea del Riñihue, o “Riñihuazo”, molto raccontata e celebrata come unione di intenti fra pubblico e privato nella società cilena.
Il terremoto causò però delle modifiche permanenti alla geografia di quei luoghi.
Marcelo Godoy, antropologo dell’Università Austral de Chile le definisce «decisamente radicali»: «un’ampia zona produttiva, di campi e fattorie, finì sott’acqua in modo definitivo». Si crearono quelle che oggi sono le zone umide di Valdivia, con nuove piante acquatiche che attirarono uccelli e di fatto diedero a origine un nuovo ecosistema, oggi preservato dall’istituzione del parco naturale Carlos Anwandter. Secondo racconti locali anche i leoni marini, ora un’attrazione della città, si stabilirono nell’area dopo il terremoto, quando l’estuario del fiume Cruces divenne più profondo e più salato.
Furono le uniche e circoscritte conseguenze positive del terremoto. Alla perdita di terreni agricoli si aggiunsero le frane e il fenomeno della liquefazione del terreno: in corrispondenza di terremoti il suolo perde temporaneamente consistenza e si comporta come un liquido, sfaldandosi e causando nuovi crolli nel tempo.
Alcuni fiumi, come il Lebu, smisero di essere navigabili. Altri si ampliarono notevolmente, come il Chepu, sull’isola di Chiloé, lontana ben 650 chilometri dall’epicentro. Alcuni boschi furono sommersi dalle acque: oggi il Bosque hundido (Bosco sommerso) sull’isola di Chiloé è molto visitato dai turisti che arrivano nella zona.

La distruzione nelle strade di Valdivia (AP Photo)
Al tempo Valdivia era ancora il secondo centro industriale del paese, dopo Santiago: nella zona c’erano cartiere, segherie, raffinerie di zucchero, calzaturifici, birrifici e alcuni cantieri navali. La lenta crisi del sistema industriale era cominciata nel 1914, con l’apertura del canale di Panama: molti porti cileni smisero di essere tappe obbligate rilevanti, perché le navi commerciali non dovevano più circumnavigare il continente. Il terremoto accelerò quella crisi. Senza particolari aiuti dallo stato molte aziende chiusero definitivamente e nell’area nacquero le prime baraccopoli di famiglie di operai che avevano perso il lavoro. Poi iniziò una transizione verso un nuovo modello, con al centro i servizi, l’università e il turismo.
Dice l’antropologo Godoy: «Il secondo campus dell’Università Austral, quello “dei musei”, nacque dove c’era uno dei più importanti birrifici del paese e la città mostrò di sapersi reinventare, trasformando uno spazio industriale. Servirono circa 15 anni per completare il grosso della ricostruzione, ma riuscì a mantenere qualcosa delle sue radici spagnole e tedesche».
Molti paesi stranieri aiutarono il Cile a gestire l’emergenza dei primi giorni, e più avanti sostennero gli sforzi di ricostruzione. L’assistenza ai terremotati cileni fu anche un terreno di confronto per gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: del resto il terremoto avvenne in piena Guerra fredda. Dice il giornalista Navarrete: «Scattò quasi una gara, in cui si inserì anche il governo cubano: nel parlamento cileno si discuteva su quali aiuti accettare».
Anche i paesi europei che avevano più immigrati nell’area, come la Germania, contribuirono alla ricostruzione. Il paese di Toltén fu trasferito altrove, su terreni confiscati dallo stato e con case finanziate dai Paesi Bassi, che diventarono il “Quartiere Olanda”.

Aiuti statunitensi in arrivo a Puerto Montt (AP Photo)
Il terremoto distrusse la gran parte delle scuole di Valdivia e dell’area, oltre alle case. Lo stato cileno pensò di rispondere alle esigenze dei bambini organizzando un trasferimento temporaneo, su base volontaria, di migliaia di loro. A luglio del 1960 partirono in 2.030 verso Santiago e Valparaiso, dove vennero ospitati da famiglie “del nord” e inseriti nelle scuole locali. Per alcuni mesi, fino al gennaio seguente, Valdivia fu «la città senza bambini» nei titoli dei giornali del tempo. In alcuni casi il trasferimento aggiunse un nuovo trauma a quello del terremoto.
Il sud del Cile è inoltre l’area di cui sono originari i popoli indigeni mapuche. Il terremoto distrusse quasi totalmente le aree in cui vivevano soprattutto le loro comunità costiere. Il susseguirsi di scosse e le onde dello tsunami crearono terrore in una popolazione per cui uno dei miti fondativi è la lotta fra due entità, Trentren Vilu e Caicai Vilu, rappresentanti della terra e del mare.
In una comunità mapuche piuttosto isolata, a Collileufú, vicino a Puerto Saavedra e all’epicentro, la sciamana Juana Namuncura Añén sostenne la necessità di un sacrificio umano per placare il mare e la terra e ristabilire un equilibrio: fu scelto un bambino di sei anni, José Luis Painecur Painecur, la cui madre lavorava in una città del nord del Cile e che viveva coi nonni. Secondo ricostruzioni fu portato su un’alta scogliera e da lì gettato in mare.
Un paio di settimane più tardi furono arrestate cinque persone, fra cui la sciamana, ma al termine del processo furono assolte. Secondo la sentenza di un tribunale cileno agirono «senza una libera volontà, spinti da una forza ancestrale, da credenze radicate e dal terrore del momento». È un’eccezione specifica prevista dal Codice penale cileno risalente al 1875 e ancora in vigore (con varie modifiche), che prevede che non sia responsabile chi è spinto da «una forza irresistibile o una paura insuperabile». Il caso animò a lungo molte polemiche sulla stampa cilena: l’opinione pubblica fece ricadere sull’intera popolazione indigena la responsabilità morale dell’accaduto, alimentando la discriminazione nei loro confronti. In realtà anche all’interno della comunità mapuche ci furono molte discussioni sull’accaduto, e molti leader locali ne presero le distanze.

L’eruzione del vulcano Puyehue (U.S. National Oceanic and Atmospheric Administration, via Wikimedia Commons)
La necessità di ricordare e tramandare gli avvenimenti legati al terremoto e gli sforzi per la ricostruzione sono temi aperti di discussione nella regione. Navarrete racconta che ogni anno il 22 maggio ci sono delle celebrazioni che ricordano i morti, ma poi la cosa finisce lì, fino all’anno successivo. Godoy dice che il turismo della memoria non è mai stato davvero sviluppato: «È come se la popolazione locale avesse voluto rimuovere quel che è accaduto». Da qualche anno con un’iniziativa in parte pubblica e in parte privata si sta lavorando alla creazione di un museo: al momento però il progetto rimane in fase preliminare.