Il film sulla pandemia di Ari Aster
“Eddington”, presentato ieri a Cannes tra scarsi entusiasmi, racconta un periodo che raramente è apparso nel cinema
di Gabriele Niola

È un po’ strano vedere i personaggi di Eddington, il film di Ari Aster presentato venerdì a Cannes, indossare la mascherina, discutere sull’opportunità o meno di indossarla, o anche far entrare nei negozi persone che non la vogliono indossare. Il film del regista degli horror di grande successo di critica Hereditary e Midsommar è ambientato nel maggio del 2020 ed è uno dei pochi che in questi anni hanno raccontato il periodo della pandemia: cosa sia successo alle persone e come, in quei mesi, si siano accelerati alcuni cambiamenti già in corso. Non c’è solo quello in Eddington, che è un film denso di temi molto sentiti negli Stati Uniti contemporanei.
È la storia di uno sceriffo, interpretato da Joaquin Phoenix, di una zona nei pressi di Albuquerque nel New Mexico, che entra in aperto conflitto con il sindaco della cittadina, interpretato da Pedro Pascal, durante la campagna elettorale. Lo sceriffo crede a molti complotti, fomentato anche dalla moglie (Emma Stone) e dalla madre di lei; per questo non indossa mascherine, nonostante il suo lavoro sarebbe quello di imporne l’utilizzo.
Il sindaco invece è colluso con una società che vuole costruire un gigantesco datacenter vicino alla città e cerca di obbligare lo sceriffo a far applicare l’obbligo della mascherina. Esasperato da un mondo che non va come vorrebbe, preso in giro dai ragazzi e messo in difficoltà dalle proteste dei giovani e del movimento Black Lives Matter, lo sceriffo decide di provare a diventare lui il nuovo sindaco, con una campagna elettorale molto aggressiva sia online sia nella vita reale.
L’accoglienza a Cannes non è stata buona, principalmente perché la narrazione è confusa, il film è poco compatto e poco audace nella messa in scena, forse la caratteristica che in un festival di questo tipo viene perdonata di meno. Al contrario dei suoi film precedenti, Aster ha osato più nel tema che con le immagini o con la struttura narrativa. Alla critica statunitense è piaciuto leggermente di più rispetto a quelle degli altri paesi del mondo, ma nel complesso l’impressione, a giudicare anche dai timidi applausi alla fine della proiezione per la stampa, è che non stia piacendo.
– Leggi anche: Guida al festival di Cannes
È chiaro vedendo il film che le mascherine e la pandemia non siano l’argomento centrale ma quello di partenza, ci sono molte altre cose che sono importanti per la vita americana degli ultimi cinque anni, inclusa a un certo punto la morte di George Floyd e le sue conseguenze. La pandemia è il contesto, e fa esattamente quello che la maggior parte delle produzioni, americane e non, hanno cercato di evitare, cioè ricordare al pubblico quel periodo. Quella che le persone non volessero sentir parlare dei lockdown e della crisi sanitaria è stata una preoccupazione che si è diffusa quasi subito nelle produzioni, alimentata dagli insuccessi dei primi film che cercavano di rappresentarla. Una premessa come quella di Eddington ha quindi una sua componente provocatoria e controcorrente.
Ci sono state poche produzioni, tra film e serie, che hanno mostrato quel periodo, con mascherine e tutto il resto. Quando capita, come avviene nella serie Your Honor, hanno cercato di non dire la parola “Covid” o “pandemia”. Eddington invece lo fa perché parte dall’assunto opposto: vuole parlare di quel momento come quello in cui molte cose sono precipitate e tante contraddizioni sono diventate evidenti, e lo suggerisce già da uno dei poster usati per la promozione, in cui si vedono dei bufali cadere da una scarpata (scena e animali che non sono nel film).
– Leggi anche: Com’è che Pierfrancesco Favino è diventato un attore da festival
Provocare e cercare di fare film che siano diversi dagli altri non è inconsueto per Ari Aster, che come altri a metà degli anni Dieci ha esordito con un film dell’orrore, Hereditary – Le radici del male, perché in quegli anni era il genere con cui era più facile farsi produrre un primo film, quello in cui anche un film fuori dai canoni e originale poteva avere delle possibilità. Fu talmente così che per questi film fu coniato il termine “elevated horror” e Hereditary fu infatti distribuito dalla A24, società che dimostrò con quello e altri film grandi capacità di innovazione nel marketing per il cinema, e che produce anche Eddington.
Anche il film successivo di Aster fu un horror anticonvenzionale, tutto ambientato di giorno e con una fotografia chiara e assolata: Midsommar. Dopo questi primi due, Aster ha deciso di scriverne e girarne uno ugualmente “strano”, in uno stile grottesco e che somiglia a un viaggio psicologico nella mente di una persona con problemi di ansia, intitolato Beau ha paura. Lungo, contorto e costato più degli altri, era andato peggio al boxoffice.
Nell’idea di Eddington, il periodo pandemico è un buon momento per parlare di come, negli Stati Uniti e anche all’interno di un piccolo centro, esistano persone che vivono in realtà completamente diverse, apprendono informazioni diverse, anche opposte, attraverso media differenti. Gli Stati Uniti che il film vuole rappresentare sono abitati da persone che vivono slegate dalla collettività (raramente stanno insieme, anche quando sono marito e moglie) e bolle separate. Quando queste si scontrano, accade qualcosa di drammatico.
La parte più importante del film, quella che lo rende poco prevedibile, sta probabilmente nel personaggio protagonista, interpretato da Joaquin Phoenix: è sia l’artefice di tutti i problemi raccontati dalla trama che una vittima degli eventi. Essendo il personaggio principale, è anche quello con cui il film vuole che il pubblico empatizzi, anche se dice o fa cose con cui si può facilmente non concordare. Nel mondo del film infatti sebbene tutti siano personaggi pessimi, anche i giovani attivisti, anche i poliziotti e anche il sindaco che appare idealista, lo sceriffo complottista e pronto a credere alle cose peggiori è la parte più vulnerabile.