Il decennio degli horror d’autore

Gli “elevated horror”, come vengono definiti, si sono affermati come categoria di film assai conveniente per le case di produzione

(dal film “Midsommar” di Ari Aster)
(dal film “Midsommar” di Ari Aster)
Caricamento player

Il termine “elevated horror” fu utilizzato inizialmente al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati nel 2022, all’interno di Scream, quinto film della serie di film dell’orrore iniziata nel 1996 che racconta questioni inerenti al cinema dell’orrore stesso. Nelle prime scene la protagonista spiega quali siano i film horror che le piacciono, e usa l’espressione “elevated horror” (tradotta in italiano con “horror sofisticato”). Quando le viene chiesto cosa intenda con quel termine risponde che si riferisce a «un film horror ma con una complessa impalcatura emotiva e tematica. Non la solita sequela banale e scontata di scene spaventose».

Non è una definizione esaustiva di “elevated horror” ma va vicino a descrivere cosa accomuna il gran numero di film dell’orrore ambiziosi e ricercati che da circa un decennio rappresentano una delle categorie di film più apprezzate dalle case di produzione, in quanto molto convenienti e redditizi.

Sono pochi anni che l’espressione ha cominciato a diffondersi per indicare un nuovo tipo di film, un sottogenere dei film dell’orrore. Una delle prime occorrenze risale a un’intervista del 2010 a Simon Oakes, CEO di Hammer Films, storica società specializzata nella produzione di film di paura. Oakes disse che internamente chiamavano “elevated horror” i film di paura mescolati con il thriller psicologico in stile Hitchcock. Fece riferimento a The Resident (un film che oggi non si fa più rientrare in questa categoria) e indirettamente indicò anche che gli “elevated horror” erano il tipo di film verso il quale la casa di produzione era indirizzata, facendo riferimento a Blood Story, remake di quello che può essere considerato il vero precursore e ispiratore di questo filone di horror ambiziosi contemporanei: il film di vampiri svedese del 2008 Lasciami entrare.

La produzione dei film a cui si fa riferimento oggi quando si parla di “elevated horror” però iniziò intorno al 2014. Vi rientrano film nella maggior parte dei casi americani, solitamente indipendenti (cioè non prodotti da una delle principali major, anche se non è una caratteristica imprescindibile), che non hanno come priorità lo spavento, bensì che cercano di fare tutto quello che fa normalmente un film d’autore in termini di racconto complesso, personaggi approfonditi e soprattutto di realizzazione raffinata (cioè fotografia, scenografia, montaggio e rapporto con le musiche). Un “elevated horror” è quindi un film nel quale, almeno nelle intenzioni, la componente paurosa è bilanciata con quella artistica.

– Leggi anche: Cosa rende horror un horror?

Uno dei primi film di questa nuova ondata di horror con caratteristiche di film “arthouse” (termine con il quale è indicato nel resto del mondo quello che noi chiamiamo “cinema d’autore”) fu It Follows, uscito nel 2014. Altri esempi recenti di elevated horror sono stati The Witch di Robert Eggers, Mandy di Panos Cosmatos, Candyman di Nia DaCosta o Hereditary di Ari Aster. I più noti tra gli “elevated horror” invece sono probabilmente Get Out di Jordan Peele e il vincitore della Palma d’Oro del 2021 Titane di Julia Ducournau.

Gli horror ambiziosi e d’autore non sono però una cosa recente. Prima dell’espressione “elevated horror” ne veniva usata una più ampia e generica: “art horror”. È un termine più accademico, usato per identificare una produzione con evidenti ambizioni artistiche e una trama riconducibile alle convenzioni o alle figure tipiche di un horror, non sempre e non necessariamente con la finalità di spaventare lo spettatore. Sono considerati “art horror” per esempio film come Suspiria di Dario Argento, Nosferatu il principe della notte di Werner Herzog (e Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau), Psyco di Alfred Hitchcock, film di Mario Bava dalla scrittura semplice ma dalla realizzazione molto sofisticata come La maschera del demonio, Rosemary’s Baby di Roman Polanski, Shining di Stanley Kubrick o Twin Peaks – Fuoco cammina con me di David Lynch.

I registi di questi film erano in molti casi già affermati e celebrati quando li hanno girati, mentre gli “elevated horror”, almeno in una prima fase, sono stati quasi esclusivamente film di esordienti. Questo perché è un sottogenere nato soprattutto da un cambiamento nei film che le case di produzione americane volevano realizzare.

Lungo gli anni Duemila i mutamenti interni all’industria americana resero sempre più difficile la produzione di film “arthouse”, cioè per un pubblico ristretto e con atmosfere ricercate. Anche i grandi festival di cinema, che prima erano un posto perfetto per quei film, in cui potevano essere valorizzati e venduti all’estero rientrando così delle spese, cominciarono a preferire film sperimentali puri accanto ad altri a metà tra il commerciale e l’arthouse. I classici film d’autore indipendenti americani furono penalizzati da questo cambiamento nelle selezioni. Quindi mentre tutti i paesi del mondo continuavano a produrre film di ricerca e a vedersi selezionati, i registi americani faticavano a farlo senza dover cambiare approccio. Un esempio eclatante fu quando il film più chiacchierato del festival di Cannes del 2014 fu Whiplash di Damien Chazelle, film con molte caratteristiche commerciali (un ritmo incalzante, l’uso di archetipi narrativi come il mentore burbero e una grande sfida finale) che in altre epoche non sarebbe stato nemmeno selezionato.

Parallelamente, a partire dal 2007 con Paranormal Activity, il cinema dell’orrore ebbe una crescita importante in termini di successo. Nacquero nuove case di produzione specializzate (la Blumhouse per esempio) e per tutto lo scorso decennio gli horror furono l’unica categoria a incassare anche molti soldi senza bisogno di essere legati a un franchise, cioè senza essere adattamenti, prequel, sequel e via dicendo.

Il caso di It Follows (2014), e l’entusiasmo con il quale fu accolto da appassionati, critica e addetti ai lavori fu un momento di svolta. Era un film che, come spesso è capitato con gli horror (fin da Scream), conteneva anche delle riflessioni più o meno esplicite su cosa significa girare oggi un horror. Spesso nei film dell’orrore con un killer, come Venerdì 13 o Halloween, i personaggi che non hanno remore a fare sesso, bere o drogarsi sono le prime vittime. In It Follows c’è una maledizione che fa vedere alle persone che ne sono vittime qualcuno o qualcosa che le segue sempre e ovunque, senza sosta, costringendole a fuggire a oltranza. L’unica maniera di liberarsi di questo qualcosa, che si non vede mai chiaramente ma da cui i personaggi sono terrorizzati, è fare sesso con qualcun altro che a quel punto sarà il nuovo perseguitato.

La storia, ma anche la maniera in cui è girata, cioè con grande enfasi sull’ambientazione, sui problemi dei personaggi e sulle loro relazioni più che su grandi spaventi (che comunque ci sono), è sufficientemente aperta alle interpretazioni da far pensare a una metafora delle malattie sessualmente trasmissibili come l’AIDS, oppure all’ossessione puritana americana. Ma anche, ipotizzarono alcuni critici, a una riflessione su come sia possibile ripensare oggi il classico film dell’orrore, dal momento che certe convenzioni sono ormai poco credibili se non proprio prevedibili e noiose, visto lo sfruttamento intenso che ne è stato fatto negli anni.

Dal moderato successo di It Follows alcuni registi interessati a fare cinema d’autore furono portati a mascherare i propri film come film dell’orrore per farseli finanziare più facilmente. Storie che potevano essere raccontate anche senza quel tono diventarono storie spaventose, visto il grande interesse del pubblico e quindi dei produttori. Robert Eggers è il regista di The Witch (uscito l’anno dopo di It Follows) e di un film ancora più estremo dal punto di vista della combinazione di attori noti (Willem Dafoe e Robert Pattinson) con una storia molto sperimentale e un’atmosfera di tensione e paura, The Lighthouse. In un’intervista a Vice spiegò come dopo aver girato dei cortometraggi avesse incontrato dei produttori interessati a fare un lungometraggio con lui, ma «ogni volta che leggevo delle sceneggiature che erano bizzarre, molto dark e non appartenenti a un genere preciso nessuno le voleva realizzare. Ho capito allora che dovevo scegliere una storia che appartenesse a un genere preciso ma che fosse anche qualcosa di personale e vicino a me, in modo da non sacrificare chi sono o i miei valori».

– Leggi anche: I film che vedono tutti sono sempre più rari

The Witch, presentato al Sundance Film Festival nel 2015 e poi uscito in sala nel 2016, fu il secondo maggior incasso statunitense della sua annata tra i film indipendenti. Incassò 25 milioni negli Stati Uniti e altri 15 nel resto del mondo, a fronte di un budget di 4 milioni di dollari. L’idea in quel caso era di riprendere il “folk horror”, cioè l’horror basato sulle leggende popolari, e raccontare una storia di stregoneria negli anni della caccia alle streghe americana con una forte connotazione di realismo. Immaginando cioè come avrebbe potuto essere la caccia alle streghe se le streghe fossero esistite sul serio. La protagonista del film era Anya Taylor-Joy, prima che diventasse famosa con La regina degli scacchi. Da quel momento il successo di questi film è stato sempre maggiore.

Gli “elevated horror” hanno avuto e in certi casi continuano ad avere buoni incassi (proporzionati al loro essere indipendenti, che quindi non godono di possibilità di promozione paragonabili a quelle dei grandi film) e a essere presentati nei principali festival del mondo. In molti fanno rientrare nella categoria anche i film di Guillermo del Toro, sia quelli spagnoli dei primi anni Duemila come La spina del diavolo o Il labirinto del fauno sia quelli girati negli Stati Uniti come La forma dell’acqua, nonostante un’atmosfera e una scrittura più convenzionale. Seguendo questo tipo di classificazione negli ultimi sei anni due “elevated horror”, Titane e per l’appunto La forma dell’acqua, hanno vinto i principali festival del mondo (rispettivamente Cannes e Venezia) e il secondo ha vinto anche l’Oscar come miglior film.

Come spesso capita molti dei registi che sono emersi e hanno trovato un successo con questo tipo di film sono stati poi chiamati a lavorare per case di produzione maggiori in film più grandi. In certi casi anche lontani dagli horror. Robert Eggers ha creato e girato per la Universal The Northman con Anya Taylor-Joy e Alexander Skarsgard, una storia ambientata nella Norvegia dell’anno 895 d.C. nella quale, come in The Witch, i personaggi sono convinti che la mitologia nordica sia reale e agiscono di conseguenza. È un film sia molto efferato che cupo e spettacolare, diverso dal cinema indipendente e più vicino alle esigenze di grandi incassi (che non sono arrivati) delle major. Nia DaCosta, che era emersa nel 2021 con un horror impegnato sullo sfruttamento urbano dei ghetti afroamericani e la violenza della gentrificazione intitolato Candyman (a sua volta sequel di un film omonimo degli anni ’90), ha diretto The Marvels, un film di supereroi dell’universo Marvel per nulla legato all’horror, a breve nei cinema.

– Leggi anche: Gli effetti speciali stanno peggiorando

David Robert Mitchell, regista di It Follows, dopo un film più costoso intitolato Under the Silver Lake con Andrew Garfield, ora sta lavorando a They Follow, sequel di It Follows. Dopo Hereditary Ari Aster ha girato Midsommar (un altro “elevated horror” con Florence Pugh) e l’anno scorso un film a budget più alto con una star come Joaquin Phoenix intitolato Beau ha paura, che è più un viaggio psicologico che un horror. Solo Jordan Peele dopo Get Out e Noi è riuscito a passare a una major, la Universal, e girare Nope, trasformando quello che aveva fatto vedere di buono con i film indipendenti in un film più commerciale ad alto budget, alta tensione e un bel po’ di paura, ottenendo anche un buon incasso.

Al di fuori dagli Stati Uniti la produzione d’autore è maggiore e vive con un’economia diversa, per questo gli horror con ambizioni artistiche sono sempre esistiti. Tuttavia l’arrivo degli “elevated horror” americani e il loro successo, specialmente nella cerchia della cinefilia più giovane, ha stimolato degli emuli. Ad esempio il primo film di Julia Ducournau, intitolato Raw, ha sicuramente potuto godere di maggiori finanziamenti e attenzioni proprio in quanto “elevated horror” incentrato sui temi del cannibalismo, del vegetarianesimo e della sessualità. Il film Lamb con Noomi Rapace, un altro esordio visto quest’anno a Cannes in cui in una famiglia di campagna nasce un bambino con un braccio e una testa di un agnello, mescola un tipo di storia tipica da cinema d’autore scandinavo a idee inquietanti che vengono dall’“elevated horror”. Addirittura quest’anno anche un regista come Paco Plaza, che gira film dell’orrore poco sofisticati come Rec da prima dell’emergere degli “elevated horror”, ne ha realizzato uno per Netflix intitolato Sorella Morte.

In molti rifiutano il termine “elevated horror” perché sostengono che questo implichi che gli altri horror non siano sofisticati, o che prima degli “elevated horror” non ci fossero film dell’orrore con ambizioni artistiche. Di certo è un’espressione che ha un valore più che altro contemporaneo, e nonostante sia nata per identificare un tipo di produzione, con il tempo è finita per identificare un piccolo movimento, un’ondata di film di un certo tipo, omogenei per linguaggio, svolgimenti e modalità produttive. Ciononostante un regista molto importante per la storia del cinema horror come John Carpenter (autore di La cosa, Halloween, Essi vivono e Christine – la macchina infernale) intervistato da AV Club l’anno scorso aveva detto di non sapere cosa fosse un “elevated horror”: «posso intuirlo ovviamente ma la verità è che non lo so, non ho la minima idea di cosa tu stia parlando». Quando gli spiegarono il senso dell’espressione, Carpenter aveva commentato: «Gli horror metaforici esistono. Ma tutti i film horror hanno… Non proprio dei messaggi ma più dei temi. Diciamo delle tematiche. Almeno alcuni li hanno. Quelli buoni».