Come e quando un detenuto può avere un permesso di lavoro esterno

Se ne sta parlando molto per il caso di Emanuele De Maria, evaso dal carcere di Bollate e sospettato di aver commesso un femminicidio prima di suicidarsi

Finestre del carcere di Bollate (ANSA /CARLO FERRARO)
Detenuti dietro le finestre del carcere di Bollate (ANSA /CARLO FERRARO)
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Il caso dell’uomo evaso dal carcere di Bollate e poi morto dopo essersi buttato dalla terrazza del Duomo di Milano ha suscitato discussioni accese sulle modalità e i criteri con cui ai detenuti possono venire concessi permessi per il lavoro esterno al carcere. L’uomo, il 35enne napoletano Emanuele De Maria, era evaso dal carcere proprio dopo aver ottenuto uno di questi permessi. Ci sono diversi elementi d’indagine in base ai quali la polizia sostiene che durante la sua permanenza all’esterno, prima del suicidio, abbia compiuto due gravi reati: il primo in ordine temporale è l’accoltellamento di un collega dell’hotel, il secondo è il femminicidio di una collega con cui aveva avuto una relazione, la 50enne Chamila Wijesuriyauna.

De Maria era uno dei circa 700 detenuti del carcere di Bollate che lavorano (su oltre 1.300 totali) e uno dei circa 200 che possono lavorare all’esterno del carcere: a rendere eccezionale il suo caso è stato anche il fatto che il carcere di Bollate è considerato un po’ un modello per la quantità di permessi di lavoro esterno concessi ai detenuti (come su altri aspetti del loro trattamento). In Italia le carceri che permettono ai detenuti di lavorare all’esterno sono ancora molto poche, per ragioni che dipendono sia dalla cultura carceraria che dalla diffidenza degli enti esterni ad assumere persone detenute.

Sul caso di De Maria il ministero della Giustizia ha chiesto la documentazione, probabilmente per avviare un’ispezione: De Maria era detenuto per un femminicidio compiuto nel 2016 e gli era stato accordato un permesso per lavorare come receptionist in un hotel, quindi in un luogo in cui aveva accesso quotidiano a documenti e stanze private dei clienti. Lavorava da quasi due anni nell’hotel in questione, il Berna vicino alla stazione Centrale di Milano, e proprio lì avrebbe conosciuto la collega che è sospettato di aver ucciso prima di suicidarsi.

Il carcere di Bollate (ANSA/MATTEO CORNER)

In carcere i permessi per il lavoro all’esterno sono, almeno in linea teorica, considerati una parte fondamentale (e di dimostrata efficacia) nel processo di reinserimento del detenuto nella società libera, cosa che a sua volta dovrebbe costituire l’obiettivo finale dello stesso percorso carcerario. I permessi per il lavoro all’esterno non sono una misura alternativa, cioè un modo per scontare la pena fuori dal carcere: sono un beneficio, cioè una misura che ha l’obiettivo di facilitare il reinserimento del detenuto nella società, e come tali fanno parte del trattamento carcerario.

Concretamente il lavoro esterno permette a un detenuto di uscire dal carcere per un certo orario e di lavorare esattamente come una persona libera, con tutti i diritti e i doveri correlati (a meno che per ragioni di sicurezza non sia necessaria una scorta, ma non era il caso di De Maria).

Il funzionamento di questi permessi è variato negli anni, con leggi più o meno restrittive: un punto di riferimento importante è la legge Gozzini del 1986, che ha ampliato le possibilità per concederli e per fare in modo che i detenuti trovino effettivamente lavoro fuori dal carcere (cosa anche è comunque ancora molto complicata): tra le misure previste da quella legge ci fu anche l’ampliamento del lavoro dei detenuti al settore terziario (quindi anche gli alberghi, e in generale lavori a contatto col pubblico) anziché solo in ambito agricolo e industriale, come era prima.

Oggi i permessi di lavoro all’esterno del carcere sono regolamentati soprattutto dall’articolo 21 della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 e dall’articolo 48 del decreto del presidente della Repubblica 230 del 2000.

La legge, in sostanza, prevede che possano accedere ai permessi di lavoro all’esterno gli imputati in un processo che siano in custodia cautelare e i condannati, con qualche limitazione prevista per alcuni tipi di reati: le persone detenute per reati particolarmente gravi (quelli previsti dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario), possono accedere a permessi di lavoro esterno solo dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena, ma solo se la pena complessiva non è superiore a cinque anni o se dimostrano di collaborare con la giustizia. Per i condannati all’ergastolo il lavoro all’esterno è permesso solo dopo aver scontato almeno dieci anni.

Il procedimento con cui si concede a una persona detenuta un permesso per lavorare all’esterno è complesso, e coinvolge varie persone, ognuna col suo grado di responsabilità. La richiesta viene fatta dalla direzione del singolo carcere, dopo una relazione fatta da una specifica commissione che valuta il caso: la richiesta della direzione va poi approvata dal magistrato di sorveglianza, che è responsabile del trattamento dei detenuti, o nel caso di un imputato dal giudice competente.

Il grosso del lavoro è fatto dalla commissione che valuta il caso: è composta da persone che lavorano nel carcere, che conoscono il detenuto e il suo percorso. Nella valutazione del caso e nella relazione che viene inviata alla direzione la commissione deve valutare l’andamento del percorso rieducativo del detenuto e il grado di coscienza che durante la detenzione ha maturato rispetto alle azioni per cui è detenuto. La commissione deve valutare anche l’attitudine del detenuto a svolgere il tipo di lavoro per cui si sta facendo domanda, e l’idoneità di quel programma lavorativo rispetto all’obiettivo finale della detenzione, cioè il suo reinserimento nella società libera.

Le leggi di riferimento non contengono indicazioni precise sui singoli aspetti che la commissione deve tenere in considerazione quando formula la relazione, per esempio se un certo luogo di lavoro sia o meno indicato per quel detenuto. Il criterio principale è che quell’attività lavorativa sia idonea a garantire un percorso che si concluda positivamente, sia rispetto all’esperienza del detenuto che rispetto al suo percorso di reinserimento.

Il tipo di lavoro da svolgere viene generalmente individuato prima di formulare la richiesta del permesso: uno dei problemi principali è che non c’è molta scelta, visto che il mondo esterno al carcere, sia nel pubblico che nel privato, è ancora molto resistente rispetto all’assunzione dei detenuti, sia per ragioni culturali che di ovvie complicazioni burocratiche in più rispetto all’assunzione di una persona libera.

Una volta formulata la relazione della commissione, la direzione del carcere la valuta a sua volta e poi la sottopone al magistrato, che per decidere se approvarla o meno deve fare una serie di valutazioni: sul tipo di reato per cui la persona detenuta è in carcere, sulla durata della pena e sulla sua pericolosità sociale, cioè sul rischio che uscendo dal carcere compia nuovi reati e possa nuocere ad altri. Anche nel caso in cui il permesso venga accordato, è comunque sottoposto a limiti di orario, regole piuttosto rigide su quando e come uscire ed entrare dal carcere, e nel caso di attività lavorative in imprese private a un controllo diretto sul detenuto.

Non ci sono al momento dettagli e informazioni pubbliche su come sia andato il processo di valutazione per accordare il permesso a De Maria, e in particolare su quali valutazioni abbiano fatto prima la commissione che ha considerato il suo caso, poi la direzione del carcere e poi il magistrato di sorveglianza.

Isabella Merzagora, criminologa dell’università statale di Milano, ha detto alla Stampa che esiste un ovvio margine di errore nella valutazione del percorso di un detenuto: che è impossibile avere l’assoluta certezza che non possa compiere altri reati una volta uscito dal carcere. Secondo dati comunicati a giugno del 2024 dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, organo consultivo del governo, il tasso di recidiva della popolazione carceraria nel complesso è del 70 per cento, ma tra i circa 20mila detenuti che hanno un contratto di lavoro è solo del 2 per cento.