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  • Domenica 27 aprile 2025

Non ha senso chiedersi se Francesco sia stato un papa “di sinistra”

Per capire le ragioni di certe sue posizioni bisogna vedere soprattutto cosa ha detto dei poveri, e perché per lui erano così importanti

di Francesco Gaeta

Papa Francesco al pranzo offerto dal Vaticano alle persone povere, in occasione della Giornata mondiale dei poveri, 13 novembre 2022
(REUTERS/Remo Casilli)
Papa Francesco al pranzo offerto dal Vaticano alle persone povere, in occasione della Giornata mondiale dei poveri, 13 novembre 2022 (REUTERS/Remo Casilli)
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«L’opzione per i poveri proviene dai primi secoli del cristianesimo. È il Vangelo stesso. Se io oggi leggessi come omelia i sermoni dei primi padri della Chiesa – II e III secolo – su come bisogna trattare i poveri, mi darebbero del maoista o del trotzkista». È una frase pronunciata nel 2010 da Jorge Mario Bergoglio, che era allora arcivescovo di Buenos Aires. Dentro c’è la risposta a una delle domande che ci si fa in questi giorni di bilanci: in economia e in politica, papa Francesco è stato un conservatore o un innovatore? È possibile dire che sia stato un papa “di sinistra”?

Sono le posizioni di papa Francesco su alcuni argomenti d’attualità, per esempio il fatto che si sia più volte schierato apertamente in difesa delle persone migranti, ad avergli spesso procurato la definizione di papa “progressista” o “di sinistra”. Non è solo una semplificazione, è un grosso equivoco. Le ragioni che hanno portato papa Francesco a prendere certe posizioni infatti non sono legate al contesto politico attuale (quello in cui i più conservatori vorrebbero generalmente limitare le migrazioni, al contrario dei più progressisti): vanno invece inquadrate in un’ottica di fede, e nella sua interpretazione della teologia.

Per capire il pensiero politico di papa Francesco, insomma, non ha tanto senso provare a collocarlo a destra o a sinistra (categorie che peraltro nell’Argentina in cui crebbe Bergoglio avevano un significato ben diverso da quello che hanno oggi in Europa). Bisogna invece considerare quel che ha detto e pensato dei poveri, che ha enormemente influenzato le sue posizioni sulla società, le ineguaglianze e i rapporti di classe, anche da papa.

Nel 2010 l’espressione «opzione per i poveri», poi usata spesso da papa Francesco durante il suo pontificato, aveva già una lunga storia alle spalle nel contesto della chiesa sudamericana. Comparve per la prima volta nei documenti della Conferenza di Medellín, in Colombia, che si tenne nel 1968 e fu promossa dal Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM) per attuare il Concilio Vaticano II nel continente. I vescovi affermarono che la Chiesa deve «fare propria la causa dei poveri», inaugurando un linguaggio che avrebbe fortemente influenzato la teologia dell’America Latina.

Negli anni ’70, il concetto venne ripreso e approfondito dagli esponenti della Teologia della Liberazione, una corrente religiosa cattolica che considerava la liberazione dei poveri non solo una questione sociale o politica, ma un’esigenza evangelica (cioè prescritta dal Vangelo), e che adottava categorie marxiste per analizzare i rapporti sociali ed economici. In un libro del 1971 (Teologia della liberazione. Prospettive) il sacerdote e teologo peruviano Gustavo Gutiérrez scrisse che parlare di Dio a partire dalla sofferenza degli innocenti non è un lusso intellettuale, ma «una necessità di fede» e che «la liberazione è un processo che coinvolge tutte le dimensioni della vita umana: economica, politica, sociale, spirituale».

Papa Francesco fa colazione con i senzatetto nella parrocchia di Saint-Gilles, Belgio, 28 settembre 2024 (Vatican Media/LaPresse)

Per le popolazioni dell’America Latina gli anni Settanta furono un periodo di oppressione, di regimi anticomunisti e di dittature militari in Brasile, Cile, Bolivia, Perù. L’Argentina fu governata da una giunta militare dal 1976 al 1983, negli anni in cui Bergoglio era superiore dei gesuiti, l’ordine religioso di cui faceva parte. Come successe anche altrove, la Chiesa locale si divise tra chi sceglieva di non contrastare i regimi autoritari e chi li combatteva.

La reazione del Vaticano e di papa Giovanni Paolo II fu apertamente critica nei confronti di chi usava categorie marxiste e forme di resistenza armata per opporsi ai regimi e riequilibrare le diseguaglianze. Nel 1983, in Nicaragua, davanti alle telecamere di tutto il mondo, papa Giovanni Paolo II redarguì pubblicamente padre Ernesto Cardenal, ministro sandinista e simbolo della teologia militante. Nel 1981 gli stessi gesuiti furono in una certa forma “commissariati” perché alcuni esponenti erano considerati troppo vicini alla Teologia della Liberazione più militante: al posto del padre generale Pedro Arrupe, che si era ammalato, papa Giovanni Paolo II nominò un proprio delegato personale come “commissario pontificio” con pieni poteri.

Papa Giovanni Paolo II rimprovera il ministro della Cultura e sacerdote Ernesto Cardenal all’aeroporto di Managua, Nicaragua, 4 marzo 1983 (AP/Barricada)

In quegli anni Bergoglio scelse una strada che si potrebbe definire di cauta resistenza alla dittatura argentina e, sul fronte interno, di mediazione rispetto agli esponenti della Teologia della Liberazione. In un libro appena pubblicato (Il folle di Dio alla fine del mondo, edizioni Guanda), lo scrittore spagnolo Javier Cercas ha scritto che per Bergoglio «la Teologia della Liberazione fu la risposta religiosa sbagliata a una richiesta legittima di giustizia sociale». E nel contesto della Chiesa latinoamericana dell’epoca, questo approccio secondo Cercas mise Bergoglio in una posizione «molto difficile»: «Da un lato, la sua preferenza attiva per i poveri e il suo impegno per la giustizia sociale provocavano la diffidenza della destra; dall’altro, irritava profondamente la sinistra il suo consacrarsi, dal proprio posto di comando, ad allontanare i gesuiti dal marxismo e dalla Teologia della Liberazione».

Quando nel maggio del 2007 si aprì ad Aparecida, in Brasile, la quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, molti si chiesero se la Teologia della Liberazione, allora considerata in declino, avrebbe avuto cittadinanza in quel consesso di vescovi. Bergoglio, da arcivescovo di Buenos Aires, presiedette la commissione di redazione del documento finale della Conferenza. A distanza di anni, si può dire che Aparecida è stato il luogo di una svolta: non ci fu un ritorno puro e semplice alla Teologia della Liberazione, ma piuttosto una sua riformulazione, una ripresa depurata dal linguaggio ideologico.

Quel documento è considerato dagli studiosi un manifesto del futuro pontificato di Bergoglio. Vi compaiono i suoi temi chiave, su tutti l’idea di una “Chiesa in uscita”, missionaria, povera tra i poveri.

È un’idea di Chiesa che si comprende meglio se si legge il testo più rilevante in cui Bergoglio, diventato poi papa Francesco nel 2013, espose il proprio pensiero sui temi economici e politici. Si intitola Evangelii Gaudium, venne pubblicata qualche mese dopo l’inizio del pontificato ed è quasi un programma di governo. In termini tecnici è una “esortazione apostolica”, un tipo di documento che non riguarda dogmi di fede ma intende esortare i fedeli su certi temi. In questo caso, l’esortazione contiene critiche piuttosto nette nei confronti dell’economia di mercato e un’analisi della società e della politica per certi aspetti inusuale per un pontefice.

La premessa fatta da papa Francesco nel documento è che «oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole». E dunque «grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita». Il risultato è che «mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria».

Nel documento, papa Francesco criticava in particolare le teorie economiche del trickle down, o “dello sgocciolamento”, quelle che dagli anni ’80 sono state alla base delle politiche economiche neoliberiste delle amministrazioni di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Thatcher nel Regno Unito, e di altri governi conservatori nel mondo. Sono le politiche economiche che teorizzano il fatto che benefici concessi ai più ricchi o alle imprese (attraverso sgravi fiscali e agevolazioni) finiscano per favorire anche i ceti medio-bassi, in quanto la ricchezza “sgocciola verso il basso”.

Scriveva papa Francesco:

Alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare.

Secondo papa Francesco, questo approccio all’economia e alla politica economica si dimostra insufficiente. Nell’Evangelii Gaudium c’era anche una considerazione sulla «funzione sociale della proprietà». Bergoglio scriveva che «il possesso privato dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli in modo che servano meglio al bene comune, per cui la solidarietà si deve vivere come la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde».

Affermazioni di questo tipo spiegano perché Bergoglio sia stato interpretato, anche da certi ambienti cattolici, come un pontefice “di sinistra”. Applicare questo schema però significa probabilmente prendere una scorciatoia e ignorare che per un pontefice queste categorie politiche sono secondarie rispetto a un altro piano, quello della religione. «Per noi cristiani – affermò papa Francesco in un discorso del maggio 2013 – la povertà non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché il Figlio di Dio si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada». Secondo papa Francesco, un fedele non può che leggere la storia e quindi l’economia e la politica “dal punto di vista” dei poveri, di quelli che nella Evangelii Gaudium chiamava «scarti» della storia.

Molti dei temi della Evangelii Gaudium dimostrano una certa affinità con il pensiero della Teologia della Liberazione. Diventato papa, Bergoglio riabilitò anche il teologo che ne era stato il primo teorico, osteggiato dalle gerarchie vaticane. Nel settembre 2013 ricevette a Roma Gustavo Gutiérrez e nel 2018, in una lettera per i 90 anni del teologo peruviano, Francesco gli scrisse: «Grazie per il tuo servizio teologico e per il tuo amore preferenziale per i poveri e gli scartati della società». Dopo la morte di Gutiérrez, nel 2024, lo ha definito «un grande uomo di Chiesa, capace di soffrire e servire con profondità teologica».

Tra i tanti, anche lo scrittore spagnolo Javier Cercas si è chiesto se Bergoglio sia stato «alla fine un papa di sinistra o di destra». La sua risposta è stata che «la cosa più giusta sarebbe dire che Francesco è un radicale del Vangelo che dà priorità assoluta ai poveri. Politicamente, è questo che è sempre stato. Forse per questo, negli anni Sessanta e Settanta, in piena effervescenza rivoluzionaria, in Argentina lo si considerava un conservatore (o perfino un uomo di estrema destra), mentre oggi, in pieno riflusso rivoluzionario, in Occidente lo si ritiene un uomo di sinistra (o perfino un comunista)».