Lo sforzo per intervistare partigiani e partigiane prima che muoiano
Da qualche anno l’ANPI ne sta intervistando centinaia per il Memoriale della Resistenza italiana, un archivio enorme e pubblico

Il 25 aprile del 1945, ottant’anni fa, i partigiani piemontesi della divisione Monferrato furono tra i primi a entrare a Torino, nell’Italia liberata dall’occupazione nazifascista. Tra loro c’era Gustavo Ottolenghi, un dodicenne che trascorse il resto della giornata ai piedi della statua del duca d’Aosta in piazza Castello. Figlio unico e di famiglia ebraica, si era dato appuntamento lì con i suoi genitori circa un anno e mezzo prima.
«Quando la guerra sarà finita, se tutto va bene, ci troveremo sotto la statua», gli aveva detto suo padre un giorno seduto in cucina. Se i nazisti e i fascisti li avessero trovati insieme avrebbero capito che erano ebrei in fuga: e così si erano divisi in tre fazioni partigiane diverse.
Lontano dai suoi genitori e con una piccola Beretta ricevuta dai suoi nuovi compagni, Ottolenghi aveva trascorso venti mesi nelle colline del Monferrato insieme alla sua brigata. Ne era diventato la vedetta, con l’incarico di avvistare in ogni paese l’arrivo dei camion di fascisti e tedeschi dalla cima dei campanili delle chiese o delle torri. Il suo nome di battaglia era “Robin”, come Robin Hood. Il 27 aprile 1945, dopo due giorni in cui era rimasto sotto il monumento in piazza Castello senza prendere parte ai festeggiamenti, vide comparire suo padre. Il quarto giorno arrivò anche sua madre: erano tutti e tre di nuovo insieme.
La storia di Ottolenghi è una tra le circa mille testimonianze di cui è composto il Memoriale della Resistenza italiana, un archivio pubblico nato da un progetto avviato nel 2019 dalla giornalista Laura Gnocchi e dal giornalista Gad Lerner in collaborazione con l’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI).
Da allora, oltre che trovare e rivedere materiali di archivio, Gnocchi e Lerner hanno intervistato oltre cinquecento persone anziane che furono coinvolte in vari modi nella Resistenza, nel periodo che va dall’armistizio dell’Italia con gli Alleati l’8 settembre del 1943 fino al 25 aprile del 1945, giorno della Liberazione del paese.

Una sfilata per la Liberazione in piazza Vittorio Veneto, a Torino, il 6 maggio 1945 (Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”/Wikimedia)
A parte il sito, che raccoglie centinaia di interviste video e testimonianze di vario tipo, dal progetto sono stati tratti finora il libro del 2020 Noi, Partigiani, il programma RAI dello stesso anno La scelta, e due libri per ragazzi, Noi, ragazzi della libertà nel 2023 e Dimmi cos’è il fascismo nel 2025. Le storie raccolte da Gnocchi e Lerner hanno ispirato anche uno spettacolo teatrale, D’oro. Il sesto senso partigiano, che andrà in scena venerdì 25 aprile al teatro Ivo Chiesa a Genova, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il progetto, frutto di un lavoro interamente volontario, nasce da una esigenza precisa: raccogliere i racconti delle persone che hanno partecipato alla Resistenza prima che muoiano. «Qualche intervista riusciamo ancora a farla, ma di partigiane e di partigiani vivi ce ne sono ormai veramente pochissimi», dice Gnocchi, spiegando una delle principali difficoltà della ricerca e l’urgenza di salvare una memoria orale della Resistenza.
Molte persone che presero parte alle lotte contro i nazifascisti sono morte di vecchiaia, altre durante la pandemia, e le poche ancora vive sono quasi centenarie o in certi casi ultracentenarie. Avendo all’epoca quasi tutte tra 14 e 18 anni, nessuna di loro era un comandante: erano perlopiù vedette, come Ottolenghi, e staffette, cioè persone che portavano alle bande carichi di cibo, armi e messaggi dalla città. Da un lato la loro posizione inferiore nelle gerarchie rende le testimonianze più varie e per molti versi più interessanti, rispetto alle informazioni tratte da documenti ufficiali; dall’altro ha reso anche più difficile rintracciare quelle persone, perché spesso il loro coinvolgimento era finito in secondo piano.
Da circa un anno, spiega Gnocchi, il lavoro è stato ampliato recuperando anche materiali di archivio – video conservati in cassette o in altri formati di scarsa qualità – messi a disposizione dall’ANPI e da altri istituti storici, tra cui l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto). È stato un lavoro complicato dal fatto che diversi materiali recuperati e ancora inediti provenivano da archivi privati estremamente vasti, non sempre catalogati come memorie della Resistenza, e questo ha reso necessaria una ricerca paziente e approfondita.
Diverse interviste ai partigiani del Verbano, per esempio, erano state fatte in passato da un bibliotecario della zona, che ha messo a disposizione per il progetto i materiali raccolti nel tempo. Ma è un caso piuttosto isolato, spiega Gnocchi: spesso è stato necessario passare in rassegna singoli filmati familiari girati dai parenti delle persone coinvolte nella Resistenza.
La raccolta di nuove testimonianze si è avvalsa soprattutto di vie informali come il passaparola. Ogni volta che lei e Lerner riuscivano in questo modo a raggiungere persone la cui testimonianza non era ancora stata raccolta, spiega Gnocchi, «abbiamo sempre e solo trovato gente contenta di raccontarci la propria storia». Alcune persone non ne avevano mai parlato con dei giornalisti, altre non ne parlavano in generale con nessuno da molto tempo. A volte non hanno nemmeno capito bene a chi interessasse e a cosa servisse il racconto di fatti della loro adolescenza.
Il passaparola ha permesso anche di raggiungere persone a lungo tempo escluse del racconto della Resistenza, cioè soprattutto le partigiane e le staffette.
«Di noi, alcuni pensavano che fossimo le puttane dei partigiani, e questo mi feriva molto», disse a Lerner e Gnocchi una ex partigiana di Novara, Lidia Brisca Menapace. Descrisse pregiudizi che all’epoca circolavano tra i fascisti, per i quali «le ragazze dovevano studiare poco, sposarsi e mettere al mondo tanti figli per la patria», ma anche tra i non fascisti. Molte persone, senza avere il coraggio di dirlo, pensavano che «le ragazze che lasciano la casa, vanno in montagna e dormono in tenda con i ragazzi sono di piccola virtù». Anche per questo motivo molte donne, dopo la Liberazione, preferirono non dire di essere state partigiane.

Una folla di persone riunite davanti all’Altare della Patria in piazza Venezia, a Roma, nell’aprile del 1945 (Fine Art Images/Heritage Images/Getty)
Diverse testimonianze raccolte in anni recenti, tra cui quella di Teresa Vergalli, hanno permesso di ricostruire cosa successe a quelle donne durante la resistenza, comprese le torture a cui molte di loro furono sottoposte dai fascisti e dai nazisti. Gastone Malaguti, partigiano del Gruppo di azione patriottica (GAP) di Bologna, ha raccontato al progetto la storia di una staffetta «temeraria» e sua grande amica, Irma Bandiera. La sua testimonianza è finita anche nel libro Noi, Partigiani.
«La chiamavo “Zia” perché era più grande di me, anche se aveva soltanto ventinove anni. Tra le cose che non potrò mai dimenticare nella vita c’è l’ultima volta che l’ho vista, sul tavolo dell’Istituto di medicina legale di Bologna: i fascisti l’avevano torturata per sei giorni prima di fucilarla. Ma non aveva parlato. Era sfigurata, irriconoscibile, chissà quanto avrà sofferto, quanto dolore, strazio, povera zia Irma. È stata insignita di una medaglia d’oro alla memoria. Purtroppo non fu un caso isolato: soltanto a Bologna in quegli anni morirono centosettanta donne in battaglia o come staffette. E, nella speranza di conoscere i nostri nascondigli, venivano torturate fino alla morte».
Un altro degli elementi poco raccontati della Resistenza, di cui si sono accorti Gnocchi e Lerner, è la condizione di povertà da cui provenivano molti ragazzi e ragazze: povertà in cui una parte di loro è rimasta per tutta la vita, anche dopo la Liberazione. «Siamo stati più in tinelli che in castelli», dice Gnocchi, definendo alcune interviste «una testimonianza di un mondo che non esiste più, per fortuna». Tra le persone ascoltate a lungo c’erano un pastore che a sei anni portava le mandrie al pascolo di notte, e vari artigiani – sellai, bottai, selciatori – che lavorano da quando di anni ne avevano sette o poco più.
Nel libro Noi, Partigiani Gnocchi e Lerner descrivono anche un «sesto senso del partigiano» una sensazione condivisa tra molte persone intervistate. È una sorta di «istinto», di capacità di cogliere in anticipo un certo tipo di segnali del presente e i pericoli che si portano dietro: razzismo, militarismo, retorica nazionalista. «Volevamo la libertà, che ci era stata tolta massimamente. Ma non una libertà in cui ognuno fa quello che vuole, compreso pensare che il ritorno del fascismo sia legittimo», ha raccontato al progetto Lidia Brisca Menapace, che ha aggiunto:
«Quando adesso sento rinascere opinioni di destra estrema, “sovraniste”, come le chiamano, capisco quanto sia mancata la conoscenza, il tessuto culturale che andava costruito giorno per giorno nelle scuole. Ora che segni di fascismo riaffiorano, ho paura, che non è un sentimento che mi assomiglia molto. Ho paura perché la democrazia che abbiamo costruito pare essere rimasta fragile, che possa sgretolarsi».