Ora le interviste in tv si fanno mangiando
Perché vengono più spontanee: il format americano “Hot Ones” ha inaugurato un filone di talk show che è arrivato anche in Italia
di Matilda Ferraris

Anche se parlare con la bocca piena è generalmente considerato un comportamento un po’ maleducato, negli ultimi anni una serie di programmi televisivi in Italia e all’estero ci ha costruito attorno un format. Il cibo infatti sta uscendo dal contesto della food television, quella in cui piatti e ricette sono l’elemento centrale, per diventare un pretesto per applicare delle variazioni ad altri formati televisivi, specialmente quello dei talk show.
Di recente per esempio è stata realizzata la versione italiana di Hot Ones, un programma americano in cui le normali interviste sono costruite come sfide di resistenza, in cui le prove sono alette di pollo sempre più piccanti. Ma ci sono anche le interviste in cui Vogue fa assaggiare alle celebrità dei piatti simbolo di una tradizione gastronomica, mentre le fa parlare della propria vita, oppure programmi come Dinner Club condotto da Carlo Cracco, o ancora A casa di Maria Latella, dove si tenta di ricreare con ospiti famosi l’atmosfera di una cena tra amici.
Tra i primi successi di questa moda televisiva c’è stato proprio Hot Ones, creato nel 2015 negli Stati Uniti da Sean Evans e pubblicato su YouTube, dove ha raccolto oltre 4 miliardi di visualizzazioni complessive e 14 milioni di iscritti. Durante ogni puntata Evans e il suo ospite, di solito una celebrità, devono mangiare dieci alette di pollo, ciascuna con una salsa di crescente piccantezza. Ad ognuna corrisponde una domanda, e più aumenta il grado di piccantezza, più le conversazioni diventano personali. Gli ospiti boccheggiano, soffrono, ingurgitano bicchieri di latte per frenare la sensazione di bruciore. Sul tavolo sono disposte vivande di ogni tipo per calmare il palato: latte, pane, gelato.
Ognuno reagisce diversamente, ma in quasi ogni puntata Evans riesce nel suo intento di far assomigliare le interviste a conversazioni tra amici. Come ha raccontato lo stesso Evans al sito Bon Appétit, riferendosi a come i suoi ospiti dimentichino le istruzioni formali impartite dagli uffici stampa, «quando arrivi alla decima salsa il tuo media training svanisce completamente».
Inizialmente il programma aveva un pubblico prevalentemente maschile, e soprattutto rapper, atleti e comici come ospiti. Poi, con la crescente popolarità del format, Evans ha potuto intervistare anche star del cinema, come Viola Davis, o popstar come Lady Gaga.
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Un’operazione simile è stata fatta da Amelia Dimoldenberg, l’ideatrice di Chicken Shop Date. Anche Dimoldenberg ha iniziato molti anni fa: il suo format era inizialmente una rubrica su un giornale locale, poi si è spostato su YouTube, cominciando a intervistare rapper e riuscendo progressivamente ad avere ospiti più pop, tra cui Paul Mescal, Cher ed Ed Sheeran.
Sebbene i due format siano diversi – in Hot Ones c’è la componente della sfida, in Chicken Shop Date quella del flirt – hanno un aspetto in comune: il cibo come contesto informale che rende più spontanee le conversazioni. L’ospite non è seduto su una sedia davanti a un conduttore senza far nulla, ma mangia e chiacchiera come accadrebbe in un appuntamento con un amico o con un potenziale partner.
Come ha scritto Caroline Schneider su Hollywood Insider nel 2021, queste interviste strutturate attorno al cibo danno un’atmosfera più informale alle conversazioni: il cibo è generalmente il modo in cui molte persone si conoscono e questo formato di intervista dimostra che quello del sedersi a tavola è un metodo efficace per estrarre informazioni più personali agli ospiti.
In Italia Hot Ones è stato adattato da Alessandro Cattelan, che ha spesso preso ispirazione dai talk show americani. Ha raccontato che, quando inizialmente provò a riproporre un’idea simile in un episodio di Stasera c’è Cattelan, il suo programma precedente, ricevette una diffida da parte della casa di produzione statunitense. A quel punto decise di contattarli direttamente e candidarsi per la versione italiana, raggiungendo un accordo. Il programma è partito il 23 dicembre 2024 in onda solo su RaiPlay, ogni settimana c’è una nuova puntata con ospiti personalità dello spettacolo, come Rose Villain o Benedetta Parodi.
Un altro programma che mette al centro la conversazione accompagnata dal cibo è quello della giornalista politica Maria Latella. Quando andava in onda su Sky si chiamava A cena da Maria Latella, ora che è su Rai 3 è diventato A casa di Maria Latella, ma il format è rimasto lo stesso: una tavola imbandita, quattro ospiti sempre diversi e un tema su cui discutere.
Sia Cattelan sia Latella usano il cibo come strumento per calare il loro programma in un contesto ben preciso, spiega Luca Barra, professore di media e televisione all’Università di Bologna. «Cattelan ricerca un’atmosfera popolare creando l’immaginario del fast food di provincia, dell’America più profonda in cui si prende il cibo con le mani, ci si sporca, e si fatica a parlare perché è troppo piccante». La dinamica rimane sempre quella del talk show dove però si aggiunge un elemento di divertissement: il cibo.
Il programma di Latella invece si colloca all’estremo opposto: l’atmosfera della tavola è cerimoniale e la padrona di casa regola il passaggio di parola nella conversazione: «In questo caso stiamo parlando di una cena alto borghese aristocratica con le varie portate, che rimanda esplicitamente alle conversazioni nei caffè letterari, nei salotti», spiega Barra.
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Il format di A casa di Maria Latella, che viene chiamato talvolta “dinner talk”, ebbe la sua prima espressione in Italia nel 1983, ideato e condotto da Luciano Rispoli: si chiamava Pranzo in TV e andava in onda su Rai 1. Anche in questo caso il programma prevedeva di riunire attorno a un tavolo un gruppo di commensali, un mix tra famosi e non, e di farli interagire mentre pasteggiavano. In un’intervista Rispoli aveva raccontato di quanto fosse stato difficile all’inizio trovare un equilibrio tra conversazione e pasto: «Io arrivavo con le domande pronte ed ero troppo teso per mettere un boccone in bocca. Poi ho capito che dovevamo evitare al massimo la finzione». Il programma fu trasmesso in diretta tutti i giorni nell’estate del 1984, in sostituzione del programma Pronto, Raffaella? di Raffaella Carrà.
L’atmosfera delle cene tra amici è stata ricreata recentemente anche da Dinner Club, un programma condotto dallo chef Carlo Cracco su Amazon Prime Video e arrivato alla terza stagione. In ciascuna Cracco raduna un gruppo diverso di ospiti famosi, come Sabrina Ferilli, Emanuela Fanelli o Diego Abatantuono, e in ogni puntata viaggia con uno di loro approfondendo il prodotto tipico di un territorio. Alle sequenze di viaggio si intervallano scene a tavola dove i commensali si prendono in giro, chiacchierano e cucinano.
Ciò che ha contribuito al successo del programma non è tanto la scoperta dei cibi e dei vini – molto raccontata dalla televisione italiana – quanto l’idea di mettere attorno allo stesso tavolo degli intrattenitori di professione. Come ha detto Corrado Guzzanti, che ha partecipato all’ultima stagione, «è una vita che con i miei amici diciamo che dovrebbero riprendere le nostre cene per quanto ridiamo, in Dinner Club lo hanno fatto davvero».
Già negli anni ’90 su MTV Andrea Pezzi aveva provato a mettere le celebrità alla prova con la cucina. Nel suo programma Kitchen, andato in onda dal 1998 al 2001, Pezzi invitava ogni settimana un ospite diverso e gli faceva cucinare il suo piatto preferito, mentre chiacchierava. Anche in questo caso il cibo era uno spunto per una conversazione più spontanea e meno ingessata.
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Un altro conduttore che usò talvolta il cibo come espediente televisivo fu Bruno Vespa, soprattutto nelle prime stagioni di Porta a Porta. In quello che diventò uno dei momenti più ricordati del programma fece preparare un risotto ai funghi a Massimo D’Alema. Anche in questo caso il cibo fu usato come elemento di rottura, e l’allora segretario del Partito Democratico della Sinistra lo sfruttò per tentare di mostrarsi più vicino al suo elettorato.
Questo perché mangiare è una cosa che accomuna tutti. E usarla anche solo come pretesto in televisione consente di agganciare un pubblico largo e vario, arrivando nei casi più riusciti a creare «una complicità tra conduttore, ospite e pubblico facendo sentire tutti allo stesso tavolo», conclude Barra.