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  • Martedì 8 aprile 2025

Come non si raccontano i femminicidi

Narrazioni e schemi che andrebbero evitati ancora persistono, come l'abitudine a parlare di “raptus”

Un'edicola di Milano (ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)
Un'edicola di Milano (ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)
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Oltre ai femminicidi di Ilaria Sula e Sara Campanella, negli ultimi giorni stanno ricevendo molta attenzione sui giornali italiani altre due storie che hanno a che fare con la violenza maschile contro le donne. Sono storie di donne sopravvissute a tale violenza e che hanno raccontato quel che è loro accaduto: Chiara Iuliano, assessora ai Servizi sociali e alle pari opportunità di Dolo, in provincia di Venezia, ha deciso di raccontare il tentativo di stupro subìto in pieno giorno da un uomo che aveva già denunciato per stalking; una donna di Pozzuoli ha raccontato di essere stata aggredita e picchiata per strada dall’uomo da cui si era separata, mostrando anche i propri lividi in un video.

Indipendentemente dai codici deontologici degli ordini professionali a cui appartengono, e accogliendo le indicazioni della Convenzione di Istanbul che cita il ruolo fondamentale dei media nel prevenire la violenza basata sul genere, associazioni e gruppi di giornaliste di vari paesi hanno prodotto nel tempo manuali, linee guida e raccomandazioni su come tale violenza andrebbe o non andrebbe raccontata, sottolineando tra le altre cose l’importanza di parlare anche di storie positive che mettano in evidenza la forza delle persone che sono sopravvissute.

In queste indicazioni sono contenuti anche i principali errori che i media e i giornali fanno quando affrontano questo tema, nonostante ci siano documenti della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) con principi sull’uso del linguaggio e sulla corretta informazione, adottati tra l’altro in Italia dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti.

Questi errori sono ancora ricorrenti e vengono compiuti nonostante, sempre in Italia, nel “Testo unico dei doveri del giornalista” sia stato inserito dal 2021 il “rispetto delle differenze di genere” che riguarda il comportamento da tenere nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale; nonostante esistano corsi di aggiornamento, si organizzino incontri, siano stati scritti sul tema moltissimi libri. Certe narrazioni, certe espressioni e certi schemi persistono, sostengono queste associazioni di giornaliste, tanto che è possibile farne un elenco: e consultando i vari documenti prodotti nel mondo, Italia compresa, tali elenchi sono molto simili tra loro.

Il punto di partenza di queste indicazioni è che la violenza maschile contro le donne è un fenomeno molto ampio, innanzitutto dal punto di vista numerico, e quindi le notizie che lo riguardano vanno trattate non solo come casi di cronaca ma come parte di un problema sociale e come conseguenza di un sistema di disuguaglianze e discriminazioni strutturali, così come indicano, tra le altre, la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne dell’ONU del 1993 («la violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne») e la Convenzione di Istanbul.

Inoltre, il fenomeno presenta delle costanti: non è una situazione emergenziale, poiché è sempre presente; non è un reato con un’incidenza in diminuzione, a differenza di altri; nella maggior parte dei casi avviene per mano di persone conosciute alla vittima e in luoghi privati più che per le strade, seguendo dinamiche ben precise.

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La parola femminicidio è arrivata sui media solo pochi anni fa. Uno studio pubblicato dal Mulino nel 2017 mostrava che il termine nel 2006 compariva in soli tre articoli su tutta la stampa italiana, nel 2011 in 51 e nel 2012 in 751. Nel 2013, l’anno dell’approvazione di una legge contro il femminicidio e del riconoscimento del termine da parte dall’Accademia della Crusca, la parola era presente in 4.986 articoli. Nelle cronache giornalistiche, alla quantità non è però corrisposta una più adeguata e realistica rappresentazione del fenomeno.

Spesso sui giornali il femminicidio e la violenza maschile contro le donne vengono associate all’amore o alla passione. Si leggono dunque titoli e articoli che parlano di “amore passionale”, di “amore malato” o di “amore criminale”. Sottintendere però una connessione tra il femminicidio e l’amore, e costruire una narrazione romantica intorno alla violenza maschile, significa in qualche modo assecondare l’idea che la violenza possa far parte di una relazione. Si usano poi parole o espressioni che fanno pensare a una “fatalità” o a una “tragedia” improvvisa, senza tenere conto del fatto che quello che è successo il più delle volte è un atto volontario e deliberato.

In molti casi il movente viene associato a una patologia: si nominano “follia” o “raptus”, si usano espressioni come “delirio omicida”, si parla esplicitamente di “perdita di controllo” da parte dell’aggressore, facendo pensare che i femminicidi siano il risultato di qualcosa di improvviso o legato a uno stato emotivo eccezionale, anche quando si raccontano storie in cui c’erano state denunce o gli episodi di violenza erano quotidiani e reiterati. Chi lavora nei centri antiviolenza spiega che il femminicidio è spesso una morte annunciata, l’ultimo atto di una lunga storia di abusi e violenze; la parola “raptus”, invece, suggerisce già che le circostanze siano incompatibili con la premeditazione, cosa falsa nella grandissima parte dei casi e che comunque andrà accertata nel processo.

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Tra i presunti moventi spesso citati dai media ci sono anche gelosia, un tradimento di lei o la separazione. In questo tipo di narrazioni, la vittima viene presentata come il soggetto che ha compiuto l’azione che ha innescato la violenza, e il femminicidio come la conseguenza di una sua scelta.

Uno dei moventi più diffusi dai media è la separazione, descritta come un evento traumatico voluto dalla donna contro il desiderio dell’uomo di tenere unita la famiglia. Raccontare la separazione come un trauma e non come scelta trasmette un giudizio negativo sia sulla separazione (teorizzando l’idea di una famiglia che debba stare unita a tutti i costi) sia su chi ha preso la decisione di modificare il rapporto. La libertà di scegliere diventa insomma dannosa, e chi la esercita diventa colui o colei che causa una sofferenza. Per quanto riguarda il tradimento di lei, il presupposto che costituisca una provocazione che giustifichi la reazione dell’offeso è stato cancellato dal codice penale italiano nel 1981.

Un’altra tendenza che prevale quando si raccontano i femminicidi è empatizzare con la persona indicata come responsabile della violenza, assumendo dunque il suo punto di vista. In alcuni celebri casi, anche emotivamente: per esempio quando il femminicida o lo stupratore sono stati definiti con dei vezzeggiativi (“fidanzatino”) o come dei “giganti buoni”.

La dinamica di spostare sulla vittima la responsabilità di quel che le è accaduto, in toto o in parte, si verifica anche nei casi di stupro: per esempio quando si raccontano i fatti sottintendendo che la donna non sia stata abbastanza attenta, o specificando come fosse vestita o quanto avesse bevuto. La circostanza che la donna non fosse eventualmente capace di intendere e di volere può essere quindi presentata non come un’aggravante del comportamento dell’aggressore, come prevede il codice penale, ma come un indizio di colpevolezza della vittima.

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Spesso i giornali riportano poi i pareri e i commenti di familiari, amici, vicini di casa della persona accusata, anche quando sono irrilevanti; in molti casi gli articoli sono accompagnati da foto incongruenti, che ritraggono per esempio una coppia felice o che implicano un giudizio morale sulla vittima.

Femminicida e vittima vengono poi definiti con i ruoli che già non avevano più: marito o compagno, per esempio, anche se lei lo aveva lasciato. Michela Murgia, che ha fatto un grande lavoro di divulgazione sul modo più corretto per raccontare la violenza maschile contro le donne, sosteneva in modo provocatorio che del fatto che lei fosse ancora “la sua donna” a volte ne sembrano convinti solo il femminicida e chi scrive gli articoli su quella storia.

Spesso i media non usano le parole corrette per descrivere le diverse forme di violenza, sminuendo quanto accaduto e non inquadrando i fatti come reati, così come sono definiti e puniti dal codice penale. Capita dunque, per fare un esempio, che lo stalking o le molestie vengano definite come “attenzioni”, o che lo stupro di una minore venga definito “sesso”. Infine, è raro che si usi quello spazio anche per segnalare i centri antiviolenza o i numeri di telefono da contattare in caso di emergenza.

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Se hai bisogno di aiuto o sostegno, qui c’è l’elenco di tutti i numeri telefonici dei centri antiviolenza della rete D.i.Re. È anche possibile chiamare il numero antiviolenza e stalking 1522, gratuito, attivo 24 ore su 24 con un’accoglienza disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. In entrambi i casi si riceveranno indicazioni da persone che hanno l’esperienza e la formazione più completa per occuparsi di questa questione. È anche possibile, di fronte a una situazione di emergenza, chiamare i carabinieri o la polizia al 112.