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  • Domenica 30 marzo 2025

Il Myanmar era devastato già prima del terremoto

Storia minima dell'ex colonia britannica, che dal colpo di stato del 2021 è di nuovo in mezzo a una violenta guerra civile

Soccorritori impegnati nelle macerie di un palazzo in Myanmar
Soccorritori impegnati nelle macerie di un palazzo in Myanmar (REUTERS/Stringer)
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Il terremoto di magnitudo 7.7 che da venerdì ha causato oltre 1.700 morti e più del doppio dei feriti in Myanmar è solo il più recente degli eventi devastanti per il paese del Sud-est asiatico. Dal colpo di stato militare del 2021 la giunta al governo lo ha reso un paese debole, diviso ed estremamente isolato dall’estero. Da allora nell’ex colonia britannica era già in corso una violenta guerra civile, che fra le altre cose ha provocato una grave crisi alimentare e messo in difficoltà enormi l’economia del paese.

Il Myanmar confina a ovest con India e Bangladesh e a est con Cina, Thailandia e Laos. Ha 51 milioni di abitanti ed è un’ex colonia britannica indipendente dal 1948. Nel periodo coloniale era chiamato “Union of Burma”, cioè Unione di Birmania, o Birmania: il nome “Union of Myanmar”, o Myanmar, fu introdotto nel 1989, in seguito al colpo di stato dell’anno precedente. Per anni l’utilizzo di un nome piuttosto che l’altro indicò in una certa misura l’orientamento politico: “Birmania” per sostenere l’identità democratica del paese, e “Myanmar” per legittimare la leadership militare. Oggi gli autoctoni usano entrambi i nomi, il primo perlopiù nel linguaggio di tutti i giorni e il secondo soprattutto nelle occasioni formali.

La sua città più popolosa è Yangon, che è l’antica capitale e si trova nel sud del territorio. La capitale attuale invece è Naypyidaw, nella parte centrale del paese, circa 250 chilometri a sud di Mandalay: la seconda più grande e quella più colpita dai danni del terremoto di venerdì.

Quello del 1988 era stato il secondo colpo di stato nel Myanmar, dove vivono decine di gruppi etnici, il più numeroso dei quali è quello dei birmani. Nel 1962 proprio le divisioni etniche e politiche avevano portato a un primo colpo di stato, quello con cui fu introdotta la dittatura militare che durò fino al 2011. Le elezioni del 1990, le prime libere in trent’anni, furono vinte dai partiti di opposizione, tra cui la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi: i militari tuttavia ignorarono il risultato del voto e lei fu messa agli arresti domiciliari senza processo per aver «messo in pericolo lo stato».

Proprio Aung San Suu Kyi è stata una delle figure più note e importanti a sostenere la fine della dittatura militare che aveva governato il Myanmar per quasi mezzo secolo.

Per il suo impegno politico trascorse 15 anni agli arresti domiciliari e nel 1991 vinse il premio Nobel per la Pace. Nel 2010, dopo essere stata liberata, diventò la leader dell’opposizione: con la vittoria alle elezioni del 2015, le prime davvero libere da quelle per cui era stata arrestata, fu proclamata leader di fatto del Myanmar. Popolarissima sia dentro che fuori, avviò i processi di democratizzazione nel paese, anche se il suo governo continuò a dipendere almeno in parte dal potere dei militari, e fu accusato di aver difeso la persecuzione della minoranza musulmana dei rohingya.

Ma nel 2021 Aung San Suu Kyi fu di nuovo arrestata, incriminata e condannata a 27 anni di carcere per accuse che molti ritengono motivate politicamente. Dal 2023 si trova agli arresti domiciliari, e anche il suo partito è stato sciolto.

Aung San Suu Kyi in una foto del dicembre 2019 (AP Photo/Peter Dejong)

La Lega nazionale per la democrazia (NLD), il partito di Aung San Suu Kyi, aveva infatti vinto le elezioni del novembre del 2020, sconfiggendo nettamente il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione (USDP), sostenuto dai militari. Il primo febbraio del 2021, nel giorno in cui il nuovo parlamento si sarebbe dovuto riunire per la prima volta, i poteri democratici furono rovesciati con un colpo di stato guidato dal generale Min Aung Hlaing.

L’esercito arrestò tutti i principali leader del partito di maggioranza, tra cui Aung San Suu Kyi; Min Aung Hlaing assunse il ruolo di capo del governo e l’ex generale Myint Swe, uno dei due vicepresidenti dal 2016, fu nominato presidente ad interim. La giunta militare che prese il potere dichiarò un anno di stato d’emergenza; tra le altre cose interruppe le linee telefoniche sia a Naypyidaw che a Yangon e sospese le trasmissioni della tv di stato.

Per mesi migliaia di persone protestarono pacificamente chiedendo la restaurazione del governo legittimo. L’esercito però rispose in maniera brutale, sparando sui manifestanti per strada e arrestando moltissime persone collegate all’opposizione. Nel giro di pochi mesi l’opposizione pacifica al regime si trasformò in resistenza armata, con gruppi di diverse minoranze etniche sparsi in tutto il paese e sempre più organizzati, tutti contrari alla dittatura militare, che cominciarono a scontrarsi contro l’esercito birmano, considerato uno dei meglio armati della regione.

Tra questi emersero le Forze di difesa del popolo (FDP), una milizia poi riconosciuta ufficialmente come braccio armato del governo di unità nazionale, un gruppo di deputati e politici birmani che rappresenta la vecchia amministrazione civile e coordina l’attività politica contro il regime. In questi anni le FDP hanno compiuto attacchi e imboscate contro l’esercito, che a sua volta ha risposto con attacchi ancora più violenti.

Anche le altre milizie hanno sviluppato tattiche di guerriglia in grado di infliggere perdite all’esercito birmano. A Yangon le sparatorie sono diventate relativamente frequenti e i miliziani hanno fatto esplodere diversi edifici legati all’esercito. La repressione dell’esercito è stata sempre molto dura: si stima che nel tentativo di contenere i ribelli siano stati uccisi circa 3mila civili e che gli scontri abbiano costretto almeno 3,5 milioni di persone a lasciare le proprie case.

Il comandante di una milizia di ribelli osserva i detriti di una base bombardata dall’esercito nello stato di Kayin, Myanmar, 12 aprile 2024 (AP Photo/Metro)

In questo contesto l’esercito birmano ha sospeso decine di migliaia di insegnanti che avevano protestato contro la dittatura e ha fatto approvare una legge che rende molto più difficile per eventuali nuovi partiti o candidati presentarsi alle elezioni. Tra le altre cose nel 2022 l’esercito ricominciò anche a eseguire condanne a morte di oppositori politici: non succedeva dal 1988, quando il Myanmar era ancora governato da un regime militare. Le elezioni di fine 2020 peraltro furono anche le ultime: la giunta ha sempre trovato una scusa per rimandarle.

La giunta ha anche reso il Myanmar un paese sempre più isolato, in cui la libertà di stampa è pochissima e reperire informazioni indipendenti è molto complicato, anche perché decine di migliaia di persone vivono senza elettricità e l’accesso a Internet è limitato. Oggi molte aree del Myanmar sono controllate da gruppi dissidenti, specialmente quelle rurali e remote, dove difficilmente i giornalisti possono entrare, mentre la giunta rimane in controllo delle grosse città. Dal colpo di stato del febbraio 2021 il Myanmar è un paese con pochissimi rapporti internazionali, motivo per cui la richiesta di aiuti stranieri per gestire l’emergenza legata al terremoto è stata piuttosto eccezionale.

Nonostante gli effetti devastanti del terremoto, l’esercito sta comunque bombardando i ribelli. Il governo di unità nazionale ha detto che domenica entrerà in vigore un cessate il fuoco unilaterale di due settimane: le FDP interromperanno l’offensiva nelle zone terremotate per facilitare gli aiuti, ma non le operazioni di difesa.

– Leggi anche: La giunta militare in Myanmar continua a bombardare i ribelli