Tutti e tre i partiti che governavano in Germania cambieranno i propri leader
Sono i Liberali, i Verdi e i Socialdemocratici, che sono andati male alle elezioni di domenica

I risultati delle elezioni in Germania, vinte dalla CDU di centrodestra con seconda l’estrema destra di Alternative für Deutschland (AfD), hanno già avuto conseguenze sui principali partiti. In particolare per i tre che le hanno perse, quelli che hanno espresso l’ultimo governo: i Verdi, i Socialdemocratici (SPD) del cancelliere uscente Olaf Scholz, e i Liberali (FDP) che avevano affossato la coalizione a novembre. Tutti e tre sono andati male: la SPD ha avuto il peggior risultato della sua storia, i Liberali sono rimasti fuori dal parlamento e anche i Verdi hanno ridotto sia i consensi sia i seggi. Per questo, con tempi e modi diversi, questi partiti cambieranno la loro leadership.
I Liberali non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento del 5 per cento e il loro leader Christian Lindner se n’è assunto la responsabilità. Ha annunciato le sue dimissioni e ha aggiunto che lascerà la politica. Lindner era leader dal 2013: alle elezioni di quell’anno, per la prima volta, il partito non aveva eletto deputati. Negli anni successivi Lindner era riuscito a riportare i Liberali sopra il 10 per cento dei consensi, ma già alle europee dello scorso giugno avevano faticato a superare il 5 per cento e la scelta di far cadere il governo di Scholz, di cui erano stati l’alleato più riottoso, non ha funzionato per ritrovarne.
Dopo neppure due giorni dal voto, nel partito è iniziata la successione a Lindner in vista di un congresso che probabilmente sarà a maggio. Diversi dirigenti ed esponenti legati a lui hanno detto che lasceranno i loro incarichi. «Ci devono essere tempo e spazio per nuove menti fresche», ha detto Marco Buschmann, il segretario generale dimissionario. Ci sono già almeno due candidati leader, sui quali ci sono già state divisioni e critiche: l’eurodeputata Marie-Agnes Strack-Zimmermann, dell’ala più moderata, e il vice di Lindner, Wolfgang Kubicki, dell’ala più conservatrice. La notte dopo le elezioni Kubicki aveva detto che avrebbe lasciato la politica, poi ha cambiato idea.
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Lindner ha detto che non interferirà col «processo di riorganizzazione dell’FDP». Non è ancora chiaro come funzionerà quella che i giornali tedeschi chiamano «l’amministrazione fallimentare» del partito, cioè che forma avrà la leadership temporanea fino al congresso, o se verrà chiesto a Lindner di restare fino ad allora (lui sembra non averne intenzione).

Le ombre di Christian Lindner e del segretario dei Liberali, Marco Buschmann, sul fondale della loro conferenza stampa, a Berlino il 24 febbraio (EPA/MARTIN DIVISEK)
I Verdi sono in una situazione simile. Lunedì il loro candidato cancelliere Robert Habeck, che era ministro dell’Economia nel governo di Scholz, ha annunciato di rinunciare ai suoi ruoli nel partito. Per ora Habeck non ha specificato se rimetterà anche il mandato da parlamentare oppure no, ma è una possibilità. È probabile che dopo di lui ritrovi centralità Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri uscente, che potrebbe diventare capogruppo al Bundestag (la camera). Baerbock era stata co-leader insieme ad Habeck e nel 2021 era stata la candidata cancelliera dei Verdi. L’ex leader Ricarda Lang è ritenuta un’altra possibile candidata.
La campagna elettorale dei Verdi era centrata sulla figura di Habeck, che ha risentito degli attacchi dei tabloid e delle strumentalizzazioni della destra sul suo operato da ministro. In particolare Habeck è associato all’impopolare legge che prescrive di installare nei nuovi edifici sistemi alternativi ai tradizionali impianti di riscaldamento a gas, che sono i più diffusi e inquinanti, e di sostituire in futuro quelli vecchi solo con pompe di calore.

Robert Habeck e Annalena Baerbock, il 24 febbraio a Berlino (Andreas Rentz/Getty Images)
Inoltre Habeck è stato criticato, anche dall’interno del partito, perché non ha mai escluso un’alleanza con la CDU di Friedrich Merz, nonostante a fine gennaio questa abbia votato per due volte insieme ad AfD in parlamento. Secondo Habeck restare al governo sarebbe servito a difendere le riforme ecologiste e farne altre, ma è stato un posizionamento poco comprensibile per le elettrici e gli elettori più progressisti dei Verdi.
Tra l’altro accordarsi con la CDU, un partito più conservatore e a destra di quanto fu ai tempi di Angela Merkel, avrebbe richiesto compromessi non facili da spiegare alla base dei Verdi. In ogni caso Merz ha detto che proverà a formare una coalizione senza di loro, bensì con la SPD, entro la metà di aprile. Insieme SPD e CDU avrebbero infatti la maggioranza, con 328 sui 630 seggi del Bundestag. Sul rinnovo della leadership dei Socialdemocratici influiranno proprio i tempi della formazione del governo: Scholz, che si è assunto anche lui la responsabilità del risultato disastroso alle elezioni, ha chiarito che non parteciperà ai negoziati.
Nonostante l’impegno di Scholz, e un approccio diverso e per certi versi più grintoso, nella SPD c’erano dubbi sul cancelliere. Lo scorso autunno un pezzo considerevole del suo partito aveva fatto pressioni affinché non si ricandidasse e sperava invece lo facesse il ministro della Difesa, Boris Pistorius, più apprezzato di lui. Pistorius però si era tirato indietro, principalmente per ragioni di disciplina di partito: Scholz ci teneva e la SPD non voleva mostrarsi divisa e sconfessare il suo cancelliere a pochi mesi dalle elezioni anticipate. In questi giorni Pistorius ha fatto dichiarazioni pubbliche sulle condizioni a cui i Socialdemocratici accetterebbero un’alleanza con la CDU.
In particolare Pistorius ha chiesto un’esenzione delle spese militari dal cosiddetto “freno al debito”, un vincolo di sostanziale pareggio di bilancio della Costituzione che, tranne per rare eccezioni, impedisce allo stato di spendere più di quello che incassa con le tasse, e di avere un deficit (cioè un maggiore indebitamento) annuale superiore allo 0,35 per cento del PIL. Merz si è detto favorevole, ma per una riforma costituzionale serve una maggioranza di due terzi dei voti al Bundestag per cui servirebbe il sostegno di altri partiti (un’ipotesi è provarci prima dell’insediamento del nuovo parlamento, a fine marzo).

La conferenza stampa di Lars Klingbeil, Olaf Scholz e Saskia Esken dopo le elezioni, il 24 febbraio a Berlino (Andreas Rentz/Getty Images)
Sul ricambio della leadership della SPD, come detto, influiranno i tempi dell’eventuale formazione del governo, e la sua composizione. Un accordo verrebbe poi sottoposto ai membri del partito e la priorità dei Socialdemocratici è concentrarsi sulle trattative. Con Scholz defilato, ha preso un ruolo più visibile Lars Klingbeil, uno dei co-leader, che sta provando a intestarsi la riorganizzazione del partito e ha detto che l’obiettivo dovrebbe essere ritrovare consensi nel tradizionale bacino di voti, la classe lavoratrice, e tra i giovani: due categorie in cui invece è andata forte la Linke, sempre a sinistra. Klingbeil è comunque visto da molti come vicino alla gestione fallimentare di Scholz, ed è presto per capire se potrà essere lui il nuovo leader.
Infine tra i partiti che devono capire cosa fare c’è anche l’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW), che mischia proposte di estrema destra e sinistra radicale ed è rimasta fuori dal parlamento di pochissimo (lo 0,03 per cento, circa 13mila voti). In passato Wagenknecht, ex esponente della Linke, aveva lasciato intendere che si sarebbe fatta da parte qualora BSW non avesse superato lo sbarramento. Lunedì Wagenknecht ha incolpato del risultato i media e gli istituti di sondaggi che – ha sostenuto senza dare prove – avrebbero penalizzato il suo partito.
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