La fine delle Vele di Scampia
Dopo decenni di fallimenti e degrado, e dopo il crollo dello scorso luglio, da qualche settimana non ci abita più nessuno
di Francesco Gaeta

Dall’inizio di gennaio nel complesso di condomini delle “Vele” di Scampia, alla periferia nord di Napoli, non abita più nessuno ed è rimasto soltanto un gran silenzio. Le ultime famiglie che ci vivevano, per un totale di circa 2mila persone, si sono spostate in quella che in comune definiscono «una diaspora volontaria, assistita dalle istituzioni». Oggi sono sparse nell’hinterland intorno: a Melito, Mugnano, Villa Literno, Acerra. Sistemazioni temporanee, possibili grazie a un contributo economico pubblico. È un esodo che è diventato urgente dopo il crollo di un ballatoio della Vela celeste il 22 luglio, avvenuto per usura della struttura: ha causato la morte di tre persone e il ferimento di altre 13. Quel giorno è finita una storia lunga 45 anni, e si è dato il via libera alla demolizione.
Quattro delle sette Vele costruite tra il 1972 e il 1980 come esempi avveniristici di edilizia popolare residenziale erano state già distrutte negli anni scorsi a causa del loro degrado strutturale, aggravato dall’assenza di qualsiasi tipo di manutenzione. La prima era stata demolita addirittura nel 1997, a pochi anni dalla costruzione. Le tre che rimangono – la gialla, la rossa e la celeste: dai colori che tingono le terrazze – sono armature di cemento senza più vetri e con molte scritte sui muri, i messaggi lasciati da chi è andato via. «Non siamo noi il problema», dice una un po’ più grande delle altre. Nel cantiere gruppi di operai stanno recintando pezzi di terreno su cui depositare le tonnellate di detriti e mobilio da smaltire nella fase di strip out, cioè dello “svestimento” delle costruzioni. Dopo la bonifica arriverà la gru della demolizione. Resterà in piedi solo un pezzo della Vela celeste, che ospiterà alcuni uffici pubblici.

Il cantiere delle Vele: la piattaforma per accogliere mobilio e detriti da differenziare e smaltire (il Post)
Difetti tecnici
Per capire perché vivere dentro le Vele fosse difficile o addirittura pericoloso, al punto di doverle abbattere, bisogna entrarci. Ogni Vela è un grande triangolo di cemento alto 45 metri e lungo 100, che ne fronteggia un altro a una distanza di 8,20 metri. Tra i due triangoli, tre file di ballatoi in cemento corrono per tutta la lunghezza della base, ad altezze diverse. Vi si aggancia trasversalmente una serie di scale che conducono agli ingressi degli appartamenti, allineati l’uno accanto all’altro, come le cabine di uno stabilimento balneare. Il fossato centrale, come i tecnici chiamano il cortile al piano terra tra i due triangoli, è ingombro di ogni tipo di rifiuti, comprese alcune carcasse di automobili. A guardare dal fossato verso la cima dei 14 piani si fatica a vedere il cielo: appare un labirinto di scale e ballatoi che toglie la luce, e in compenso lascia spazio a un vento gelido, che in una mattina fredda di gennaio si incanala da una parte all’altra.
Non era questo che aveva in mente Francesco Di Salvo, l’architetto che progettò le Vele nel 1962 con l’intento dichiarato di ricreare distanze e volumi che riproducessero quelli del vicolo napoletano, e aggiornassero quel concetto in chiave contemporanea. La distanza tra i due corpi triangolari avrebbe dovuto essere di 12,80 metri, l’altezza massima fermarsi a 36 metri e i camminamenti interni avrebbero dovuto essere in metallo, per far passare più luce. In fase di esecuzione, si pensò invece di aumentare altezze, volumetrie e numeri degli alloggi e anche per questo si scelse di fare i collegamenti in cemento per maggiore sicurezza.
Vivere alle Vele ha significato in effetti «vedere e farsi vedere da tutti come in un vicolo», racconta Salvatore Martelli, 45 anni, che qui è nato e ha vissuto fino ai 12 anni. Ma anche fare i conti con il buio e l’umidità. «Sul lato del fossato si aprivano le cucine e noi accendevamo la luce alle 10 del mattino, anche in estate». Entrando in una delle case si capisce invece cosa deve avere significato vivere qui in inverno. «Le pareti degli appartamenti erano prefabbricate, prive di vera coibentazione e non contrastavano il freddo», spiega Antonio Memoli, l’architetto che ha affiancato il comitato di abitanti delle Vele in questi anni. «Nel tempo l’umidità le ha riempite di muffa», dice mentre mostra le macchie sul muro di uno degli alloggi, dal quale chi è andato via ha portato con sé i sanitari ma ha lasciato un servizio di bicchieri ben in ordine su un tavolino. In queste pareti c’è anche amianto, pericolo che all’epoca, come un po’ dappertutto in Italia, non si prese in considerazione.

Uno dei ballatoi della Vela rossa, da cui partono le scale che immettono negli appartamenti (il Post)
Ogni appartamento ha una struttura a moduli costituiti da pannelli larghi 1,20 metri, replicabili per creare pareti fino a 7,20 metri e stanze di superficie variabile, secondo uno schema che però non era modificabile per assecondare le esigenze di chi le abitava: il metodo di costruzione scelto fu infatti quello a “setti di cemento armato”. Qui cioè non ci sono travi e pilastri che permettono di adattare le pareti, ma pareti portanti che reggono tutto il resto e dunque non si possono modificare senza mettere a rischio la stabilità.
Ci furono altre omissioni in fase di esecuzione. Scendendo per le scale esterne, dal lato opposto al fossato, si attraversano enormi pianerottoli esposti alla pioggia e al vento: ogni sei piani erano previsti “spazi di socialità” non meglio precisati, che non sono stati realizzati. In quasi tutte le Vele poi gli ascensori non sono entrati in funzione, così su molti balconi ci si è dotati di montacarichi privati per trasportare dal basso quello che serviva. Tra le altre modifiche spontanee ci furono quelle relative agli scantinati, che dovevano essere adibiti a deposito delle attrezzature per la manutenzione e invece furono recintati e murati per farne altri alloggi. Nacque così una nuova categoria di abitanti abusivi: li chiamavano scantinatisti.
Nelle Vele, destinate ad accogliere circa 6mila inquilini, in certi momenti hanno vissuto anche 9mila persone. E il ricambio tra chi entrava con una regolare assegnazione e chi ne prendeva il posto abusivamente fu da subito elevato. Chi aveva titolo a farlo ed era nelle graduatorie comunali si spostò prima possibile in altri alloggi popolari, per stare un po’ meglio. Così, fin dai primi anni ’90 altre case di edilizia residenziale pubblica delle vie adiacenti accolsero precocemente i primi reduci delle Vele.

Le scale esterne della Vela rossa: al cantiere oggi accedono solo i tecnici del comune incaricati della demolizione (il Post)
Avere casa a Napoli
La storia di questi edifici non è soltanto il fallimento di un’utopia architettonica così ingenua da risultare naif, cioè quella di ricreare in una periferia senza storia l’atmosfera del basso napoletano dei quartieri del centro storico. La storia delle Vele è un pezzo simbolico e rappresentativo di un più ampio problema sociale collettivo, che riguarda la questione della casa a Napoli.
Trovare un’abitazione è da sempre un problema, e nel tempo la situazione si è aggravata, come in molti altri posti. Secondo i dati del comune, negli ultimi cinque anni i canoni di locazione sono aumentati in media del 38 per cento. Secondo il sito idealista.it una casa di 100 metri quadri costa oggi un affitto medio di 1.600 euro al mese, cifra che ovviamente cambia a seconda delle zone. Per chi non può sostenere una spesa simile, l’alternativa sono gli alloggi di edilizia popolare, che hanno canoni molto più bassi e che a Napoli sono oltre 43.500, di cui quasi 17mila di proprietà di Acer (Agenzia campana edilizia residenziale), l’ente della Regione che si occupa della casa in Campania, e oltre 25.100 di proprietà del comune. Vi si accede attraverso bandi periodici e graduatorie che assegnano punteggi in base all’Isee, un metodo che calcola la ricchezza complessiva di una famiglia in base al reddito, al patrimonio, alla composizione del nucleo e alla presenza di persone fragili. Nell’ultima graduatoria del 2022 sono state presentate oltre 22mila domande e ne sono state accolte circa 8.700.
Oltre allo squilibrio tra richiesta e offerta, a Napoli gli alloggi popolari hanno due problemi, connessi tra loro: la manutenzione e la morosità. Secondo il presidente della Regione Vincenzo De Luca «in Campania c’è un 30 per cento di occupanti che non pagano. I furbi devono pagare, poco, ma devono pagare, perché le risorse incamerate servono per fare le manutenzioni».
Scampia e le Vele sono nate per dare case a prezzi abbordabili a chi ne aveva persa una durante la Seconda guerra mondiale o per il terremoto del 1980. A Scampia gli alloggi di edilizia residenziale pubblica sono oltre 2.200, quasi il 9 per cento degli alloggi totali di proprietà del comune in città.
«Il quartiere nacque negli anni ’50», racconta Nicola Nardella, presidente dell’ottavo municipio che ha competenza su Scampia. «I primi palazzi dell’Ina-Casa, come si chiamava l’ente che li costruiva al tempo, erano bassi, con pochi abitanti, e dunque vivibili. Poi le cose sono cambiate». Nel 1962 arrivò la legge 167, che consentiva ai comuni di espropriare terreni privati e costruire edifici pubblici. Nel quartiere i palazzi aumentarono in altezza, i metri cubi si moltiplicarono senza che nel frattempo arrivassero negozi, scuole, palestre, verde pubblico. «Nel periodo tra gli anni ’60 e ’70 la parola chiave era volumi», spiega Pasquale Belfiore, architetto e assessore all’edilizia al comune di Napoli tra il 2009 e il 2011. «L’ossessione per la grande dimensione caratterizza altri quartieri di edilizia popolare costruiti nello stesso periodo: lo Zen a Palermo, Corviale a Roma, il Rozzol Melara a Trieste. Secondo me, però, non è esatto dire che per le Vele si è andati al risparmio, al contrario: la Cassa del Mezzogiorno che finanziò l’opera voleva farne qualcosa di altamente simbolico».
Secondo Belfiore, le Vele sono state semmai un errore di progettazione sociale. «Malgrado nel team di progetto ci fossero anche sociologi e urbanisti, non ci si è curati di quel che noi tecnici chiamiamo “mixité”, cioè la necessità di mescolare in un quartiere attività diverse e abitanti di differenti fasce di reddito. Il risultato fu di realizzare un ghetto».
Negli anni ’70 e ’80 Scampia crebbe a ritmi eccezionali. Una lunga sequenza di Le occasioni di Rosa, film del 1981 di Salvatore Piscicelli, mostra la protagonista camminare lungo le Vele per circa un minuto e questa passeggiata dà l’idea di ciò che era già diventata all’epoca Scampia: una lunga fila di palazzoni.
«Dalle nostre finestre vedevamo accendersi da una notte all’altra le luci di intere rampe di scale e capivamo che erano arrivati altri inquilini», racconta Mirella La Magna, un’insegnante di lettere che dal Vomero si trasferì a Scampia nel 1972 e qualche anno dopo ha fondato il Gridas, una delle più antiche e attive associazioni culturali del quartiere. «A volte le case venivano occupate da chi non era in graduatoria e non ne aveva diritto, magari prima ancora che funzionassero le fogne o fossero ultimate le parti comuni del condominio». Si scatenava così una “guerra” tra poveri, tra assegnatari e abusivi. «Si è generata diffidenza, è aumentato l’individualismo. La gente si rinserrava in casa più che cercare forme comuni di lotta per un diritto negato. Anzi qualcuno smise di pensare che fosse un diritto: alcune persone che conoscevo comprarono un regalo all’assessore dell’epoca, come se la casa avuta fosse un favore».
La camorra
Il terremoto del 1980 fu un’altra svolta. La camorra si impadronì della ricostruzione in Campania e ne trasse la forza economica per diventare un’organizzazione che competeva con i clan siciliani e calabresi nel traffico degli stupefacenti. Negli anni ’90 Scampia divenne la piazza di spaccio più importante d’Europa, e poi ospitò una faida di camorra iniziata nel 2000 e durata circa quindici anni. Le strade ampie e aperte che girano intorno alle Vele, e che ricordano certa urbanistica monumentale e spoglia dell’era sovietica, erano perfette per controllare e seguire chi arrivava da fuori in auto. Il quartiere era isolato, l’unico collegamento era un autobus (l’R5, dalla stazione Centrale a Scampia) perché la metropolitana arrivò solo nel 1997. Era insomma un “luogo di nessuno”, fuori dal raggio di attenzione di istituzioni e forze di polizia.
Interi palazzi, e tra questi le Vele, entrarono nel controllo dei clan che gestivano gli accessi e sorvegliavano le presenze. Chi ha vissuto a Scampia in quegli anni ricorda come la droga si smerciasse a cielo aperto, in piazza e dentro i condomini. «I portoni furono sostituiti da cancelli di ferro, con feritoie da cui si passavano le dosi. Le chiavi erano gestite dalla camorra», racconta Vincenzo Paradisone, che oggi guida la Consulta delle associazioni, un organismo consultivo dell’ottavo municipio che raggruppa una quarantina di organizzazioni del quartiere. «In molti palazzi gli inquilini dovevano chiedere al pusher il permesso di entrare. Eravamo orfani dello stato e ostaggio dei boss. Oggi la camorra è meno forte, o almeno non uccide per strada come un tempo. Polizia e magistrati hanno fatto un buon lavoro e la gente non è più rassegnata e succube».

(il Post)
A un certo punto su tutto questo crebbe l’attenzione. Lo spaccio, i morti, l’azione dei clan di Scampia furono raccontati da Gomorra, il libro di Roberto Saviano del 2006, e dal relativo film di Matteo Garrone del 2008. Nel 2014 Gomorra diventò una serie televisiva, alcune delle scene vennero girate qui e la silhouette delle Vele divenne nota al resto d’Italia. Su una delle pareti esterne delle Vele qualcuno ha scritto: «No al turismo dell’orrore». Vivere dentro questi palazzi divenne per qualcuno un orgoglio da esibire sui social ma «per quasi tutti gli altri uno stigma, un marchio sociale», racconta don Alessandro Gargiulo, che dal 2006 è parroco della chiesa del Buon Rimedio, vicina alle Vele. Due anni fa Gargiulo ha avviato una web radio, Radio iBR, e ha registrato la testata giornalistica per farne un organo di informazione. Con una redazione di una quindicina di persone vuole «dare il microfono agli abitanti perché raccontino se stessi e il quartiere in modo diverso».
Oggi
Ancora oggi camminando per Scampia si vedono pochi negozi e solo un paio di bar. Non c’è un cinema, ma dal 2014 esiste un teatro, il Tan (Teatri associati di Napoli) che ospita attori e registi che arrivano da fuori. C’è una villa comunale, come sono chiamati molti giardini pubblici nelle città del Sud, che oggi si chiama Parco Ciro Esposito ed è per estensione il terzo spazio verde di Napoli: è proprio davanti alle Vele ma è separato dalla strada da una quinta rialzata che lo nasconde alla vista. Da tre anni esiste anche una sede dell’università Federico II, con un corso in professioni sanitarie, ma le persone iscritte sono ancora poche decine.
A Scampia ci sono soprattutto 144 associazioni non profit. Nella notte del 22 luglio 2024, quella del crollo nella Vela celeste, molte hanno dato assistenza agli sfollati che avevano occupato la sede dell’università. «Abbiamo dato pasti e vestiti. E organizzato gite al mare per i ragazzi e campi estivi», ricorda Maria Vanacore dell’associazione Senza Confini. Nel racconto di chi li ha vissuti, quei giorni sembrano un trauma nella storia del quartiere, uno shock che si sente ancora vicino e potente, ma che ha anche spinto a una risposta ampia e collettiva.
Da allora e fino ai primi di gennaio sono uscite dalle Vele le ultime 408 famiglie, circa 2mila persone, nessuna delle quali secondo il comune aveva titolo per essere assegnataria di un alloggio popolare. «Oggi vivono nei paesi circostanti, per il 60 per cento in una nuova casa e per il 40 per cento presso parenti», dice Nicola Nardella. «Di ogni nucleo conosciamo collocazione e composizione. A seguirli sono 20 assistenti sociali. Per permettere ai bambini di continuare a frequentare le scuole a Scampia abbiamo avviato un servizio di navetta».

Lo sgombero della Vela rossa di Scampia, 2 gennaio 2025 (ANSA/CESARE ABBATE)
Questa soluzione è provvisoria ed è stata l’esito di una commissione tecnica del comune e del comitato degli abitanti delle Vele, un coordinamento nato negli anni ’80 per affermare il diritto a una casa dignitosa. Per ogni famiglia si è arrivati a decidere un «contributo di autonoma sistemazione», cioè un assegno mensile che coprirà i costi dell’affitto per i prossimi tre anni, e che oscilla tra i 400 e i 1.100 euro a seconda della composizione del nucleo familiare.
La scelta ha fatto discutere a Scampia, perché non tutti sono convinti che dare soldi invece che case fosse la cosa da fare. Secondo Ciro Corona, di (R)esistenza anticamorra, coordinamento di 10 associazioni e imprese sociali, «sarebbe stato più produttivo fare accordi con i comuni limitrofi sulle case in B&B, o utilizzare appartamenti confiscati alla camorra». (R)esistenza anticamorra ha la sede proprio di fronte alle Vele, in via Ghisleri, in un ex istituto tecnico che dopo anni è stato ristrutturato. Ospita una pizzeria sociale, un doposcuola popolare, due palestre, una casa-famiglia e al secondo piano anche cinque delle famiglie uscite a luglio dalle Vele. «Chiediamo che in futuro le organizzazioni del terzo settore vengano maggiormente coinvolte nelle scelte del territorio, comprese quelle che riguardano la ricollocazione definitiva di queste persone».
Secondo il comune non c’era alternativa alla scelta del contributo di autonoma sistemazione. «Il crollo ha creato una situazione di emergenza e ha cambiato i piani originari che erano quelli di spostare queste persone in altri appartamenti con gradualità», spiega la vicesindaca di Napoli Laura Lieto, che ha la delega all’Urbanistica. «Al momento del crollo non avevamo una riserva di appartamenti di proprietà pubblica da mettere rapidamente a disposizione. Non si poteva che scegliere la via del contributo. In questi primi mesi è costato circa 1,5 milioni, ne spenderemo in totale 8».
Per dare poi una sistemazione definitiva a queste persone il comune ha mandato avanti più speditamente il progetto “Restart Scampia”, che risale al 2017 e fu firmato dall’allora sindaco Luigi de Magistris. Prevede la costruzione di 433 nuovi alloggi, sempre a Scampia. Si tratta di uno dei cosiddetti “programmi urbanistici particolari”, che secondo la normativa regionale consentono di individuare una specifica comunità come destinataria di un intervento residenziale. Dice Lieto: «Abbiamo censito gli abitanti delle Vele nel 2023 e consegneremo i primi 160 alloggi entro il 2026. Spenderemo in totale 159 milioni». Secondo Lieto, questa storia non riguarda solo questa periferia. «L’emergenza abitativa oggi è senza precedenti in tutta Italia e tocca non solo i ceti più poveri e vulnerabili. Nessuno ne è al riparo. Quella delle Vele è però una vicenda particolare perché è quella di una comunità che è legata in maniera feroce all’idea di un ritorno a casa, e a una casa dignitosa».