In Siria lo Stato Islamico vorrebbe sfruttare la fine del regime di Assad
Il gruppo sta provando a lasciare il deserto per compiere attentati nelle grandi città come Damasco e Aleppo, ma finora gli è andata male

Sabato 11 gennaio i servizi di sicurezza siriani hanno dichiarato di avere sventato un attentato dello Stato Islamico contro il santuario sciita di Sayyida Zeinab, a Damasco. Hanno anche mostrato le fotografie di quattro persone arrestate – che componevano la cellula dello Stato Islamico che avrebbe dovuto compiere l’attentato – e di una grande quantità di esplosivo e granate. I servizi di sicurezza siriani non sono più quelli del dittatore Bashar al Assad, ma sono gestiti dal nuovo governo guidato dall’ex comandante jihadista Ahmad al Sharaa (che fino a novembre si faceva chiamare Abu Mohammed al Jolani).
Durante il regime Assad, la presenza dello Stato Islamico era limitata ad alcune aree nel centro e nell’est del paese grazie a una campagna militare combattuta quasi per intero dalle forze curde, sostenute da una massiccia campagna di bombardamenti occidentali. Sono regioni aride e senza centri abitati che il gruppo terroristico sfrutta per nascondersi, riorganizzarsi e preparare, nei suoi piani ambiziosi, il ritorno allo stesso livello di potenza militare che aveva dieci anni fa. Da quelle parti la città più conosciuta è la piccola Palmira, detta anche Tadmor, nota tra l’altro per le rovine risalenti ai tempi dell’Impero romano.
«Presenza limitata» non vuol dire che le zone dell’ovest della Siria fossero a tenuta stagna e non ci fossero mai infiltrazioni e attentati, ma comunque la maggior parte delle operazioni dello Stato Islamico in Siria avveniva nel centro e nell’est del paese. In quelle regioni il gruppo estremista attaccava i soldati di Assad e le forze curde (assadisti e curdi erano le due forze militari che si spartivano il territorio), esigeva un pedaggio dai camion che viaggiano sulle strade che attraversano il deserto siriano e addestrava i suoi combattenti in alcune basi temporanee.

Uno dei quattro uomini dell’ISIS arrestati per aver tentato di compiere un attentato nel santuario sciita di Sayyida Zeinab, a Damasco, l’11 gennaio 2025 (Syrian State TV via AP)
In seguito alla fine del regime di Assad, avvenuta in modo rapido e inaspettato lo scorso dicembre, si teme che centinaia di combattenti dello Stato Islamico organizzati in piccole squadre provino a sfruttare la relativa mancanza di controlli nel paese per spostarsi verso le grandi città nella fascia occidentale, come Damasco, Homs e Aleppo. Non per assaltarle, ma per infiltrarsi, occupare appartamenti, creare una rete clandestina e cominciare una campagna di attentati che destabilizzerebbe il paese.
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Che ci sia questa preoccupazione si capisce anche dal fatto che gli Stati Uniti continuano a bombardare le basi dello Stato Islamico nel deserto siriano, per impedire ai terroristi di organizzarsi e di spostarsi verso ovest. A essere precisi, gli Stati Uniti avevano già cominciato a fare raid aerei contro i campi dello Stato Islamico prima della fine di Assad, perché avevano intuito che il regime non era in grado di contenere la minaccia.
L’11 e il 28 ottobre i bombardieri statunitensi avevano colpito alcune basi siriane dello Stato Islamico, ma la notizia era passata quasi inosservata entrambe le volte. Poi il senso di urgenza è aumentato: il 9 dicembre, il giorno dopo la fine del regime e la fuga di Assad in Russia, gli statunitensi hanno colpito settantacinque bersagli dello Stato Islamico nella Siria centrale. Hanno bombardato di nuovo il 16 dicembre e nella prima settimana di gennaio.
Questi bombardamenti non servono interessi precisi degli Stati Uniti a breve termine, ma consistono in quello che gli esperti chiamano «tagliare l’erba»: colpire le basi dello Stato Islamico sapendo che prima o poi ci saranno altre basi dello Stato Islamico, per evitare che il gruppo terroristico diventi di nuovo una minaccia imminente.
Per adesso non ci sono immagini dei bombardamenti statunitensi contro lo Stato Islamico in Siria, perché andare a fare video e foto in quelle aree del deserto occupate da estremisti è pericoloso.

Dei volontari disegnano un murale con i simboli della pace a Damasco, il 12 gennaio 2025 (AP Photo/Mosa’ab Elshamy)
Tra gli effetti della fine del regime di Assad c’è stata l’interruzione temporanea dei controlli sulle strade: a dicembre si poteva per esempio andare da Aleppo a Latakia, sulla costa, passando per Idlib. È un viaggio che prima sarebbe stato impossibile perché sarebbe stato necessario passare per decine di posti di blocco, sia dei soldati di Assad sia dei ribelli anti Assad. Invece per qualche settimana la circolazione è stata libera. Questa facilità nei movimenti è un vantaggio ovvio per le squadre di terroristi che vogliono andare da una regione all’altra. Adesso qualche posto di blocco sulla strada è tornato, ma prima fare lo stesso viaggio sarebbe stato impensabile.
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Un altro fattore che aiuta gli uomini dello Stato Islamico in Siria è la facilità nel procurarsi armi. Quando il Post ha chiesto a un siriano che ha passato gli ultimi dieci anni tra Idlib e Damasco quanto costa un fucile d’assalto kalashnikov, il più comune, lui ha risposto che non lo sapeva perché era una domanda strana: «Perché mai dovrei comprarlo, ne abbiamo già tutti uno». In un negozio di armi di Idlib un kalashnikov in buone condizioni costa 250 euro, ma ce ne sono alcuni che costano la metà, e un proiettile costa un euro.
Fino al 2013 al Sharaa faceva parte dello Stato Islamico, ma ora il gruppo lo detesta così come detestava Assad. Non pensa sia un possibile alleato o che sia più vicino a loro dal punto di vista ideologico, anzi il contrario. Lo considera un rinnegato, quindi più odioso di tutti gli altri nemici. Nella propaganda lo chiama «la iena» oppure «adeem sharaa», una storpiatura del suo nome che in arabo vuol dire «senza legittimità».
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Se lo Stato Islamico fosse riuscito a compiere un attentato contro la moschea di Sayyida Zeinab sarebbe stato un fatto grave. Il santuario è un luogo molto caro agli sciiti anche al di fuori della Siria e l’attacco sarebbe stato considerato una provocazione. Lo Stato Islamico, che è un gruppo estremista sunnita, pianifica in modo ossessivo possibili provocazioni contro gli sciiti, che non considera veri musulmani.
In generale vorrebbe una grande guerra civile tra sunniti e sciiti, perché pensa che i sunniti finirebbero per pensare al gruppo terrorista come a un alleato da aiutare. Nel 2006 lo Stato Islamico fece saltare in aria la celebre cupola dorata della moschea Imam Hussein di Karbala, in Iraq, e nei mesi successivi, come ci si poteva aspettare, ci furono molte ritorsioni da parte delle milizie sciite contro i civili sunniti.
Nel gennaio e nel febbraio del 2016, quando Bashar al Assad era al potere, lo Stato Islamico riuscì a compiere attentati vicino alla moschea di Sayyida Zeinab a Damasco per due volte e a uccidere, in totale, più di 120 persone.