L’entusiasmo per le intelligenze artificiali si sta un po’ stemperando

Dopo mesi di enormi attenzioni e investimenti le aziende più piccole sono in crisi, e tra chi mette i soldi comincia a diffondersi una certa prudenza

Immagine realizzata con un sistema di intelligenza artificiale (DALL•E 3)
Immagine realizzata con un sistema di intelligenza artificiale (DALL•E 3)

Lo scorso marzo due delle startup più discusse del settore delle intelligenze artificiali generative, Inflection AI e Stability AI, hanno subito pesanti defezioni. Nel primo caso, l’amministratore delegato di Inflection AI Mustafa Suleyman ha lasciato l’azienda per guidare la divisione che raggruppa tutti i progetti di intelligenze artificiali di Microsoft. La notizia ha fatto scalpore per almeno due motivi: Suleyman è uno degli imprenditori più noti del settore, è stato il co-fondatore di DeepMind, azienda britannica di AI acquisita da Google nel 2014, e nel 2022 ha fondato Inflection AI, che lo scorso giugno aveva ricevuto 1,3 miliardi di dollari in investimenti, raggiungendo una valutazione di 4 miliardi. Lo stesso Suleyman sembrava avere grandi ambizioni per la società: a ottobre aveva dichiarato di voler «creare un business da 100 miliardi di dollari». Il mese scorso, invece, ha ammesso con Bloomberg che l’azienda non è riuscita a trovare un modello di business sostenibile.

A pochi giorni di distanza anche Emad Mostaque, amministratore delegato di Stability AI, ha lasciato il suo incarico, ultima di una lunga serie di dimissioni di prestigio che hanno interessato la startup, che dal 2022 è tra le più note nel settore. Stability AI, infatti, è sviluppatrice di Stable Diffusion, un modello linguistico in grado di generare immagini a partire da descrizioni testuali (dette prompt) e tra i servizi che sono stati al centro dell’espansione delle AI degli ultimi anni, assieme a ChatGPT e DALL-E.

Queste dimissioni sono avvenute in un periodo in cui il settore delle AI sembra attraversare una fase di transizione: dopo circa due anni di crescita continua ed enormi investimenti, nelle ultime settimane sono arrivati segnali di tipo diverso, non proprio di crisi ma di generale ripensamento. A febbraio il Wall Street Journal ha raccontato come alcuni “early adopter” – aziende che per prime avevano investito nelle intelligenze artificiali generative – stiano faticando a trovare applicazioni abbastanza utili da giustificare la spesa.

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In questi mesi Microsoft ha promosso molto Copilot, un assistente digitale che aiuta i lavoratori, a un prezzo di 30 dollari al mese per utente, a usare i programmi della suite Microsoft 365, come Word, Excel e PowerPoint. Il Wall Street Journal ha sottolineato il successo di alcune applicazioni di Copilot (tra tutte la più apprezzata è quella che permette di trascrivere e riassumere quanto viene detto nelle videochiamate e nelle mail), ma ha anche registrato alcune critiche che riguardano soprattutto la scarsa affidabilità delle AI nel generare slide per presentazioni o altri tipi di documenti.

Questi problemi sono dovuti alle cosiddette «allucinazioni», degli errori fattuali in cui il sistema produce risultati che non hanno legami con la realtà. Alla base di quelle che chiamiamo intelligenze artificiali generative, infatti, ci sono dei modelli linguistici di grandi dimensioni, ovvero algoritmi molto sofisticati che fanno calcoli probabilistici per generare l’output ritenuto più corretto, il risultato che compare all’utente. Non sempre questi calcoli danno il risultato giusto, però: all’interno di un’agenzia pubblicitaria, ad esempio, è successo che il riassunto di una videoriunione preparato da Copilot riferisse che tale Bob aveva parlato di «strategia del prodotto», anche se alla riunione non se ne era discusso e tra i partecipanti non c’era nessuno chiamato Bob.

L’accumularsi di queste testimonianze alimenta il sospetto diffuso tra alcuni analisti che le AI siano strumenti notevoli e potenzialmente utili ma che le aziende del settore ne stiano esagerando le capacità odierne, soprattutto per ottenere investimenti. A sostenerlo è anche Gary Gensler, presidente della Securities and Exchange Commission (SEC), l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse valori, che ha coniato il concetto di «AI washing» per indicare la strategia usata dalle aziende che nominano le intelligenze artificiali nei loro report, spesso senza alcuna base concreta.

Secondo uno studio di Goldman Sachs, il 36% delle aziende dell’indice S&P 500, l’indice azionario della borsa statunitense che raccoglie le 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione, ha menzionato le AI nel report del quarto trimestre del 2023. Scott Kessler della società di ricerca Third Bridge Group ha spiegato al sito Business Insider che, al netto della «grandiosità» delle promesse fatte in questo campo, «non sappiamo se o quando alcune di queste cose saranno possibili». Secondo Kessler, infatti, cambiamenti simili a quelli descritti da imprenditori come Sam Altman di OpenAI, che da anni parla delle AI con un misto di stupore e trepidazione, «non avvengono da un giorno all’altro».

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Un altro segnale proviene proprio da OpenAI, che a gennaio ha presentato GPT Store, un negozio online dove scaricare versioni specifiche e personalizzate di ChatGPT, il noto chatbot prodotto dall’azienda. All’epoca la novità ispirò paragoni con l’App Store di Apple, che contribuì a diffondere iPhone e permise la nascita di molti servizi di enorme successo. A qualche mese di distanza, però, la partenza di GPT Store è stata giudicata lenta dal sito The Information, anche perché negli ultimi mesi l’azienda si è impegnata in molti, forse troppi, grossi progetti: al momento sta infatti lavorando su un motore di ricerca e ha appena sviluppato Sora, una AI in grado di generare video da prompt testuali, mentre il suo co-fondatore Sam Altman vuole investire nella produzione di chip di nuova generazione per rendere lo sviluppo di queste tecnologie meno energivoro (e costoso).

La questione economica rischia di diventare la più pressante per l’intero settore. Gli stessi casi di Inflection AI e Stability AI possono essere ridotti a questo: sviluppare AI generative è molto costoso e i servizi a loro legati non sono ancora profittevoli; per questo a guadagnare spazio sono soprattutto aziende come Microsoft (che ha un’alleanza con OpenAI e ha investito in molte altre startup), Google, Meta e Amazon, che hanno enormi capitali da investire e possono contare su un vasto ecosistema di servizi su cui poggiarsi. In questi mesi si è quindi consolidato l’accentramento di potere in poche aziende, che ha creato una situazione di enorme svantaggio per quelle più piccole e in ascesa, come denunciato dallo stesso Gensler.

Nonostante questo, anche le aziende più grandi stanno faticando a monetizzare le AI, anche quelle più gradite dagli utenti, come quella che riassume videochiamate e mail ricevute. Usare una tecnologia come GPT-4 per riassumere un messaggio di posta elettronica è del resto un uso poco efficiente di un servizio potentissimo: «come prendere una Lamborghini per consegnare una pizza», secondo il Wall Street Journal.

Tra i settori in cui l’utilizzo di questi strumenti si è più diffuso c’è quello della programmazione informatica, dove prodotti come GitHub Copilot, un assistente virtuale in grado di scrivere e rivedere il codice, hanno avuto grande successo pur rimanendo in perdita. Secondo una rivelazione del Financial Times, persino Google sta pensando di far pagare per un servizio di ricerca potenziato dalle intelligenze artificiali, una scelta che sarebbe in piena rottura con il tradizionale approccio gratuito di Google.

L’espansione del settore è avvenuta mentre le aziende tecnologiche abbandonavano le cautele e le norme condivise che per alcuni anni avevano seguito nello sviluppo delle intelligenze artificiali. In un’intervista a Mira Murati, chief technology officer di OpenAI, data sempre al Wall Street Journal in occasione della presentazione di Sora, la giornalista Joanna Stern affrontò la questione del diritto d’autore e dell’utilizzo di materiali protetti per «allenare» e sviluppare queste AI. Murati diede una risposta molto confusa precisando che il materiale utilizzato era «disponibile al pubblico». Quanto a YouTube, l’azienda rispose ricordando che l’utilizzo dei suoi video per un prodotto di questo tipo violerebbe le sue condizioni d’uso. La scorsa settimana il New York Times ha svelato che OpenAI già nel 2021 utilizzò un programma per trascrivere video su «un milione d’ore di filmati su YouTube».

OpenAI non sarebbe l’unica. Secondo il New York Times, anche Meta e Google hanno discusso di raccogliere dati protetti da copyright da tutta internet, «anche a rischio di subire azioni legali». Alcuni manager di Meta, l’anno scorso, arrivarono a considerare l’acquisto della casa editrice statunitense Simon & Schuster per «procurarsi opere lunghe» su cui sviluppare le intelligenze artificiali. Quanto a Google, sempre l’anno scorso ha rivisto le sue condizioni d’uso per permettere all’azienda di «usare documenti disponibili su Google Docs, recensioni di ristoranti su Google Maps e altri materiali online per i suoi prodotti di AI».

Oltre a sfavorire le startup, però, questo approccio rappresenta anche un possibile rischio legale che deve ancora essere affrontato: attualmente ci sono diverse cause aperte tra autori, artisti, editori e quotidiani (come il New York Times, che ha denunciato OpenAI) e le aziende del settore. Non è facile prevedere come andranno a finire e quali conseguenze avranno: secondo Nilay Patel, direttore del sito The Verge, «questi casi sono come il lancio di una monetina. (…) Se il sistema legale di per sé non è prevedibile, il diritto d’autore è intrinsecamente imprevedibile».

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Nonostante alcuni rischi e limiti tuttora riscontrabili nella tecnologia, il settore delle AI continua a ottenere interessi e investimenti, immerso in «una sensazione di inevitabilità», come l’ha definita Rana Foroohar, giornalista del Financial Times: «Anche se pensate che le AI siano l’equivalente odierno della elettricità o di internet, siamo ancora ai primi stadi di una complessa trasformazione che impiegherà alcuni decenni a compiersi e che a oggi non è in nessun modo assicurata».

Eppure l’enorme interesse legato al settore ha fatto la fortuna di aziende come Nvidia, società statunitense produttrice di microprocessori, che lo scorso febbraio è arrivata a superare Alphabet (la holding che controlla Google) in termini di capitalizzazione di mercato. Le schede video prodotte da Nvidia sono le più utilizzate nello sviluppo e nel funzionamento dei sistemi di intelligenza artificiale, e hanno reso l’azienda fondamentale per l’intero settore tecnologico. Una crescita tanto grande e improvvisa ha però anche suscitato il sospetto che possa rivelarsi una bolla speculativa, simile a quelle legate al metaverso o alle criptovalute. Secondo altri, invece, è necessario trovare un nuovo termine per indicare un tipo di investimento che, pur non essendo una bolla, rappresenta un rischio ben più alto del solito, come nel caso delle intelligenze artificiali.