Lo yin e lo yang sui nostri schermi

C'è un'annosa diatriba tra chi preferisce la modalità scura per leggere bianco su nero e gli ortodossi del nero su bianco: c'entrano i primi computer e il rapporto tra virtuale e reale

Immagine realizzata con un sistema di intelligenza artificiale (DALL•E 3)
Immagine realizzata con un sistema di intelligenza artificiale (DALL•E 3)
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Quando nel giugno del 2019 il vicepresidente di Apple Craig Federighi annunciò a un evento dell’azienda l’introduzione della “modalità scura” (“dark mode”, con le scritte bianche su schermo nero) per gli iPhone, il pubblico che lo stava ascoltando reagì con una grande ovazione e un lungo applauso. La novità non era in realtà così rivoluzionaria, almeno da un punto di vista tecnico, ma era attesa da tempo da una parte rilevante degli utilizzatori dello smartphone più diffuso al mondo. Paradossalmente, quell’annuncio arrivava dalla stessa azienda che 35 anni prima aveva contribuito più di altre a diffondere l’esatto opposto, cioè gli schermi con le scritte nere su fondo bianco.

Federighi non era certo il primo ad avere pensato a una modalità scura per gli schermi: nel 2019 Apple aveva semplicemente fatto propria una tendenza in corso già da diverso tempo per vedere le cose bianco su nero sugli schermi e non viceversa. Varie applicazioni, non solo per gli iPhone ma anche per gli smartphone Android, davano già la possibilità di utilizzare una modalità scura, e così numerosi siti, anche se la loro visualizzazione era talvolta incompleta a causa delle limitazioni dei sistemi operativi che non comprendevano l’opzione in forma nativa (cioè come una loro funzionalità intrinseca).

Oggi la scelta tra modalità chiara o scura deriva dalle inclinazioni e dalle preferenze personali di chi possiede un dispositivo con uno schermo, ma agli albori dell’informatica questa possibilità di scelta non esisteva. I primi schermi a tubo catodico, quelli grandi e ingombranti con il vetro bombato impiegati nell’informatica, erano bicolori e il colore predominante (quello che oggi chiameremmo sfondo) era il nero, sul quale venivano proiettati fasci di elettroni che illuminavano la superficie fotosensibile dello schermo formando l’immagine, in bianco o più di frequente in verde in base ai prodotti utilizzati per rendere sensibile agli elettroni lo schermo stesso.

(Central Press/Getty Images)

La modalità scura era la normalità: se sul vetro di un monitor si illuminavano i punti che messi insieme mostravano qualcosa, per lo più lettere e simboli, era comprensibile che il resto fosse scuro. La realtà funzionava allo stesso modo: le stelle che baluginano nel cielo notturno, una candela accesa in una stanza al buio o ancora il bagliore della roccia fusa nelle profondità del pianeta. I programmatori e i primi appassionati di informatica impararono a scrivere i loro software su schermi neri illuminati dalla trascrizione delle loro idee, simbolo dopo simbolo.

Gli schermi a colori esistevano già dalla metà degli anni Cinquanta, ma tra limitazioni e difficoltà tecniche la loro utilità in ambito informatico era dibattuta: si dovevano scrivere linee di testo, di conseguenza non c’erano grandi esigenze cromatiche. Le cose iniziarono a cambiare tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta quando furono sperimentate le prime interfacce grafiche, come quelle dei computer che usiamo oggi con icone, finestre e oggetti su cui cliccare attraverso un puntatore.

Il punto di svolta per questa tecnologia fu secondo diversi osservatori il Macintosh, forse il computer più famoso mai realizzato da Apple, presentato nel 1984. Per svilupparlo la società aveva tratto grande ispirazione dallo Xerox Alto, un computer più ingombrante con il quale il centro di ricerca e sviluppo di Xerox aveva sperimentato nuovi sistemi di grafica. Il Macintosh aveva un piccolo schermo in bianco e nero e faceva dell’interfaccia grafica il proprio punto di forza, soprattutto per comporre testi e leggerli proprio come si faceva sulla carta con le lettere nere su un fondo bianco.

Il Macintosh presentato da Apple nel 1984 (TNS via ZUMA Wire – ANSA)

Il passaggio alle interfacce grafiche, soprattutto con il sistema operativo Windows di Microsoft che avrebbe poi avuto una maggiore diffusione rispetto ai sistemi di Apple, segnò la fine del bianco su nero e di quella che oggi chiamiamo modalità scura, almeno per i normali utilizzatori dei computer. La modalità scura rimase comunque il regno dei programmatori, sia perché erano abituati da sempre al bianco su nero sia perché i principali linguaggi di programmazione continuavano a basarsi sulla scrittura di testi con lettere e simboli.

Non è completamente chiaro che cosa abbia determinato, dopo circa 40 anni, il ritorno della modalità scura. Un’ipotesi è che la necessità di averla come opzione sui propri dispositivi sia nata proprio dai programmatori, desiderosi di avere un sistema analogo a quello che utilizzano ogni giorno per lavorare. In ultima istanza sono del resto loro a determinare come funziona un software insieme a chi ne fa il design, di conseguenza potrebbe essere stata assecondata un’esigenza che c’era più tra gli addetti ai lavori che tra i normali utilizzatori dei dispositivi con schermi.

Altri ipotizzano che il ritorno della modalità scura sia stato favorito da un importante progresso tecnologico che ha riguardato proprio gli schermi, con l’avvento della tecnologia OLED. A differenza dei classici schermi a cristalli liquidi (LCD, che a un certo punto rimpiazzarono quelli più ingombranti e pesanti a tubo catodico), quelli OLED non hanno necessità di un pannello aggiuntivo per essere illuminati, ma possono produrre direttamente la luce. Un pannello in meno si traduce in uno schermo più sottile, che inoltre attiva solamente le aree (pixel) che devono mostrare qualcosa, lasciando spente quelle nere.

Rispetto ai normali LCD gli OLED consumano quindi meno energia elettrica, specialmente in presenza di immagini in cui il nero è predominante. La disponibilità degli schermi OLED su alcuni modelli di smartphone ha quindi portato a un maggiore interesse verso la modalità scura, perché permette di estendere la durata di una carica (almeno in linea teorica, molto dipende dall’impiego e da altre variabili). Molti smartphone non sono OLED eppure offrono la possibilità di utilizzare la modalità scura, a dimostrazione del fatto che l’interesse per questa opzione non dipende necessariamente dalla possibilità di ridurre il consumo della batteria.

Molte persone dicono di utilizzare la modalità scura perché la trovano più riposante per gli occhi, visto che riduce la quantità di luce prodotta dallo schermo, soprattutto quando si leggono testi. Il beneficio sembra essere maggiore nelle ore serali e prima di andare a dormire, ma non ci sono ancora studi scientifici sufficientemente estesi per avere qualche riscontro affidabile. La maggior parte dei sistemi operativi, sia per gli smartphone sia per i computer, offre anche la possibilità di impostare la modalità scura solo nelle ore notturne, trasmettendo quindi l’idea che in questo modo si possa ottenere qualche effetto positivo per non interferire con i cicli sonno/veglia.

Come spesso avviene con ciò che comprende abitudini, sentito dire e presunti benefici difficili da dimostrare, la questione “modalità chiara – modalità scura” è diventata polarizzante, con convinti sostenitori del testo bianco su nero e viceversa. I primi sostengono che sia il modo più comodo e pratico per usare uno schermo, mentre i secondi sostengono che sia innaturale visto che da secoli leggiamo quasi sempre testi in nero su bianco.

Esistono comunque le vie di mezzo per la fruizione di alcuni contenuti digitali. Le interfacce delle piattaforme per vedere video in streaming, per esempio, hanno quasi tutte come modalità predefinita quella scura ed è raro che qualcuno se ne lamenti. L’impostazione permette di mettere in secondo piano gli altri elementi sullo schermo che potrebbero disturbare la visione, come del resto avviene al cinema quando si spengono le luci nella sala o più semplicemente in casa quando si riducono le luci per guardare la televisione.

Netflix è tra le piattaforme di streaming che da sempre privilegiano la modalità scura (Netflix)

L’utilità della modalità scura in generale nelle ore notturne, quindi in scarse condizioni di luce, è comunque ancora molto dibattuta. Uno studio svolto da un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology ha rilevato che condizioni di luce, dimensioni del testo e contrasto hanno un ruolo molto importante nella capacità di valutare se una serie di lettere sia o meno una parola vera e propria su uno schermo (un test importante per misurare la capacità di identificare qualcosa di rilevante con una semplice occhiata). Dai test è emerso che alla luce del giorno i partecipanti non avevano particolari difficoltà né con la modalità chiara né con quella scura, ma quest’ultima si è rilevata meno efficace in contesti di scarsa luminosità ambientale. I partecipanti hanno inoltre segnalato di avere più difficoltà nelle ore notturne a leggere testi di piccole dimensioni nella modalità scura.

Altre ricerche sono arrivate a conclusioni simili, soprattutto sulla migliore resa della modalità chiara per leggere scritte molto piccole. In generale la modalità chiara sembra offrire una maggiore leggibilità in un numero più ampio di scenari, ma le ricerche sono ancora limitate e fare chiare valutazioni non è semplice. E tutto diventa ancora più complicato se si prendono in considerazione i problemi alla vista, da quelli più banali e che interessano la maggior parte della popolazione – come la miopia e dopo una certa età la presbiopia – o malattie più specifiche che per alcune persone rendono altamente fastidiosa la lettura di scritte chiare su sfondi scuri.

Forse è anche per questo motivo che ultimamente si è osservato un maggiore interesse per la modalità scura da parte dei più giovani, che non vissero certamente i primi tempi dell’informatica quando gli schermi erano monocromatici. Per la maggior parte dei cosiddetti nativi digitali gli smartphone sono i computer e il mezzo principale con cui leggono, comunicano, giocano e vedono film e serie tv. Sono un oggetto ben definito sul quale i rimandi al mondo reale – tipici delle prime interfacce quando i pionieri digitali si muovevano in territori sconosciuti e cercavano qualche riferimento rassicurante – non sono sempre necessari e spesso lasciano il tempo che trovano, compresa l’idea che un testo debba essere letto su uno schermo che finge di essere un foglio di carta bianco.