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  • Domenica 31 marzo 2024

L’influenza dell’esercito brasiliano nella politica del paese non se n’è mai andata

A 60 anni dal colpo di stato i militari brasiliani continuano a contare molto e tutti i presidenti ci devono fare i conti: anche Lula, che pure vorrebbe prendere un po' le distanze

Soldati al Palazzo presidenziale Planalto (AP Photo/Eraldo Peres)
Soldati al Palazzo presidenziale Planalto (AP Photo/Eraldo Peres)
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A sessant’anni dal colpo di stato che permise all’esercito brasiliano di prendere il potere nel paese, in Brasile le forze armate continuano ad avere un ruolo centrale nella vita politica dello stato, certamente superiore rispetto a quello che hanno gli eserciti nelle principali democrazie occidentali e latinoamericane.

Nel corso dei decenni l’esercito brasiliano ha infatti continuato a intervenire nella politica nazionale, in una misura che ha costretto praticamente tutti i presidenti eletti a fare i conti con i militari. È successo per esempio durante la presidenza di Jair Bolsonaro (2019-2022), di destra ed ex capitano dell’esercito, che nominò diversi militari di alto rango nel ruolo di ministri. Ma anche l’attuale presidente, Luiz Inácio Lula da Silva, di sinistra, sta cercando di mantenere buoni rapporti con l’esercito, nonostante voglia allo stesso tempo tenerlo distante dalla gestione diretta del potere esecutivo.

Il presidente Lula con il generale Tomas Miguel Mine Ribeiro Paiva (AP Photo/Eraldo Peres)

Le forze armate brasiliane sono oggi le più grandi del continente americano dopo quelle statunitensi, e quindi le più grandi dell’America Latina. Hanno oltre 400mila membri e furono centrali nella storia brasiliana, a partire dalla fondazione repubblicana, favorita nel 1889 da un colpo di stato militare contro l’allora imperatore Pedro II. Nel 1930 fu l’esercito a decretare la fine della prima repubblica brasiliana e a permettere l’insediamento del presidente a interim Getúlio Vargas. Nel 1937 Vargas si trasformò di fatto in un dittatore proprio con l’appoggio dell’esercito, ma otto anni più tardi i militari lo deposero permettendo il ritorno della democrazia.

Nel 1964, sessant’anni fa, fu sempre l’esercito, grazie al decisivo sostegno dei governatori della destra, dei banchieri, dei latifondisti e almeno all’inizio delle classi medie che abitavano nelle città, a decidere le sorti del Brasile con il colpo di stato che fece iniziare un lungo periodo di gestione autoritaria del potere dei militari che terminò solo nel 1985, quando fu conclusa una lunga e faticosa transizione democratica anch’essa guidata per lo più dai militari. Durante quella transizione, i militari si assicurarono di continuare a mantenere una forte influenza nello stato brasiliano e di bloccare qualsiasi tentativo di aprire una reale indagine sui crimini commessi durante la dittatura.

La Commissione nazionale per la verità del Brasile fu aperta infatti solo nel 2012 e nel 2014 pubblicò l’esito della sua indagine: riconobbe il ruolo dell’esercito nelle persecuzioni degli oppositori e nelle sistematiche violazioni dei diritti umani compiute in quegli anni. Il primo processo per i crimini del periodo della dittatura fu istituito solo nel 2021 e riguardò un singolo caso di un poliziotto in pensione. Grazie a una legge di amnistia approvata nel 1979, nessun membro dei vertici militari ha mai dovuto rispondere del proprio operato.

L’esercito in una favela di Rio de Janeiro (Photo by Mario Tama/Getty Images)

Nell’articolo 142, la Costituzione brasiliana approvata nel 1988 definisce l’esercito come garante della difesa della patria, della legge, dell’ordine e dei poteri istituzionali, ma specifica che possa intervenire solo su richiesta delle istituzioni democratiche. Questo articolo negli anni è stato alla base delle interpretazioni di chi ha visto l’esercito come strumento di salvaguardia costituzionale nei momenti di crisi, una visione diffusa non solo nell’esercito stesso ma anche nella parte più conservatrice dell’elettorato brasiliano.

I generali hanno spesso presentato le forze armate come una cosiddetta “forza moderatrice” e uno “strumento di garanzia”: è una giustificazione che storicamente è stata usata per sovvertire le regole democratiche e instaurare regimi meno liberali e più vicini alla visione di destra, nazionalista, religiosa e anticomunista diffusa tra molti militari brasiliani. Più in generale l’esercito è spesso intervenuto per gestire problemi interni come grandi scioperi o elezioni, ha partecipato a incontri con leader politici stranieri e ha svolto azioni di polizia, soprattutto in quartieri turbolenti, quando le forze di polizia sembravano inefficaci o insufficienti.

Lo stato brasiliano prevede inoltre l’esistenza di un Ufficio della sicurezza istituzionale, detto GSI, a guida militare. L’Ufficio ha ampie responsabilità che vanno dal coordinamento delle politiche di sicurezza alla supervisione dei servizi segreti (ABIN). Il GSI fu chiuso nel 2015 dalla presidente Dilma Rousseff (dello stesso partito di Lula, di sinistra), che trasferì queste responsabilità a figure civili, ma fu ricostituito subito dopo l’impeachment della presidente.

L’ex presidente Jair Bolsonaro durante una parata dell’esercito (AP Photo/Eraldo Peres)

Anche nei periodi democratici della storia brasiliana i militari hanno continuato a influenzare in maniera massiccia la politica nazionale, per esempio candidandosi alle elezioni o facendosi nominare ministri: 72 candidati provenienti da esercito e polizia furono eletti a incarichi politici federali o statali nel 2018, circa 900 vinsero le elezioni locali due anni dopo.

La presidenza Bolsonaro fu la più militare della storia moderna del Brasile, con la nomina di rappresentanti delle forze armate per moltissimi ruoli dell’amministrazione dello stato: più di seimila, compresi 9 ministri sui 22 dell’esecutivo, un numero superiore anche a quello dei tempi della dittatura. Altri militari furono nominati a capo delle imprese di stato: controllavano 16 delle 46 imprese statali, comprese Petrobras e Electrobras, che a loro volta controllano un centinaio di aziende minori. È stato stimato che fosse a guida militare il 61 per cento delle aziende direttamente o indirettamente controllate dallo stato. L’Ufficio del controllore generale federale del Brasile valutò che oltre 2.300 militari occuparono impieghi pubblici per cui non erano qualificati o per cui erano retribuiti in modo eccessivo.

Negli anni di presidenza di Bolsonaro l’esercito non fu coinvolto dalla riforma delle pensioni, mantenendo i propri privilegi, e il budget militare venne ampliato in più occasioni. Per queste relazioni strette, e ritenendo l’esercito necessario “garante dell’ordine”, dopo la sconfitta elettorale del 2022 i sostenitori di Bolsonaro organizzarono manifestazioni davanti alle caserme per chiedere l’intervento dell’esercito. A differenza di quanto accaduto in passato, la maggior parte dei militari non intervenne. Alcuni elementi delle forze armate furono però coinvolti nei presunti piani di colpo di stato di Bolsonaro, su cui stanno ancora indagando i giudici brasiliani.

Recentemente tre militari di alto livello sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nel progetto: in particolare avrebbero favorito l’assalto alle istituzioni dell’8 gennaio del 2023.

Sostenitori di Jair Bolsonaro nel novembre del 2022 (AP Photo/Bruna Prado, File)

Da alcuni anni varie iniziative legislative stanno cercando di limitare le ingerenze politiche dell’esercito. È in discussione al Senato una Proposta di riforma costituzionale (PEC) che prevede l’impossibilità di candidarsi a incarichi politici per militari ancora in servizio: al momento della candidatura dovrebbero passare al ruolo di “riservisti”. La PEC dei militari non risolverebbe il problema delle nomine politiche di membri delle forze armate (a ministeri e incarichi pubblici), ma è comunque molto osteggiata dalla destra e dall’esercito stesso.

Il presidente Lula ha comunque detto che la riforma «non è una priorità» e per questo è stato contestato da parte della sinistra brasiliana, che lo considera troppo ben disposto nei confronti dei militari: gli viene imputato il ritardo nella riapertura della Commissione su morti e scomparsi negli anni della dittatura e la decisione di non prevedere celebrazioni ufficiali per i 60 anni del colpo di stato militare.