L’Università di Trento e il “femminile sovraesteso”

Per ribadire l'importanza del linguaggio inclusivo il nuovo regolamento dell'ateneo è stato scritto usando il femminile per tutte le persone al singolare e al plurale: una cosa molto rara in contesti istituzionali

Università di Trento (Google Street View)
Università di Trento (Google Street View)
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Giovedì il consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha approvato all’unanimità un nuovo regolamento generale di ateneo che ha qualcosa di insolito. All’interno tutte le cariche citate sono infatti declinate al femminile e all’Articolo 1 si legge che «i termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone», cioè anche ai maschi. È un ribaltamento di quello che viene fatto di solito nella lingua italiana con il maschile sovraesteso, e cioè l’abitudine a usare il maschile plurale anche per riferirsi a gruppi misti e spesso il maschile singolare per riferirsi a certe cariche, anche quando a ricoprirle sono delle donne.

Nel comunicato stampa si legge: «La presidente, la rettrice, la segretaria, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario di Ateneo, le professoresse, la candidata, la decana… Termini come questi sono citati e ripetuti più volte in riferimento a tutte le persone a prescindere dal genere». Il rettore Flavio Deflorian l’ha definito un «atto simbolico per dimostrare parità a partire dal linguaggio dei nostri documenti».

L’università ha spiegato che il motivo dietro a questa scelta è che nel 2017 l’università di Trento aveva approvato un vademecum per un uso del “linguaggio rispettoso delle differenze” con l’obiettivo di «promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana nei vari ambiti della vita quotidiana della comunità universitaria» come durante gli eventi pubblici o la produzione di testi amministrativi. Per questo motivo, il nuovo Regolamento avrebbe dovuto essere scritto riferendosi ai gruppi di persone (studenti, docenti, eccetera) sia con il femminile che con il maschile. Questo secondo Deflorian avrebbe finito per appesantire eccessivamente tutto il documento e quindi, per «facilitare la fase di confronto interno», gli uffici amministrativi avevano iniziato a lavorare a una bozza che conteneva solo femminili.

«Leggere il documento mi ha colpito», ha detto Deflorian. «Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità». La sua proposta è stata accettata senza obiezioni dal consiglio di amministrazione.

La questione dell’utilizzo del maschile sovraesteso è diventata molto ricorrente all’interno del più ampio discorso sul sessismo della lingua italiana, tema che negli ultimi anni ha ottenuto crescente attenzione. Il problema secondo chi se ne occupa è che alla prevalenza del maschile sul femminile nel linguaggio corrisponda anche una prevalenza nel pensiero, e che quindi continuare a usare il maschile sovraesteso come si fa da sempre in italiano sia di fatto un modo per perpetrare un modo di pensare in cui le donne sono sistematicamente subordinate agli uomini. Per disinnescare questo automatismo sono state nel tempo proposte soluzioni diverse, dagli asterischi allo schwa. Il femminile sovraesteso viene spesso proposto e usato all’interno di associazioni e movimenti femministi o per i diritti delle persone LGBTQ+, ma è molto raro che venga applicato in un contesto istituzionale come quello universitario.

Il dibattito sull’uso del maschile sovraesteso nei contesti pubblici torna ciclicamente nel dibattito pubblico e politico italiano: non solo per quanto riguarda i plurali ma anche per definire singole professioniste.

Per esempio durante il suo mandato da presidente della Camera, tra il 2013 e il 2018, Laura Boldrini si spese molto per affermare l’uso del femminile in relazione alle deputate. In senso opposto intervenne invece la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli nel giugno del 2019, chiedendo al presidente della Camera Roberto Fico di essere chiamata deputato, al maschile. Anche Giorgia Meloni, assunta la carica di presidente del Consiglio nell’ottobre del 2022, disse di voler essere chiamata «il presidente del Consiglio», al maschile, generando nelle settimane e nei mesi successivi dibattiti e frequenti ironie sulla non concordanza.

L’ultimo episodio in merito alla questione di cui hanno parlato molto anche i giornali è avvenuto a dicembre 2023, quando la deputata del Partito Democratico Maria Cecilia Guerra si rivolse al deputato di Forza Italia Giorgio Mulè utilizzando il femminile. Guerra disse di averlo fatto per protestare contro il fatto che il parlamentare di Fratelli d’Italia Marco Perissa avesse parlato della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein chiamandola sempre “segretario”, al maschile. «Se a lui compete di rivolgersi a una donna con un appellativo maschile a me è permesso di rivolgermi a lei e a qualsiasi uomo in quest’aula con un appellativo femminile», aveva detto Guerra.

La discussione sul maschile sovraesteso si inserisce in quella più ampia dell’introduzione del linguaggio inclusivo negli atti ufficiali, verso cui la politica italiana è sempre stata respingente: nel 2022, per esempio, fu bocciato un emendamento che chiedeva che venissero stabiliti dei «criteri generali affinché nella comunicazione istituzionale e nell’attività dell’amministrazione» venisse «assicurato il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio attraverso l’adozione di formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l’utilizzo di un unico genere nell’identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne». Se la modifica fosse passata, nei documenti del Senato si sarebbe dovuto scrivere, ad esempio, «i senatori e le senatrici presenti» e non più «i senatori presenti», come invece è ancora oggi.