Un’anomalia italiana che dura da quasi trent’anni

È il decreto “Milleproroghe” che governo e parlamento riempiono di norme diversissime prossime alla scadenza, criticato ma tollerato

I banchi del governo nell'aula della Camera (Roberto Monaldo/LaPresse)
I banchi del governo nell'aula della Camera (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Anche quest’anno, come ogni anno da ormai quasi tre decenni, il parlamento è alle prese con il cosiddetto decreto “Milleproroghe”. Il Consiglio dei ministri lo ha approvato il 30 dicembre scorso, e il testo è stato poi inviato alla commissione Affari costituzionali della Camera, che lo sta discutendo insieme ad altre commissioni competenti. Il Milleproroghe è un provvedimento un po’ particolare, unico nel suo genere: è infatti quello in cui il governo stabilisce il prolungamento della validità di norme che stanno per scadere. Non a caso viene quasi sempre approvato a ridosso della fine dell’anno, visto che la gran parte delle misure scade di solito il 31 dicembre, oppure tra giugno e luglio, perché talvolta i termini di validità delle norme sono semestrali.

Per i ministri e per il presidente del Consiglio è uno strumento piuttosto utile, e questo spiega perché tutti i governi lo usino a prescindere dall’orientamento politico. Consente infatti di inserire in un unico documento tutte le norme prossime alla scadenza su cui non si è riusciti a intervenire in maniera strutturale o che sono rimaste un po’ in sospeso, anche se riguardano materie molto diverse tra loro. Essendo un decreto-legge, poi, entra in vigore subito dopo che il Consiglio dei ministri lo approva. Dopodiché il parlamento ha sessanta giorni per convertirlo in legge ordinaria, approvandolo sia alla Camera sia al Senato.

Quasi sempre il processo di approvazione in parlamento del Milleproroghe è turbolento, perché deputati e senatori tentano di inserire all’interno del testo delle norme che sono di loro particolare interesse o che rispondono alle richieste di categorie molto specifiche (magari anche di rilevanza solo locale). Proprio per questa ragione, quando è possibile, l’analisi del testo parte dal Senato, dove per motivi connessi al suo regolamento è più facile introdurre modifiche alla versione originaria. Al Milleproroghe di quest’anno, che è invece in discussione alla Camera e che nella versione votata in Consiglio dei ministri aveva 20 articoli molto corposi, sono stati finora presentati dai deputati di maggioranza e di opposizione 1.218 emendamenti.

Neanche questa è un’anomalia. L’eccessiva misura con cui cresce testo il Milleproroghe durante la sua discussione in parlamento era già stata denunciata nel 2010 da alcuni deputati, che avevano calcolato come nel 2007, per esempio, il decreto era passato da 52 a 108 articoli, da 110 a 262 commi e da 60.088 a 158.959 caratteri. Nel 2006 era passato da 7 a 14 articoli, da 30 a 80 commi e da 13.022 a 39.502 caratteri. Nel 2008 era passato da 45 a 53 articoli, da 96 a 228 commi, da 37.848 a 123.368 caratteri.

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti insieme a Berlusconi, presidente del Consiglio, in conferenza stampa a Palazzo Chigi il 12 agosto 2011 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

È difficile stabilire con esattezza quando questa pratica si sia davvero affermata. La responsabilità dell’attuale forma del Milleproroghe può essere attribuita ai governi di Silvio Berlusconi, tra il 2001 e il 2005, e ai suoi due ministri dell’Economia, Domenico Siniscalco e soprattutto Giulio Tremonti. Fu quest’ultimo a usarlo nel novembre del 2001. Il provvedimento era titolato «Proroghe e differimenti di termini» ed era assai snello, composto da 9 brevissimi articoli. Ce ne fu un altro nel 2003 già più corposo, di 24 articoli, a cui venne dato subito il nome con cui è noto oggi, Milleproroghe appunto.

Lì per lì non ebbe grandi reazioni, negli anni seguenti venne invece accompagnato da lunghe polemiche. Nel 2004 ce ne furono persino due, coordinati dal ministro Siniscalco. Il primo, approvato a novembre, conteneva tra le altre cose misure di grande impatto popolare: una ritardava l’entrata in vigore dell’obbligo per i minorenni del casco sulle piste da sci dal primo gennaio al 31 marzo; l’altra, la più delicata, posticipava dal primo al 10 gennaio l’entrata in vigore del divieto di fumo nei locali pubblici, voluta dal ministro della salute Girolamo Sirchia. Anche per via della contrarietà di alcuni parlamentari di centrodestra all’introduzione di questo divieto, durante la discussione al Senato la maggioranza di governo venne sconfitta su una votazione del Milleproroghe, senza però che questo avesse grosse ripercussioni sul governo. Un altro decreto analogo di «proroga termini» venne poi approvato a fine dicembre.

Nel frattempo il Milleproroghe iniziò a svolgere anche un’altra funzione. Essendo approvato tra novembre e dicembre, cioè quando il governo deve fare la legge di bilancio decidendo come spendere i soldi nell’anno seguente, il decreto divenne una specie di raccoglitore, utile per per trovare una sistemazione alle norme che il ministero dell’Economia non poteva inserire nella legge di bilancio.

La prima volta che si manifestò questa tendenza fu nel dicembre del 2005. Molti esponenti della maggioranza di centrodestra di allora chiedevano di ampliare la legge di bilancio al ministro Tremonti, ma era in arrivo un giudizio della Commissione Europea sui conti pubblici italiani. Tremonti e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta utilizzarono quindi il Milleproroghe per placare le lamentele, visto che la legge di bilancio era già aumentata una volta, passando da 24 a 28 miliardi. All’epoca commentatori e politici scettici di fronte a questa novità soprannominarono polemicamente il Milleproroghe “decreto mille promesse”.

Nel 2005 il presidente della Camera era Pier Ferdinando Casini, che in quel periodo non era in grandi rapporti con il centrodestra. Casini fu molto scrupoloso nel valutare (e poi bocciare) 17 proposte di modifica al testo del disegno di legge di bilancio presentate all’ultimo minuto dal governo. Molte di quelle, come le norme per la restituzione dei punti sulla patente o il finanziamento di alcune opere per le Olimpiadi invernali del 2006, vennero appunto inserite nel Milleproroghe insieme a «decine e decine di altre piccolissime misure», scrisse il Corriere della Sera il 15 dicembre di quell’anno.

I governi Berlusconi hanno senza dubbio sdoganato il Milleproroghe per come lo conosciamo oggi, ma per alcuni l’origine di questo tipo di provvedimenti andrebbe individuata in un altro momento storico. In particolare in un decreto-legge approvato il 2 gennaio del 1992 dal settimo governo di Giulio Andreotti, composto da 19 articoli piuttosto eterogenei – dalle agevolazioni per i turisti stranieri motorizzati all’edilizia popolare, dai lavori per la messa in sicurezza della Torre di Pisa all’aggiornamento del piano regolatore per gli acquedotti – e denominato «Differimento di termini previsti da disposizioni legislative e interventi finanziari vari». Un intervento analogo venne poi fatto nel 1995 dal governo tecnico guidato da Lamberto Dini, anche se riguardava solo misure d’interesse per i ministeri degli Esteri e della Difesa.

Nel 1996 ci fu però una sentenza molto importante della Corte Costituzionale, che si pronunciò contro la pratica di prolungare la validità dei decreti-legge attraverso proroghe ad hoc, una pratica molto diffusa all’inizio degli anni Novanta.

In sintesi il governo approvava dei decreti-legge, che come abbiamo visto vanno convertiti dal parlamento entro sessanta giorni. Succedeva spesso, però, che a ridosso di quella scadenza dei due mesi Camera e Senato fossero in ritardo, e il governo quindi riproponeva un nuovo decreto identico, di fatto prorogandone la validità. La Corte disse che questo stratagemma alterava la natura del decreto-legge, che secondo la Costituzione può essere approvato dal governo solo se ci sono ragioni di necessità e di urgenza, e deve avere un confine di validità e applicabilità ben definito, anche nel tempo.

La sentenza fece sì che la pratica di fare proroghe ai singoli decreti effettivamente venisse abbandonata. Ma come effetto collaterale indusse i governi a ricorrere sempre più ai cosiddetti decreti omnibus, cioè nei decreti i ministeri inserivano norme più o meno importanti che avevano urgenza di approvare, anche se su materie diversissime l’una dall’altra. Di lì a pochi anni anche il ricorso al Milleproroghe, cioè a un provvedimento omnibus che prorogava la validità di norme eterogenee, divenne una prassi. Dal 2001 in poi solo nel 2002 e nel 2017 non ci fu nessun Milleproroghe. In alcuni casi se ne contano invece anche due in un anno.

Nonostante la longevità del provvedimento, comunque, negli anni ha ricevuto numerose critiche. Già nel 2002 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi inviò un messaggio alle camere per rilevare l’anomalia di decreti troppo eterogenei che, tra l’altro, prorogavano termini già scaduti. Più tardi la Corte Costituzionale ribadì in due occasioni (nel 2012 e nel 2015) che questi decreti devono obbedire a una «ratio unitaria», cioè devono avere la sola funzione di prolungare la scadenza di norme la cui decadenza sarebbe dannosa per il paese.

Napolitano e Berlusconi a Roma, alla parata militare per la Festa della Repubblica del 2 giugno 2010 (Marco Merlini/LaPresse)

E per due volte anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrisse ai presidenti di Camera e Senato e al presidente del Consiglio Berlusconi per lamentarsi delle storture e degli abusi contenuti nei Milleproroghe. Lo fece una prima volta nel febbraio del 2011, dicendo che il provvedimento era troppo eterogeneo e che era cresciuto in maniera abnorme durante la sua discussione in parlamento.

L’anno seguente, quando si era ormai insediato il governo tecnico guidato da Mario Monti, successe la stessa cosa. Napolitano scrisse una nuova lettera, in cui criticava di nuovo l’abitudine di inserire nello stesso provvedimento norme diverse, oppure emendamenti bizzarri in nome di «una generica finalità di proroga non collegata con l’oggetto e spesso neppure con la materia e le finalità del provvedimento di urgenza».

Più di recente anche Sergio Mattarella è intervenuto sullo stesso argomento esprimendo simili perplessità. Nel febbraio 2023, per esempio, scrisse sia ai presidenti delle camere che del Consiglio, Giorgia Meloni, dopo aver promulgato il Milleproroghe, cioè dopo averlo controfirmato la legge per dargli piena validità. Nella lettera segnalò tra l’altro la sua contrarietà verso la decisione di prolungare la validità delle concessioni balneari, cioè delle licenze con cui gli imprenditori del settore occupano pezzi di spiaggia gestendovi degli stabilimenti, su cui l’Italia rischia una procedura d’infrazione con la Commissione Europea.

Tra l’altro, in maniera informale, i funzionari del Quirinale avevano segnalato a esponenti della maggioranza e del governo come fosse poco opportuno inserire in quel provvedimento una norma (poi effettivamente ritirata) che riguardava i diritti televisivi delle squadre di calcio voluta dal senatore di Forza Italia Claudio Lotito, presidente della Lazio.

Il Milleproroghe è insomma un’anomalia ormai tollerata, seppure criticata. In quello di quest’anno ci sono proroghe che prolungano provvedimenti i cui termini originari sono scaduti da più di cinque anni: norme, dunque, che restano valide solo in virtù del fatto che ogni anno vengono rinnovate all’ultimo minuto con questo genere di decreti. Il comitato per la legislazione della Camera, un organismo composto da dieci deputati che esprimono pareri sulla qualità dei testi dei provvedimenti in esame dalle varie commissioni, ha contato 19 di questi casi.

Oltre che un’anomalia tollerata, il Milleproroghe è poi un’anomalia solo italiana: non esistono prassi legislative simili negli altri paesi europei. Il paragone che talvolta viene fatto con l’omnibus bill statunitense non regge, perché in quel caso sono provvedimenti che raccolgono varie norme di carattere finanziario e che il Congresso discute e approva con cadenza annuale, ma senza che ci siano proroghe generalizzate.