Negli Stati Uniti è in corso una specie di «caccia ai plagiari»

La crescente strumentalizzazione delle accuse di plagio in ambito accademico sta alimentando un dibattito complesso, che si intreccia con quello su intelligenza artificiale e fake news

tre tasti virtuali con scritto sopra "cut", "copy" e "paste"
(Edward Jung/Flickr)

Negli ultimi mesi le persone a capo di alcune delle più importanti università degli Stati Uniti sono state duramente criticate per la gestione, da molti ritenuta inefficace, delle tensioni e dei disordini in ambito accademico dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza. La questione ha riacceso soprattutto l’insistente ostilità da parte della destra americana verso le università di élite, con accuse su vari livelli orientate a indebolire significativamente l’autorevolezza e la credibilità della classe dirigente accademica.

Il caso più famoso è quello della rettrice dell’università di Harvard Claudine Gay, che si è dimessa all’inizio di gennaio dopo essere stata accusata di aver copiato parti di altri testi accademici nella compilazione della sua tesi di dottorato e di altri suoi articoli di scienze politiche. Le dimissioni di Gay alimentano da giorni sui media statunitensi un dibattito complesso ed eterogeneo sulla questione del plagio in ambito accademico, su come queste accuse siano spesso difficili da valutare e come siano sempre più spesso strumentalizzate a fini politici.

Una questione riguarda la crescente tendenza a utilizzare le accuse di plagio come strumento retorico per screditare avversari politici, in quella che il New York Magazine ha definito una «caccia ai plagiari». Un’altra riguarda l’ambiguità della definizione di plagio in ambito accademico, dove riprendere e citare altri studiosi è in molti casi una prassi comune e incentivata, entro certi limiti, e il problema in genere non è quasi mai la citazione in sé, ma la mancante o scorretta attribuzione del lavoro altrui.

Una terza questione riguarda poi le possibili conseguenze future dell’utilizzo di software di intelligenza artificiale in grado di analizzare e confrontare enormi quantità di dati per rilevare eventuali plagi. Attività di questo tipo – di cui le analisi di tutto il lavoro di ricerca di Gay pubblicate dal giornale conservatore Washington Free Beacon sono un esempio – potrebbero diventare sempre più centrali nello scontro politico e culturale tra i progressisti e i conservatori. Avrebbero tuttavia alti costi di gestione e una serie di limiti rilevanti: il più importante è che ogni rilevazione automatizzata di un presunto plagio – facilmente condivisibile sui social per stimolare reazioni polemiche e indignate – pone di volta in volta valutazioni più approfondite, spesso difficili, diverse a seconda dell’argomento, della materia e di altri fattori relativi ai singoli casi analizzati.

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Il ricorso alle accuse di plagio unicamente per interessi politici è emerso in alcuni casi recenti. Un articolo pubblicato da Business Insider pochi giorni dopo le dimissioni di Gay (che è comunque rimasta nel corpo docenti di Harvard) ha accusato la designer statunitense di origini israeliane e professoressa di arte e architettura Neri Oxman di aver copiato interi paragrafi da Wikipedia e da altri documenti per scrivere la sua tesi di dottorato al MIT nel 2010 e per altri articoli successivi. Oxman, che si è in parte scusata per non avere correttamente citato alcune sue fonti, è peraltro moglie del miliardario Bill Ackman, uno dei principali donatori di Harvard e tra i più critici verso Gay e le altre rettrici (inclusa la rettrice del MIT Sally Kornbluth) interrogate al Congresso lo scorso dicembre sui presunti episodi di antisemitismo e islamofobia.

Bill Ackman, che aveva invocato anche le dimissioni di Kornbluth, ha risposto alle accuse alla moglie fatte da Business Insider sostenendo che fosse stata presa di mira per via dei suoi «tentativi di affrontare i problemi dell’istruzione di alto livello», e di voler risparmiare alle testate giornalistiche la fatica di fare revisioni a tappeto in cerca di eventuali plagi, perché se ne occuperà lui. Ha detto che comincerà dalla revisione di ogni lavoro della rettrice Kornbluth, degli attuali membri di facoltà e di tutti i membri del consiglio del MIT, seguendo gli standard utilizzati dall’università per la definizione di plagio.

«Nessun corpus di ricerche accademiche scritte può sopravvivere al potere dell’intelligenza artificiale alla ricerca di virgolette mancanti, incapacità di parafrasare in modo appropriato, e/o incapacità di attribuire adeguatamente credito al lavoro degli altri», ha scritto Ackman in un lungo articolo pubblicato su X (ex Twitter). Qualche giorno prima di lui l’attivista conservatore Christopher F. Rufo, molto attivo nella campagna mediatica a discredito di Gay, aveva annunciato l’apertura di un fondo da 10mila dollari per la «caccia al plagio» nelle università statunitensi di maggiore prestigio.

Nessuna delle accuse di plagio rivolte a Gay, come nessuna di quelle a Oxman, riguarda idee fondamentali del loro lavoro di ricerca accademica. Nel caso di Gay la maggior parte riguarda mancanze meno gravi di quanto un’accusa di plagio lascerebbe immaginare, come una decina di articoli scritti tra il 1993 e il 2017 in cui copiò alcuni passaggi senza utilizzare le virgolette, ma citando correttamente le fonti.

Il professore di scienze politiche David Canon, uno degli autori citati da Gay senza attribuzione, ha detto di non considerare «nemmeno vicini a un esempio di plagio accademico» i casi contestati a Gay che lo riguardano. «Beh, immagino che siamo tutti plagiari», ha detto alla rivista scientifica Nature Alvin Tillery, uno scienziato politico della Northwestern University a Evanston, Illinois. Altre accuse rivolte a Gay mostrano tuttavia che ricopiò anche passaggi piuttosto lunghi senza citare gli autori. «Tutti commettiamo qualche errore occasionale, ma una volta dimostrato che c’erano non pochi problemi nella sua ricerca, penso che fosse essenziale che si dimettesse», ha detto Naomi Oreskes, professoressa di storia della scienza a Harvard.

È possibile ipotizzare che Gay avrebbe mantenuto il suo posto a fronte di queste accuse se non fosse stata la rettrice ma una professoressa dell’università, ha scritto sul New York Magazine il professore di legge alla New York University Christopher Sprigman. Il ruolo di rettrice però implica anche di essere considerata la principale responsabile dell’applicazione delle regole accademiche, incluse quelle sul plagio. E le sanzioni previste a Harvard in caso di plagio, come ha scritto sull’Harvard Crimson uno studente anonimo membro del consiglio universitario, sono molto severe: per casi come quello di Gay uno studente potrebbe ricevere una sospensione di un anno accademico e una nota permanente sul curriculum.

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Indipendentemente dalla strumentalizzazione politica, una parte del mondo accademico considera gli sviluppi recenti della vicenda che ha coinvolto la rettrice di Harvard un’opportunità di ripensare gli attuali standard di definizione del plagio nelle università, distinguendo più attentamente tra pratiche molto diverse che sono spesso assimilate.

Alcuni studiosi, tra cui la fisica teorica e divulgatrice tedesca Sabine Hossenfelder, sostengono che in certi ambiti di ricerca un modello di pubblicazione «modulare» e più agile di quello attuale potrebbe permettere a chiunque di «campionare» più liberamente il lavoro di altri studiosi per contestualizzare i propri articoli nella letteratura scientifica, a condizione di citare chiaramente le fonti. Ne beneficerebbero peraltro i moltissimi ricercatori la cui prima lingua non è l’inglese. «È del tutto inutile chiedere più o meno a tutti di riassumere lo stato dell’arte della propria area di ricerca con parole proprie, più e più volte, se possono bastare piccoli aggiornamenti sul testo di qualcun altro», ha scritto Hossenfelder.

Un’idea simile è condivisa anche dal biologo computazionale del California Institute of Technology Lior Pachter, che ha detto a Nature di considerare obsoleta «l’idea che non si debbano mai copiare le parole di qualcun altro». Basarsi sul lavoro di altri programmatori è una pratica comune in informatica, per esempio, e sarebbe molto strano «se ogni volta per creare un nuovo software si dovesse ricominciare da zero». Un problema molto più serio del plagio nella ricerca accademica, secondo Pachter, è piuttosto la scarsa affidabilità delle informazioni citate e, nei casi peggiori, la totale invenzione dei dati.

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Il plagio pone prima di tutto un problema di definizione. Secondo quella più generica e condivisa, indicata dalla National Science Foundation (NSF), una delle principali agenzie governative a sostegno della ricerca scientifica, è «l’appropriazione delle idee, dei processi, dei risultati o delle parole di un’altra persona senza darne il giusto credito». Ma nella pratica la parola plagio è applicata a una grande varietà di pratiche e comportamenti diversi, e ogni volta che la utilizziamo sottintendiamo una definizione univoca quando di fatto quella definizione è molto più sfuggente, ha detto a Vox la professoressa di antropologia Susan Blum, autrice del libro My Word!: Plagiarism and College Culture.

Le reazioni alle accuse a Gay, da parte delle autrici e degli autori di cui Gay ha copiato alcuni paragrafi senza virgolette e senza citarli, indicano quanto siano variabili e condizionati da diversi fattori gli approcci al plagio nel mondo accademico. Il professore di scienze politiche della University of Kentucky D. Stephen Voss, un vecchio compagno di studi di Gay, ha paragonato il comportamento di Gay a «guidare a 57 miglia orarie su un’autostrada in cui il limite è 55». L’analista conservatrice ed ex professoressa di scienze politiche e diritto alla Vanderbilt University Carol Swain ha invece chiesto le dimissioni di Gay e criticato i progressisti per averla difesa.

Uno dei problemi della definizione comune di plagio, come ha scritto sul New York Magazine il professore di legge alla New York University Christopher Sprigman, è che non fa alcuna differenza tra ciò che alcune persone considerano un «innocuo prestito di frasi e un furto su larga scala di idee e prosa». Sia il disonore che attribuiamo a queste diverse azioni sia le punizioni inflitte spesso non riflettono queste scale molto diverse. Le infrazioni trascurabili e quelle guidate da disonestà intellettuale tendono a essere raggruppate nella stessa definizione: condizione che rende il plagio uno strumento politico ideale.

Le due principali ragioni dell’esistenza delle leggi contro il plagio, ha scritto Sprigman, sono la tutela dell’interesse delle autrici e degli autori a essere citati e la tutela dell’interesse delle lettrici e dei lettori a non essere ingannati. Ma le regole che vietano il plagio in ambito accademico, diverse da università a università, includono spesso affermazioni che rendono la questione molto più problematica. «Stiamo tutti sulle spalle degli altri e dobbiamo dare credito ai creatori delle opere che incorporiamo nei prodotti che chiamiamo nostri», è scritto tra le policy che definiscono gli standard di «integrità accademica» alla New York University.

Ma appena il discorso si fa meno teorico e più pratico, fa notare Sprigman, diventa subito più scivoloso. Le policy vietano, per esempio, di utilizzare «una sequenza di parole copiate senza virgolette» o «un passaggio non attribuito parafrasato dal lavoro di un altro». Il problema è che questi divieti pretendono di essere categorici, ma lo sono molto meno nella pratica. Tecnicamente «qualsiasi sequenza di parole riprodotta senza citazioni o parafrasata senza citazioni è plagio», ha scritto Sprigman, ma se questa condotta equivalga a una violazione ai danni di lettrici e lettori, o autrici e autori, dipende da diversi fattori. Può dipendere anche dalle parole, per esempio: se siano oppure no definizioni tecniche di base largamente condivise.

In generale molte affermazioni o idee implicite nelle definizioni comuni di plagio sembrano basate sulla convinzione che esistano sempre pensieri originali e verificabili espressi nero su bianco in una pubblicazione venuta prima di tutte le altre. Ma come ha scritto il neuroscienziato statunitense Erik Hoel «per qualsiasi nuova idea o teoria, puoi sempre trovare qualcun altro che ha detto qualcosa di simile, almeno abbastanza da far sì che alcuni possano potenzialmente indignarsi». L’unica ragione per cui la maggior parte della produzione intellettuale non è oggetto di una ricerca a tappeto di eventuali contenuti simili già pubblicati, secondo Hoel, è che questo lavoro richiede tempo ed energia, e restituisce nella maggior parte dei casi risultati poco interessanti.

In tempi recenti questo tipo di lavoro di revisione è stato tuttavia semplificato e reso più fattibile da un più esteso accesso alle informazioni, sostanzialmente illimitato, e dalla disponibilità di algoritmi e software di intelligenza artificiale sempre più sofisticati. Programmi di rilevamento anti-plagio come iThenticate, la cui società produttrice collabora con istituzioni ed editori fornendo i propri strumenti in cambio dell’accesso alle biblioteche delle riviste scientifiche, permettono di revisionare grandi quantità di dati più rapidamente di qualsiasi revisore umano o comitato di revisione. È praticamente inevitabile, ha scritto Hoel, che chi scrive centinaia di articoli scientifici con decine o centinaia di coautori finisca per scrivere o anche citare qualcosa che il software descriverà come un plagio.

Lauran Qualkenbush, presidente della Association of Research Integrity Officers, un’associazione nazionale con sede a Chicago, ha spiegato a Nature che la decisione su quando e come utilizzare software come iThenticate spetta di solito a professori, istituzioni e agenzie, e non esiste una prassi condivisa. La National Science Foundation (NSF) li utilizza per valutare tutte le richieste di sovvenzione, per esempio, e molte riviste scientifiche per verificare i manoscritti che ricevono. Ogni valutazione finale dipende però da variabili contestuali. Per essere considerata un plagio dalla NSF occorrono prove che una certa condotta fosse «intenzionale, consapevole o sconsiderata», ha detto Qualkenbush, o che rappresenti un «significativo allontanamento dalle pratiche accettate» nella disciplina pertinente.

Questo modo di analizzare quantitativamente e non qualitativamente il lavoro di colleghi e colleghe, ha scritto Hoel, che per fare un test ha fatto ricerche approfondite su un articolo dello psicologo Steven Pinker, fa «abbastanza accapponare la pelle». «I libri sono cose grandi e complicate da pubblicare e diffondere, difficili in modi che coloro che non l’hanno mai fatto non comprendono appieno», ha scritto. Hoel ipotizza che sulla base di analisi automatizzate la produzione accademica totale di Gay risulti plagiata per lo 0,1 per cento, o qualcosa del genere. Ma qualunque sia la percentuale accettabile, bisogna mettere in conto che per qualsiasi ricercatore o ricercatrice sarà sempre «diversa da zero».

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In un contesto estremamente polarizzato come quello della politica statunitense esiste inoltre la possibilità che accada col plagio una cosa simile a quella accaduta con le fake news, ha scritto sull’Atlantic il giornalista Charlie Warzel. I risultati facilmente ottenibili da un propagandista tramite software anti-plagio possono essere condivisi come screenshot sui social network per sostenere accuse diffamatorie, danneggiando la reputazione di avversari politici prima di qualsiasi eventuale indagine più approfondita e accurata. La «guerra sul plagio» potrebbe quindi seguire la traiettoria dell’espressione fake news durante le elezioni presidenziali del 2016 e i primi giorni della presidenza di Donald Trump.

Inizialmente utilizzata per descrivere una sorta di produzione industriale (e redditizia) di informazioni faziose, false o poco accurate da parte di siti e pagine di social media strutturati come siti di news attendibili, l’espressione fake news diventò in poco tempo uno strumento retorico. Poco più di un mese dopo essere stato eletto, il presidente Trump impedì al giornalista della CNN Jim Acosta di porre una domanda in una conferenza stampa definendo «fake news» lui e la rete per cui lavorava. E “fake news” diventò uno slogan, utilizzato per respingere qualsiasi notizia non gradita. «Ciò che era cominciato come un tentativo legittimo di scoprire un’operazione di disinformazione digitale è stato cooptato da attori politici in malafede per screditare un mezzo di informazione che vedevano come una forza minacciosa e di opposizione», ha scritto Warzel.

Gli strumenti e le misure anti-plagio, più o meno come il fact-checking nel caso delle fake news, permettono alle istituzioni accademiche di far rispettare le norme e ottenere la fiducia delle persone che ci lavorano e che fruiscono di un lavoro condiviso. Ma queste stesse politiche pensate come «un baluardo contro la disonestà sono state utilizzate da persone che desiderano smantellare o vendicarsi di quelle organizzazioni», ha scritto Warzel. Come mostra l’esempio di Gay, per quanto efficaci e popolari sui social, gli screenshot dei presunti plagi possono indicare casi molto più sfumati di quanto gli screenshot suggeriscano. E infatti c’è disaccordo sulla gravità e l’intenzionalità delle violazioni delle regole da parte di Gay.

La fissazione per il plagio potrebbe portare a una situazione in cui la parola stessa diventa priva di significato. Come avvenuto per le fake news, una stessa parola è stata utilizzata da organi di informazione attendibili per descrivere bugie e scandali, ma anche da politici faziosi per creare un universo parallelo di informazioni e fatti alternativi. In definitiva, conclude Warzel, «più le persone leggeranno la parola plagio, meno se ne preoccuperanno», a scapito della qualità e del valore della ricerca accademica e del discorso pubblico.

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