La tattica di Meloni per ottenere di più in Europa non ha funzionato

La sua «logica di pacchetto» doveva servire a usare la ratifica del MES come leva per ottenere altro, ma le è andata male

Meloni sul palco di Atreju, il raduno nazionale di Fratelli d'Italia a Roma, il 16 dicembre 2023 (Alessandra Tarantino/AP Photo)

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Meloni sul palco di Atreju, il raduno nazionale di Fratelli d'Italia a Roma, il 16 dicembre 2023 (Alessandra Tarantino/AP Photo) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

Per mesi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha parlato di «logica di pacchetto», in particolare per giustificare i numerosi rinvii di governo e maggioranza parlamentare sulla ratifica della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Il MES è un fondo europeo che garantisce assistenza finanziaria ai paesi membri che pur avendo un debito pubblico sostenibile si trovino in difficoltà momentanea nel finanziarsi sul mercato. Dei 20 paesi che aderiscono al MES, l’Italia è l’unico a non aver ratificato la riforma del trattato, e questo impedisce la sua entrata in vigore effettiva.

La riluttanza del governo su questo argomento deriva da una contrarietà storica e pregiudiziale dei partiti di destra al MES, alimentata per anni attraverso una propaganda piuttosto aggressiva che lo descriveva come uno strumento di ricatto dei burocrati europei, ma anche di Francia e Germania nei confronti dell’Italia. Il governo, in particolare Giorgia Meloni e il suo partito, Fratelli d’Italia, non poteva permettersi di approvare la riforma del MES senza rinnegare tutta quella propaganda del passato, quindi i tatticismi e i rinvii messi in atto dalla maggioranza per non votare la ratifica del MES sono stati giustificati proprio alla luce di questa «logica di pacchetto».

Il ragionamento alla base è grossomodo questo: ci sono tante discussioni in corso in Europa sulle materie economiche e fiscali, e l’Italia avanza rivendicazioni e proposte che altri paesi non vogliono accettare. Allora, per avere un maggiore peso negoziale in queste trattative, bisogna rinviare la ratifica del MES finché non verranno accolte alcune delle nostre richieste, chiedendo in sostanza alcune cose in cambio di una ratifica del MES da calendarizzare al parlamento italiano una volta ottenute le misure richieste.

La ratifica del MES era insomma un po’ un’arma di ricatto, secondo il racconto del governo, per potere contare di più in Europa. Il tutto nonostante le istituzioni europee negli ultimi mesi abbiano sollecitato più volte l’Italia a procedere, con toni sempre più spazientiti.

In un intervento fatto alla Camera il 28 giugno scorso dai toni particolarmente critici contro l’Europa, Meloni aveva rivendicato che la mancata ratifica del MES serviva per «difendere al meglio possibile l’interesse nazionale italiano». Si era rivolta ai deputati delle opposizioni così: «Ha senso che noi procediamo a una ratifica senza conoscere quale sia il contesto, senza conoscere come lo strumento del quale stiamo dibattendo si inserisce nella logica più generale, senza sapere qual è la riforma della governance del Patto di stabilità, senza sapere che cosa è accaduto […] su mille questioni che sono aperte e che secondo me è corretto porre sul tavolo nella loro completezza?».

Alcuni giorni dopo, il 5 luglio del 2023, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva ribadito lo stesso concetto: «L’approccio olistico o cosiddetto “a pacchetto” che comprende anche la revisione del Patto di crescita e di stabilità evocato anche con riguardo al dibattito sul MES non rappresenta, quindi, una tattica negoziale ma una logica esigenza di natura strategica a difesa dell’interesse nazionale», aveva detto intervenendo all’assemblea dell’Associazione bancaria italiana (ABI).

Dunque l’obiettivo della «logica a pacchetto» era soprattutto arrivare a un buon accordo sul nuovo Patto di stabilità, ma adesso che questo accordo è stato raggiunto si può dire che l’obiettivo sia stato sostanzialmente mancato, o che almeno il governo non abbia ottenuto tutto ciò che voleva.

Il Patto di stabilità e crescita è l’insieme delle regole fiscali e di bilancio che gli stati membri dell’Unione Europea devono rispettare nel definire le proprie politiche economiche. L’accordo, entrato in vigore nel 2011, era stato sospeso nel marzo del 2020 in seguito alla diffusione della pandemia da coronavirus, per consentire di spendere e indebitarsi in via straordinaria contrastando l’emergenza. Questa sospensione si era prolungata anche nel 2022 e nel 2023, ma con l’intesa di approvare una riforma generale del Patto che potesse poi entrare in vigore a partire dal 2024.

Il commissario europeo Paolo Gentiloni col vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis: i due promotori della riforma del Patto di stabilità (Olivier Matthys/AP PHOTO)

I negoziati erano entrati nella fase decisiva a partire da aprile scorso, quando la Commissione Europea aveva presentato una sua proposta di riforma delle regole. Era una proposta abbastanza avanzata, che rendeva le trattative tra i singoli Stati membri e le istituzioni europee meno rigide e più politiche, e ridimensionava di molto la rilevanza di alcuni parametri macroeconomici (deficit, debito pubblico) per limitare le spese dei paesi più indebitati. Nel complesso la proposta aveva trovato un consenso tra alcuni dei paesi più ostili alle politiche di rigore e cosiddetta austerity, come Francia e Spagna, mentre fu subito criticato dalla Germania, che di quelle politiche di rigore è da sempre la principale sostenitrice.

Pur essendo a sua volta tendenzialmente ostile all’austerity, il governo italiano aveva deciso di contestare quell’impianto ed essere tra i primi a invocarne una modifica, in maniera un po’ inaspettata. Alla base c’era evidentemente una ragione di politica interna. Uno dei due estensori della proposta era il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni, che è un importante esponente del Partito Democratico, dunque all’opposizione rispetto alla coalizione di destra che sostiene Meloni.

In secondo luogo, il governo italiano era convinto di potere ottenere maggiori concessioni soprattutto sul trattamento privilegiato delle spese per gli investimenti strategici, la cosiddetta golden rule: Meloni chiedeva in questo caso di escludere dal computo del deficit le spese sostenute per finanziare i progetti sulla Difesa e sulla transizione ecologica e digitale, così da aggirare i vincoli di bilancio imposti. Il deficit è infatti il disavanzo accumulato in un singolo anno, cioè la parte di uscite che eccede rispetto a quella delle entrate nel bilancio di un paese.

È una richiesta che molti governi italiani di diverso orientamento politico hanno provato a far valere negli anni, senza successo. Ma stavolta Meloni e Giorgetti vantavano appunto un’arma negoziale in più, secondo la loro versione: la ratifica del MES. L’Italia sta infatti bloccando da sola la ratifica definitiva del nuovo MES, richiesta dagli altri 19 paesi aderenti che già hanno confermato il proprio consenso.

Mercoledì scorso, al termine di una videoconferenza dei ministri dell’Economia e delle Finanze dei 27 stati membri dell’Unione Europea, si è concluso il negoziato sul Patto di stabilità. Nessuna delle ambiziose richieste dal governo Meloni sullo scorporo degli investimenti strategici è stata inserita nelle nuove regole fiscali europee. All’Italia sono state riconosciute concessioni in termine di spesa per gli investimenti molto più limitate. Ma soprattutto, rispetto alla proposta iniziale della Commissione Europea, sono tornati ad avere una notevole rilevanza i parametri sul controllo del debito e del deficit, in sintonia con le richieste più rigide fatte dalla Germania.

Il ministro Giorgetti impegnato nella videoconferenza per definire l’accordo sul Patto di stabilità (foto del ministero dell’Economia)

Lo stesso Giorgetti ha parlato dell’accordo in un comunicato con un tono piuttosto dimesso, in cui ha riconosciuto che «ci sono alcune cose positive e altre meno». Il comunicato di Meloni è stato ancora meno entusiasta: «Rimane il rammarico per la mancata automatica esclusione delle spese in investimenti strategici dall’equilibrio di deficit e debito da rispettare».

Questo atteggiamento è abbastanza insolito: di solito i governi tendono a rivendicare i risultati ottenuti nei negoziati europei, per magnificare il proprio operato di fronte agli elettori. Quindi può sembrare che Giorgetti e Meloni abbiano fatto una sorta di esercizio di realismo e onestà intellettuale, ma dall’altro lato la loro è anche l’ammissione di una sconfitta da cui soprattutto Giorgetti, che come ministro dell’Economia ha trattato in prima persona in Europa, esce fortemente ridimensionato e delegittimato. Soprattutto, la delusione dimostrata dal governo dimostra l’inefficacia della tattica negoziale fondata sulla «logica di pacchetto».

Il giorno dopo l’approvazione del nuovo Patto di stabilità, cioè giovedì, la maggioranza di destra ha respinto alla Camera la proposta di legge per la ratifica del MES avanzata da Partito Democratica e Italia Viva: una specie di ribaltamento dei principi alla base della «logica di pacchetto». Quindi non più utilizzare la mancata ratifica del MES per ottenere successi sul Patto di stabilità, ma rifiutarsi di ratificare il MES come risposta al mancato successo sul Patto di stabilità. La contraddizione è stata fatta notare da diversi deputati di opposizione alla Camera.

I negoziati fatti con la «logica di pacchetto» di Meloni non avrebbero dovuto portare risultati solo sul Patto di stabilità. C’erano infatti altre trattative che riguardavano importanti nomine nei posti dirigenziali di alcune istituzioni bancarie e finanziarie europee. In particolare due.

Era in scadenza il mandato dell’italiano Andrea Enria come presidente del Consiglio di vigilanza della Banca centrale europea (BCE), un organo molto importante che contribuisce a definire le politiche della BCE per la tutela e la salvaguardia del sistema bancario europeo. E poi scadeva anche il mandato del tedesco Werner Hoyer come presidente della Banca europea per gli investimenti (BEI), l’istituto di credito che eroga prestiti a condizioni agevolate per finanziare progetti in linea con gli obiettivi dell’Unione Europea.

L’ex ministro dell’Economia Daniele Franco, a destra, insieme a Mario Draghi, a sinistra (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Era molto difficile che l’Italia potesse ottenere di nuovo la guida del Consiglio di vigilanza, e infatti il Consiglio dell’Unione Europea ha nominato la tedesca Claudia Buch senza che di fatto l’Italia neppure provasse a sostenere un proprio candidato. Nel caso della BEI invece c’erano ottime possibilità per il candidato italiano, Daniele Franco, ministro dell’Economia nel governo di Mario Draghi.

Negli ultimi mesi, però, ha preso sempre più consistenza la candidatura della ministra delle Finanze spagnola, Nadia Calviño. Giorgetti si è speso molto per Franco. Ha chiesto ufficialmente il sostegno della Germania, e quando ha capito che Calviño era ormai in vantaggio, a inizio dicembre, ha anche tentato di contestarne la candidatura puntando sul fatto che fosse una personalità dal chiaro orientamento politico, essendo la vicepresidente del governo socialista di Pedro Sanchez. Ma l’Ecofin, cioè la riunione di tutti i ministri dell’Economia e delle Finanze europei che doveva votare su questa nomina, l’8 dicembre scorso ha scelto proprio Calviño. L’Ecofin è lo stesso organismo che ha definito mercoledì scorso il negoziato sul Patto di stabilità.

È andata meglio con un’altra nomina, quella per il Consiglio direttivo della Banca centrale europea, il principale organo decisionale della BCE. Oltre ai governatori delle varie banche centrali nazionali ne fanno parte sei membri fissi. Fino a novembre tra questi c’era l’economista italiano Fabio Panetta, che però ha dovuto dimettersi perché scelto dal governo italiano come nuovo governatore della Banca d’Italia. Bisognava dunque individuare un suo sostituto alla BCE: era molto probabile che spettasse all’Italia quell’incarico, ma comunque non scontato. A metà ottobre il Consiglio europeo ha nominato Piero Cipollone.