Perché l’Italia è l’unico paese a non aver ancora approvato la riforma del MES

Per anni è stato avversato soprattutto da Lega e Fratelli d'Italia, che ora però sono al governo e non sanno bene come uscirne

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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Il prossimo 30 giugno il parlamento dovrà votare la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), un’istituzione europea che ha lo scopo di aiutare i paesi dell’Eurozona in difficoltà economica. La riforma è stata approvata già da tempo a livello europeo e tutti i paesi interessati hanno concluso il procedimento di ratifica parlamentare tranne l’Italia, e per questo le istituzioni europee stanno facendo pressioni sul governo italiano affinché provveda alla ratifica, dato che sta sostanzialmente bloccando l’entrata in vigore della riforma. In questi giorni il parlamento era impegnato nella discussione in Commissione Esteri, in cui però sono emerse difficoltà soprattutto all’interno della maggioranza che compone il governo, che non sa bene come gestire questo voto per motivi politici.

Con l’eccezione di Forza Italia, in passato i partiti che compongono l’attuale maggioranza si sono espressi più volte contro la riforma del MES e contro lo strumento stesso, in sintesi perché ritenuto un opprimente meccanismo burocratico europeo che avrebbe limitato la libertà dei singoli paesi di compiere in autonomia le loro scelte in ambito economico. In realtà è una materia molto tecnica, soprattutto quest’ultima riforma, ma in Italia il dibattito intorno ha assunto risvolti politici che si stanno rivelando complicati per la maggioranza e per il governo di Giorgia Meloni.

In particolare i problemi per l’Italia sono su due fronti, quello europeo e quello interno: da una parte non approvare la riforma rischia di mettere il governo in una posizione difficile con le istituzioni europee; dall’altra la maggioranza parlamentare potrebbe avere delle difficoltà nell’iter di approvazione in aula.

Per quanto riguarda la questione europea, il governo sta tentando di prendere tempo e di ritardare il più possibile il voto definitivo sulla ratifica della riforma per concludere prima due negoziati importanti e delicati che sono in corso con le istituzioni europee: quello per lo sblocco delle rate del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, e quello per la riforma delle regole europee sui bilanci, il cosiddetto Patto di stabilità. Nel frattempo però la presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, ha detto durante una conferenza stampa che «sarebbe un bene» se l’Italia ratificasse la riforma dopo anche le «ricorrenti richieste da parte dell’Eurogruppo».

La questione di politica interna riguarda invece le visioni sul MES che hanno i diversi partiti che compongono la maggioranza: Fratelli d’Italia e Lega sono da sempre contrari sia alla riforma che al MES in generale; Forza Italia ha posizioni più morbide e favorevoli, più vicine a quelle del Partito Democratico e di Azione-Italia Viva.

Il governo di Giorgia Meloni inizialmente aveva detto di aspettare la decisione della Corte Costituzionale tedesca su un ricorso che avrebbe potuto far saltare l’approvazione della riforma da parte della Germania, ma è stato respinto e da dicembre l’Italia è rimasto l’unico paese a bloccare l’entrata in vigore della riforma. Da allora però i toni del ministro dell’Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, e della stessa Meloni si sono molto attenuati. Durante un’intervista a Porta a Porta Meloni aveva detto che «se rimaniamo gli unici che non approvano la riforma blocchiamo anche gli altri» e che «ne discuterà eventualmente il parlamento».

La Commissione Esteri sta esaminando in questi giorni due disegni di legge di approvazione della riforma proposti da Partito Democratico e Azione-Italia Viva, che dovrebbero poi essere votati il 30 giugno. Nella speranza di prendere ancora tempo, la maggioranza aveva chiesto un parere motivato sulla riforma da parte del ministero dell’Economia, forse con la speranza di ottenere un rapporto che esprimesse perplessità sostanziali e permettesse ai partiti di non affrontare direttamente la questione.

Tuttavia mercoledì il capo di gabinetto del ministero ha dato un parere che in sintesi si dichiara favorevole, in cui dice che «dalla ratifica del suddetto accordo non discendono nuovi o maggiori oneri» per la finanza pubblica e che la riforma non prevede «modifiche tali da far presumere un peggioramento del rischio».

La vicenda ha provocato un certo imbarazzo al governo, soprattutto perché ha mostrato una distanza tra Giorgetti e il partito di cui fa parte. La Lega infatti aveva proposto di votare subito in modo contrario ai due testi dell’opposizione, ma alla fine la seduta è stata rinviata a giovedì, quando la maggioranza si è tolta dall’impaccio non partecipando alla votazione. La Commissione Esteri ha dunque approvato il testo di ratifica della riforma con i soli voti di Partito Democratico, Azione-Italia Viva e Alleanza Verdi Sinistra. Il Movimento 5 Stelle si è astenuto.

Il testo passerà all’esame della Commissione Bilancio per un parere per poi tornare nei prossimi giorni all’esame della Commissione Esteri, dove sarà votato il mandato al relatore del testo. Il 30 giugno infine inizierà la discussione del disegno di legge alla Camera.

Il MES è un’organizzazione intergovernativa tra i paesi che hanno l’euro e che si trovano in seria difficoltà economica. È una componente molto importante dell’unione monetaria: serve a mettere in comune il denaro di tutti e a utilizzarlo in caso di necessità, visto che all’interno di una stessa zona monetaria i problemi di un paese possono ripercuotersi sugli altri.

Tutti i paesi dell’Eurozona contribuiscono a finanziare il MES e possono chiedere il suo aiuto. Per riceverlo bisogna accettare un piano di riforme la cui applicazione sarà sorvegliata dalla cosiddetta “Troika”, il comitato costituito da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. Il piano di riforme di solito prevede misure molto impopolari come tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, liberalizzazioni e una modifica alle leggi sul lavoro per renderlo più “flessibile”, per rendere sostenibili i conti pubblici. Fino a oggi Grecia, Cipro, Portogallo e Irlanda hanno adottato programmi di aiuto del MES durante la crisi dei debiti sovrani del 2011-2012.

Proprio questi impegni, spesso difficili da giustificare di fronte all’opinione pubblica, sono la ragione principale per cui il MES veniva descritto dai partiti di destra (e anche dal Movimento 5 Stelle) come qualcosa da evitare a tutti i costi, pena una cessione di sovranità economica insostenibile per il paese.

Durante i primi mesi della pandemia era stata attivata una speciale linea di credito del MES per finanziare a tassi vantaggiosi le sole spese sanitarie dei paesi che ne avessero fatto richiesta, per un ammontare massimo del 2 per cento del PIL e senza bisogno di prendere alcun impegno su riforme impopolari. Nonostante i prestiti non avessero condizioni, anche in quel caso si era parlato del MES negli stessi termini.

Il MES ha un capitale di 704,8 miliardi di euro, di cui 80,5 sono stati già versati dagli stati. L’Italia ha sottoscritto il capitale del MES per 125,3 miliardi, versandone più di 14. Le decisioni all’interno dell’organizzazione sono prese da un consiglio composto dai ministri delle Finanze dei paesi che adottano l’euro, e che si assume all’unanimità tutte le principali decisioni, come dare gli aiuti economici ai paesi che ne fanno richiesta e approvare le condizioni a cui vengono dati i prestiti.

I diritti di voto dei membri del consiglio sono proporzionali al capitale sottoscritto dai rispettivi paesi, e nei casi di estrema urgenza, come in caso di pericolo per la stabilità finanziaria dell’Eurozona, il MES può decidere anche solo con la maggioranza qualificata dell’85 per cento. Il voto di Germania, Francia e Italia pesa per più del 15 per cento e quindi ciascuno dei tre paesi può porre il proprio veto anche sulle decisioni prese in condizioni di urgenza.

Il MES è operativo dal 2012 e il parlamento italiano deve votare una riforma sul suo funzionamento, non richiedere un aiuto economico.

La riforma prevede due cambiamenti non indifferenti. Innanzitutto verrebbe istituito un Fondo di risoluzione unico per aiutare le banche europee più in difficoltà, finanziato dalle stesse banche europee con una disponibilità da 55 miliardi di euro che potrebbero servire per esempio per garantire i conti correnti degli istituti in crisi.

Un altro cambiamento è l’introduzione di un obbligo per un paese che chiede aiuto al MES di emettere specifici titoli di stato con una clausola, definita “single limb CAC”, che permetterebbe al paese di restituire meno di quello che deve ai suoi creditori: nei casi di paesi in gravissima crisi è un bene perché potrebbero riprendersi con più facilità evitando il collasso. Ma c’è anche il timore che i futuri investitori, sapendo di questa possibilità, finiscano per chiedere interessi più alti ai paesi che percepiscono più a rischio, come l’Italia.

Tutti i paesi dell’Eurozona sono risultati favorevoli alla riforma perché garantirebbe un ulteriore strumento di gestione delle crisi bancarie: quando a febbraio era iniziata la crisi delle banche statunitensi una delle principali preoccupazioni era che se si fosse estesa al sistema bancario europeo non ci sarebbe stato uno strumento collettivo ed europeo di assicurazione dei depositi. Negli Stati Uniti questo strumento esiste e ha garantito una gestione tempestiva della crisi, mentre nell’Eurozona non c’è perché la riforma del MES è bloccata.

Della riforma del MES si parla dal 2018. Per buona parte del 2019 fu bloccata a livello europeo dal primo governo di Giuseppe Conte, quello sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, nonostante i principi su cui si basava il testo fossero stati approvati dai capi di governo europei, Conte compreso, nel dicembre del 2018 e i dettagli fossero poi stati approvati a giugno del 2019. Poi a gennaio del 2021 il trattato di riforma del MES venne firmato da tutti i membri dell’Eurogruppo, compresa l’Italia, che in quel momento stava attraversando la crisi di governo che avrebbe portato alla fine del secondo governo Conte e alla nascita di quello di Mario Draghi. Da lì tutti gli stati tranne l’Italia hanno poi provveduto a ratificarlo.

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