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  • Martedì 21 novembre 2023

Il Partito Comunista Cinese ha idee reazionarie sulle donne

Con l'arrivo di Xi Jinping la leadership cinese (tutta maschile) insiste sul loro ruolo di madri e mogli, in contrasto con il passato

(AP Photo/Andy Wong)
(AP Photo/Andy Wong)

Negli ultimi anni la dirigenza del Partito Comunista Cinese (PCC), che governa la Cina in maniera dittatoriale, sta adottando una posizione sempre più tradizionalista e reazionaria sul ruolo delle donne. L’atteggiamento conservatore sulle questioni di genere si è approfondito in Cina con l’ascesa al potere di Xi Jinping, ed è ritenuto tra le altre cose un maldestro tentativo di rispondere alla crisi demografica sempre più profonda che sta affrontando il paese.  Da circa un decennio in Cina si sono affermate politiche sociali e culturali che mirano a promuovere un’immagine tradizionale delle donne cinesi come mogli e madri, spesso a scapito della loro emancipazione lavorativa ed economica, ma negli ultimi mesi questo processo ha avuto un’ulteriore accelerazione.

La leadership comunista ha ribadito la sua posizione reazionaria sul ruolo delle donne anche nelle ultime settimane, in occasione del Congresso nazionale delle donne organizzato dalla Federazione nazionale cinese delle donne (un organismo controllato dal partito). Durante il Congresso, che si è tenuto a fine ottobre, gli importanti leader politici (maschi) che hanno partecipato hanno ribadito una visione decisamente tradizionalista del ruolo della donna, anche in contrasto con dichiarazioni e posizioni politiche prese negli anni precedenti.

Per esempio, nel discorso inaugurale del vicepremier Ding Xuexiang si è omesso di ripetere la formula standard sull’uguaglianza di genere come «fondamentale politica nazionale del governo cinese» che a partire dagli anni Novanta era stata ripetuta all’inizio di ogni Congresso. Al contrario, invece, Ding ha esortato la Federazione a «stabilire una prospettiva corretta su matrimonio, amore, natalità e famiglia» (cioè la prospettiva della cosiddetta “famiglia tradizionale”).

Questo linguaggio è molto diverso da quello usato in passato. Lo stesso Xi Jinping durante il precedente congresso del 2018 aveva incoraggiato ad «aiutare le donne a gestire meglio il rapporto tra famiglia e lavoro», mentre quest’anno, alla chiusura del Congresso, ha detto che le politiche per le donne non riguardano solo lo sviluppo delle donne stesse, ma anche «l’armonia famigliare e sociale, così come lo sviluppo e il progresso nazionale». In pratica, ha detto Xi, l’autonomia delle donne deve essere subordinata alle esigenze (soprattutto demografiche) dello stato. Xi ha inoltre esortato a «coltivare una nuova cultura del matrimonio e della fertilità», oltre che a «rafforzare l’orientamento delle vedute dei giovani in tema di matrimonio, natalità e famiglia»: tutti argomenti piuttosto tradizionalisti.

I membri del Comitato permanente del Partito Comunista, il principale organo di potere in Cina (AP Photo/Ng Han Guan)

La crisi demografica della Cina
Secondo molti esperti, la ragione principale di questo atteggiamento sempre più reazionario e tradizionalista nei confronti delle donne da parte del Partito Comunista è la crisi demografica che la Cina sta affrontando da tempo. Davanti al calo delle nascite, la leadership (tutta maschile) del Partito sta adottando una retorica e un atteggiamento simili a quelli di molti regimi di estrema destra in Occidente e non solo.

La crisi demografica cinese ha origini piuttosto lontane. A partire dal 1979, con l’introduzione della politica del figlio unico, la società cinese ha intrapreso un percorso di radicale riforma sociale che per molti versi è stata una precondizione del sorprendente sviluppo economico osservato negli ultimi decenni. D’altra parte, però, questa politica famigliare ha depresso la natalità in modo rilevante, esponendo così la Cina al rischio di un invecchiamento prematuro.

Gli effetti di questo problema demografico sono già visibili in Cina, dove l’anno scorso la popolazione è calata per la prima volta in sei decenni. Il picco demografico raggiunto alla fine del 2021 ha registrato nel paese 1.412,6 milioni di abitanti mentre il numero un anno dopo era sceso a 1.411,8 milioni: con 9,56 milioni di nuovi nati e 10,41 milioni di decessi, la popolazione cinese nel 2022 è diminuita di circa 850.000 persone.

La tendenza più preoccupante è la mancanza di nuove nascite, che negli ultimi anni hanno subìto un calo. Sebbene in diminuzione rispetto al decennio precedente, tra il 2003 e il 2015 il numero di neonati era rimasto stabile attorno ai 16 milioni l’anno, con un picco di 17,86 milioni registrato nel 2016. Da quel momento però la curva delle nascite si è inclinata drasticamente e l’anno scorso per la prima volta è scesa sotto la soglia dei 10 milioni l’anno. Le prospettive per l’anno in corso sono poco incoraggianti: secondo Qiao Jie, a capo del Health Science Center all’Università di Pechino, quest’anno il numero di neonati potrebbe addirittura scendere a 7-8 milioni. Altre proiezioni però sono più ottimiste e ritengono che la cifra nei prossimi anni potrebbe stabilizzarsi attorno ai 10 milioni.

Il governo ha adottato diverse misure per contrastare questa crisi. Nel 2016 fu abolita la politica del figlio unico, permettendo ai cittadini della Repubblica popolare di avere fino a due figli, mentre nel 2021 il limite è stato alzato a tre figli. Oltre all’allentamento delle restrizioni (che in alcuni casi le amministrazioni locali si sono pure spinte a cancellare del tutto), Pechino ha promosso programmi di sostegno economico per le coppie intenzionate ad avere figli. Tuttavia le misure attuate, come i tagli fiscali, i sussidi statali o il prolungamento del periodo di maternità, non hanno avuto l’effetto sperato.

Ci sono diversi motivi per cui i giovani cinesi non fanno figli. Il primo, nonostante gli aiuti economici, ha a che fare con i costi elevati che comporta crescere un bambino in Cina: le ingenti spese per l’istruzione e la scarsità di servizi per la cura dei neonati sono due elementi importanti che dissuadono le coppie cinesi. Il secondo si collega invece ai cambiamenti sociali: se alcune persone hanno deciso di rimandare al futuro decisioni personali importanti come quelle di sposarsi o mettere su famiglia (soprattutto nel generale clima di incertezza vissuto in Cina negli ultimi anni), per una parte della popolazione invece si tratta di un progetto di vita che non prevede la genitorialità.

Tuttavia secondo He Dan, direttrice del China Population and Development Research Center, una parte della responsabilità va imputata anche a strategie pubbliche sbagliate, soprattutto a livello di amministrazioni locali. Concentrandosi sul sostegno alle famiglie con un secondo o terzo figlio, i funzionari locali hanno spesso mancato di incoraggiare le persone ad avere il primo figlio e contribuito involontariamente a deprimere il tasso generale della fertilità.

La campagna per i valori familiari
Le politiche a favore della natalità si collocano in questo contesto di crisi demografica. Per contrastare il basso numero di nascite il PCC negli ultimi anni ha promosso una campagna che si sviluppa anche sul piano culturale, e che cerca di influenzare le norme e i valori sociali che ruotano attorno al matrimonio, alla famiglia e alla genitorialità. Spesso la campagna ha cercato di alleggerire la pressione sociale che comporta in Cina la creazione di una famiglia: alcune delle direttive emanate dal Comitato centrale del PCC nel 2021, ad esempio, premono per contrastare pratiche ormai obsolete e problematiche come quella della dote.

D’altra parte, però, il Partito Comunista ha cercato di recuperare soprattutto valori e immagini tradizionali riguardanti la famiglia. In maniera ormai sistematica la dirigenza cinese approccia la questione dei ruoli di genere con un atteggiamento paternalistico, in cui le scelte individuali sono sottomesse all’esigenza politica di contrastare la crisi demografica.

Di pari passo con il rilancio dei valori famigliari conservatori c’è stata anche la repressione delle voci femminili progressiste. Negli ultimi anni sui social media cinesi sono stati chiusi diversi profili femministi o che semplicemente cercavano di difendere i diritti delle donne: esempio ne è il movimento #MeToo, che in Cina aveva raggiunto una certa diffusione e aveva consentito di scoprire numerosi casi di abusi sessuali, ma è stato rapidamente soppresso dalle autorità.

Anche dal punto di vista simbolico, la presenza delle donne cinesi ai massimi livelli del partito è sempre stata molto risicata e recentemente anche questa minima rappresentanza è stata bruscamente interrotta. A partire dal 1997 all’interno del Politburo del PCC (uno dei principali organi di governo del Partito) c’era sempre stata almeno una donna tra i suoi circa 25 membri: l’anno scorso durante il 20esimo Congresso del partito tutti i posti disponibili sono stati assegnati a uomini.

Il discorso cinese sulle donne
La questione di genere in Cina ha conosciuto vicende alterne. L’emancipazione femminile dal ruolo subalterno che era assegnato alle donne nella società tradizionale cinese è stato un elemento centrale della rivoluzione socialista intrapresa da Mao Zedong dopo la fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949. Già nella prima Costituzione promulgata dalla Repubblica popolare nel 1954 venivano espressamente sanciti gli uguali diritti di donne e uomini “in tutte le sfere della vita politica, economica, culturale, sociale e domestica”.

Le politiche per l’inclusione socio-economica delle donne e per l’uguaglianza di genere, promosse con lo slogan «le donne sorreggono la metà del cielo», vennero applicate in modo strumentale all’edificazione di una società socialista, e questo comportò alcuni avanzamenti reali e altri più legati alle necessità di propaganda del governo.

Per anni, la condizione delle donne nella società cinese rimase piuttosto buona se paragonata ad altri paesi in via di sviluppo, ma il potere politico ed economico è comunque sempre rimasto in mano agli uomini.

Con le riforme di mercato e la graduale liberalizzazione economica cominciata alla fine degli anni Ottanta, molte politiche statali a sostegno della parità di genere subirono un graduale indebolimento. Sebbene dal punto di vista dell’istruzione e dell’accesso alla salute le donne cinesi negli ultimi decenni abbiano conosciuto un notevole miglioramento, per quanto riguarda l’aspetto occupazionale e il benessere economico la disparità tra uomini e donne in Cina si è approfondita. Oggi la Cina si colloca alla 48esima posizione nella classifica del Gender Inequality Index stilata dalle Nazioni Unite, una classifica in cui l’Italia è 13esima (l’indice misura la diseguaglianza, la classifica parte dai valori più bassi).