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  • Venerdì 4 novembre 2022

Xi Jinping ha cambiato la Cina

Come pochissimi altri leader prima di lui, e in una direzione che quasi nessuno si sarebbe aspettato quando salì al potere dieci anni fa

di Guido Alberto Casanova

Xi Jinping (Nicolas Asfouri-Pool/Getty Images)
Xi Jinping (Nicolas Asfouri-Pool/Getty Images)

Xi Jinping è di gran lunga il leader più influente della storia recente della Cina. Fin dall’inizio del suo incarico, ormai dieci anni fa, il presidente e segretario generale del Partito comunista cinese (PCC) ha fatto capire che il suo non sarebbe stato un mandato come gli altri, e oggi tutti gli analisti concordano sul fatto che i primi dieci anni del suo mandato hanno cambiato la Cina in maniera radicale.

Più che un incarico politico, per Xi Jinping questo cambiamento è una missione storica che prende tanti nomi. Sogno cinese, ringiovanimento nazionale, modernizzazione socialista, prosperità comune. Tante formule e tanti slogan che alla fine esprimono un solo desiderio, quello di rendere la Cina nuovamente ricca e potente, portando il paese verso una nuova era di rispetto a livello internazionale. Ma per ottenere il cambiamento che cerca, Xi Jinping si è anche assunto dei rischi, ha cambiato norme che garantivano la stabilità del paese da decenni, ha limitato libertà e diritti e modificato notevolmente l’orientamento della Cina in politica estera.

Più rosso del rosso
Xi Jinping nacque nel 1953 in una famiglia di grande prestigio all’interno del sistema comunista. Suo padre era Xi Zhongxun, che aveva combattuto a fianco di Mao Zedong durante la guerra civile tra comunisti e nazionalisti ed era stato uno dei fondatori della Cina attuale. Nonostante la rigida disciplina impartita dal padre per evitare che i figli si adagiassero sui propri privilegi, Xi è cresciuto all’interno della cosiddetta aristocrazia di partito affermatasi a Pechino dopo l’instaurazione del regime comunista. Xi è quindi quello che spesso viene definito un “principino rosso”, cioè uno dei discendenti dei primi grandi leader rivoluzionari, che in quanto tale ha goduto di privilegi e benefici.

Nonostante questo, durante gli anni burrascosi del maoismo Xi e la sua famiglia dovettero sopportare violenze e umiliazioni. Il padre di Xi venne prima estromesso dal partito in una grande purga organizzata da Mao e poi inviato in un campo di lavoro. Durante la Rivoluzione culturale – il grande movimento di rivolta ed epurazione interna voluto da Mao Zedong tra il 1966 e il 1976 per preservare l’ideologia rivoluzionaria e sbarazzarsi dei suoi nemici interni – le guardie rosse sostenitrici di Mao sottoposero la sua famiglia, ormai caduta in disgrazia, a numerosi soprusi. Sua madre, Qi Xin, fu costretta a denunciare il figlio e urlargli contro mentre le guardie rosse lo trascinavano in piazza per una pubblica umiliazione e la sorella si tolse la vita per le violenze subite.

All’età di 15 anni Xi Jinping, pur essendo nato “principino rosso”, era un giovane senza protezione. Come milioni di altri suoi coetanei, fu mandato a lavorare in un villaggio rurale della Cina profonda per reimparare le virtù rivoluzionarie dalle masse. A Liangjiahe, nella provincia dello Shaanxi, Xi rimase per sette anni lavorando la terra coi contadini. Secondo le biografie ufficiali e le interviste dello stesso Xi, questi furono gli anni formativi della sua personalità. Gli anni che, come rivelato molto più tardi da un amico stretto soprannominato “il professore” nei cablogrammi diplomatici statunitensi, lo spinsero a diventare «più rosso del rosso» per sopravvivere, cioè a mostrare assoluta fedeltà al Partito comunista e al regime cinese, nonostante avesse provocato enormi sofferenze alla sua famiglia.

L’ascesa al potere
Con la morte di Mao nel 1976 e l’inizio del periodo di riforme e apertura, il padre Zhongxun fu riabilitato e il giovane Xi Jinping poté intraprendere la carriera politica. In quanto figlio dell’aristocrazia comunista, a Xi furono affidate alcune posizioni amministrative nelle ricche province costiere. La sua carriera iniziò ad avere successo alla fine degli anni ’90: prima divenne governatore del Fujian, poi segretario del Partito nello Zhejiang, infine segretario nell’importante città di Shanghai. Nel 2007 arrivò la nomina più importante di tutte, quella che lo consacrava come successore designato a diventare segretario generale 5 anni più tardi: membro del Comitato permanente del Politburo, il ristretto organo di comando attraverso cui il PCC governa il paese.

L’ascesa di Xi fu aiutata dal conflitto tra fazioni che in quegli anni si scontravano all’interno del PCC. Da una parte c’erano gli elitisti che facevano riferimento all’ex presidente Jiang Zemin: spesso figli dei padri fondatori della Repubblica Popolare, questo gruppo di potere forniva un riferimento politico per le ricche regioni costiere e aveva forte influenza su temi come il commercio, la finanza e l’informatica. Dall’altra c’erano i tuanpai, cioè la fazione associata alla Lega della gioventù comunista che era guidata dall’allora presidente Hu Jintao: questa cordata di potere era costituita da funzionari di estrazione popolare che avevano spesso servito in aree interne e remote della Cina, e che quindi erano maggiormente specializzati nei temi degli affari legali, dell’amministrazione locale e delle organizzazioni di partito.

Nonostante le difficoltà per gli osservatori esterni a ricollegare i politici cinesi a una delle due fazioni (soprattutto visto che sono raggruppamenti creati dagli analisti per cercare di dare un senso alla fluida e poco trasparente politica cinese), sembra certo che Xi Jinping appartenesse alla prima delle due. La sua promozione nel 2007 nel Comitato permanente e la nomina a segretario generale nel 2012, inquadrate nell’ottica della dialettica tra le due fazioni, segnano infatti l’affermazione degli elitisti a discapito dei tuanpai.

A ogni modo, di lì a poco, anche questi due raggruppamenti sarebbero stati travolti da ciò che stava per arrivare.

Xi al comando del partito
Xi Jinping fu nominato segretario generale del Partito comunista nel novembre del 2012 e presidente del paese nel marzo del 2013. Le due cariche vanno di pari passo e sono solitamente attribuite alla stessa persona. La carica di gran lunga più importante è quella di segretario generale, perché in Cina è il Partito comunista la vera sede del potere politico, ma in Occidente, per familiarità e convenzione, spesso ci si riferisce ai leader cinesi con la carica meno importante, quella di presidente.

Appena ottenuto il potere, c’era una questione che più delle altre richiedeva la priorità. Negli anni precedenti all’ascesa di Xi, in Cina la corruzione aveva cominciato a dilagare in modo sempre meno nascosto. Tra mazzette per i funzionari locali e impunità per i dirigenti nazionali, agli occhi della popolazione la corruzione all’interno del PCC ne stava minando profondamente la legittimità. In uno dei suoi primissimi discorsi da segretario generale Xi promise di combattere “le mosche e le tigri”, due metafore per indicare che non sarebbero stati risparmiati dalle indagini né i quadri di partito locale (le mosche) né i funzionari di alto rango (le tigri).

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La lotta alla corruzione è stato il primo momento in cui ci si è resi conto che la Cina di Xi Jinping sarebbe stata diversa da quella conosciuta fino a quel momento. Secondo i dati ufficiali in un decennio sono stati messi sotto indagine per corruzione quasi 5 milioni di funzionari. Rompendo con una convenzione non scritta del PCC, la campagna anti corruzione di Xi è andata a colpire anche gli alti membri del partito e le loro reti di affiliati. Zhou Yongkang, ad esempio, fino al 2012 era seduto nel Comitato permanente del Politburo ed era il padrone indiscusso dell’apparato di sicurezza, ma nel 2014 venne arrestato e in seguito condannato per corruzione.

Dopo di lui sono seguiti molti altri funzionari in vista come il capo del Fronte unito Ling Jihua, i vice presidenti della Commissione militare centrale Xu Caihou e Guo Boxiong, il segretario di Chongqing Sun Zhengcai o il vice ministro della pubblica sicurezza Sun Lijun.

Eradicare la corruzione però è solo una parte della storia, perché a fianco di questo obiettivo se ne trova un altro. Attraverso gli organi disciplinari del PCC e i tribunali della Repubblica Popolare, Xi Jinping è riuscito a reprimere rivali e potenziali oppositori tra le file del partito mandando così un messaggio chiaro a tutti: opposizioni e resistenze interne all’autorità del segretario generale non saranno tollerate.
Queste cadute spettacolari di noti funzionari, coreografate con processi parzialmente trasmessi in televisione per aumentarne l’impatto nell’immaginario collettivo, hanno aperto un vuoto di potere nelle posizioni apicali del PCC che Xi ha riempito con i suoi uomini di fiducia.

Attingendo alla propria rete di collaboratori e sottoposti conosciuti in Fujian e Zhejiang, Xi ha costruito una nuova cordata di potere centrata su sé stesso. Lealtà e fedeltà al segretario generale da allora sono diventate le qualità fondamentali per l’ascesa nella gerarchia del partito, posizionando così Xi Jinping al centro del sistema politico cinese.

Questo accentramento del potere ha poi avuto un proprio corrispettivo a livello istituzionale. Xi, oltre alle cariche di segretario generale del partito, capo della Commissione militare centrale e presidente della repubblica, ha iniziato fin da subito ad accumulare nelle proprie mani cariche e portafogli che in precedenza erano stati affidati ad altre figure istituzionali, per esempio nella gestione dell’economia.

Anche a livello politico Xi ha marcato il distacco rispetto ai propri predecessori, che avevano governato la Cina secondo un modello collegiale. Assumendo il titolo di lǐngdǎo héxīn (traducibile più o meno come “nucleo della dirigenza”) nel 2016, Xi Jinping ha riaffermato simbolicamente il proprio status di guida indiscussa del partito. Una posizione che è stata confermata l’anno successivo al XIX Congresso del PCC con l’iscrizione del suo pensiero (il “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era”) come principio guida nello statuto del partito, un privilegio concesso ai segretari generali solo dopo il loro ritiro dalla vita pubblica.

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Nel 2018, poi, ha fatto emendare la costituzione per abolire il limite dei due mandati da presidente, che era stato rispettato dai suoi predecessori, facendo capire in questo modo che sarebbe rimasto al potere oltre il termine convenzionale per i leader cinesi di 10 anni di governo.

Il potere accumulato da Xi però non si limita alla sua presa sul partito.

Nell’ultimo decennio la Cina ha rafforzato esponenzialmente i propri tratti autoritari e la repressione della società civile si è consolidata rapidamente come una delle caratteristiche essenziali della Cina di Xi. Sorveglianza massiccia, censura online, ritorno intrusivo della propaganda, soffocamento della libertà d’espressione: sono tutti fenomeni diventati ogni giorno più familiari per i cinesi da quando Xi Jinping è salito al potere. A molte organizzazioni non governative è toccata la chiusura e numerosi avvocati per i diritti umani sono stati incarcerati, mentre proteste civiche e pacifiche vengono represse dalla polizia.

Una lotta per l’anima della Cina
Xi è stato molto attivo anche a livello ideologico. Ha cercato di recuperare l’immagine del Partito comunista, minata dalla corruzione e da un diffuso disincanto da parte della popolazione sulla legittimità della missione storica rivendicata dal partito di guidare la Cina. Xi ha infatti provato a nobilitare tutta la traiettoria del PCC dalla sua fondazione nel 1921 a oggi (passando attraverso l’era del maoismo e delle riforme), cercando di spingere la popolazione a riscoprire nomi, luoghi e vicende che ne hanno segnato la storia.

A queste iniziative si collega poi la spinta che Xi ha dato ai sentimenti nazionalisti all’interno del paese. Come visto anche con la gestione della pandemia, il regime cinese intende convincere la popolazione che non esiste un modello alternativo di governo migliore di quello offerto dal PCC. Promuovendo una stretta identificazione tra sé stesso e la protezione del benessere e degli interessi dei cinesi, la propaganda di partito ha lavorato per rafforzare un sentimento di orgoglio patriottico e appartenenza nazionale.

Non si parla solo di grandi appelli all’eredità culturale classica della Cina, o alle campagne per eliminare le rimanenti sacche di povertà nel paese. Xi Jinping ha sostenuto il nazionalismo cinese anche con una postura sempre più aggressiva in politica estera, come dimostrato dalle contese commerciali con gli Stati Uniti, dai conflitti territoriali con numerosi paesi vicini e, tra le altre cose, dalla durissima repressione delle proteste per la democrazia di Hong Kong.

A questo impulso patriottico si lega anche l’aumento dell’etnonazionalismo han, l’etnia di gran lunga maggioritaria tra le 56 riconosciute ufficialmente dallo stato cinese. Se nell’epoca post-maoista alle 55 minoranze etniche sono stati riconosciuti numerosi diritti speciali per permettere loro di preservare la propria identità, con Xi Jinping il discorso dell’identità nazionale è cambiato radicalmente. Se prima della sua ascesa in Cina si parlava soprattutto di zhōngguó rénmín (popolo della Cina) composto da 56 mínzú (etnie), oggi si parla piuttosto di zhōnghuá mínzú, che sarebbe più o meno traducibile come “etnia/nazione cinese”.

Questa trasformazione ha comportato la perdita di numerosi diritti di cui godevano le minoranze cinesi: l’imposizione del mandarino come lingua veicolare per l’educazione nelle regioni delle minoranze, l’eliminazione di importanti privilegi concessi dall’amministrazione centrale (come i punteggi speciali per i concorsi pubblici), o le restrizioni imposte alla libertà di culto di alcune etnie sono i sintomi più evidenti ma non gli unici di un livellamento generale operato dalle nuove politiche etniche di Pechino. Nel caso dello Xinjiang, la regione occidentale abitata dalla minoranza musulmana uigura, il cambio di mentalità si è poi accompagnato a una feroce stretta securitaria, giustificata in termini di lotta al terrorismo islamico e al separatismo uiguro, che secondo l’ONU ha generato “serie violazioni dei diritti umani” che potrebbero costituire crimini contro l’umanità.

La chiusura dell’economia
È forse l’economia il tema più rappresentativo della svolta di Xi Jinping. Nel 2012 la sua ascesa aveva provocato un grande abbaglio collettivo, poiché quasi tutti gli osservatori pensavano che Xi sarebbe stato un riformatore e che avrebbe ulteriormente liberalizzato l’economia. Invece la Cina di oggi per molti versi si è mossa in direzione opposta. Le aziende statali hanno mantenuto un ruolo centrale negli investimenti e nella produzione interna, mentre il Partito ha riasserito la propria autorità anche sulle società private.

Xi ha inoltre cercato di ricalibrare l’economia cinese in favore di una maggior attenzione ai consumi interni e all’innovazione tecnologica, per cercare di rivitalizzare un modello economico basato su investimenti e forti esportazioni, che ormai da tempo si sta dimostrando in declino.

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Un significativo passo in questa direzione è stata la pubblicazione della strategia “Made in China 2025”, un piano industriale per spingere l’economia cinese a rendersi autosufficiente in campi tecnologici chiave per il futuro della produzione industriale: dall’aerospazio ai semiconduttori, dalla robotica alla biomedicina, dall’intelligenza artificiale all’elettrificazione dei trasporti, la strategia mirava a sostenere e incentivare le società cinesi a puntare sui settori più innovativi dell’attuale panorama produttivo.

In economia come in politica, il concetto chiave per Xi Jinping è diventato quello della sicurezza e della stabilità. Per questo, la Cina sta cercando di ridurre la sua dipendenza dall’estero, in particolare nello strategico settore tecnologico, e al tempo stesso aumentare il controllo del Partito.

Le declinazioni che ha preso questo cambio di rotta sono molteplici, e oltre all’ambito tecnologico vanno dalla rivitalizzazione delle aree agricole, cruciale per la sicurezza alimentare, agli sforzi per decarbonizzare il settore energetico, riducendo così l’import di gas e petrolio. Tutte queste iniziative sono racchiuse nella cosiddetta “doppia circolazione”, un concetto proposto da Xi nel 2020 secondo cui alla circolazione economica esterna (composta da commercio e investimenti esteri) si deve affiancare una circolazione interna che consiste in innovazione produttiva e soprattutto consumo.

Negli ultimi anni, inoltre, Xi ha indicato l’intenzione di contrastare profonde disuguaglianze socio-economiche che frenano lo sviluppo cinese. In una società per molti versi opposta a quella egalitaria che i cinesi avevano conosciuto durante l’epoca maoista, il governo ha avviato alcune politiche, per ora piuttosto timide, per consentire una maggiore redistribuzione della ricchezza.

Un presidente a vita?
L’influenza di Xi Jinping è difficile da sottovalutare. Le sue decisioni hanno modificato radicalmente la traiettoria di un paese già di per sé in profonda mutazione, mettendo la Cina su un binario completamente nuovo rispetto al passato. Con ogni probabilità Xi continuerà a plasmare la Cina, visto che in futuro non si intravedono alternative al suo governo.

Nonostante questo, la sua ascesa al potere rimane un mistero, anche a distanza di un decennio. Xi non ha il carisma di Mao Zedong, né l’autorevolezza di altri grandi leader del passato come Deng Xiaoping, ma nonostante questo ha avuto un impatto eccezionale sulla storia della Cina.

Per questo alcuni esperti, come per esempio Kerry Brown, professore al King’s College di Londra, ritengono che l’eccezionale accentramento di potere di Xi non sia avvenuto a discapito della dirigenza del Partito comunista, ma in un certo senso su mandato del Partito stesso.

In altre parole, l’accentramento di potere con cui è stato investito Xi Jinping non sarebbe altro che un mandato per eseguire quei cambiamenti radicali e (secondo il Partito) necessari per superare le molte sfide interne e internazionali che il paese deve affrontare e permettere alla Cina di proseguire la propria ascesa.

Eppure questo percorso non era scritto, e il futuro della Cina è sempre stato una domanda senza alcuna risposta definitiva. Negli anni 2000 sembrava un’ipotesi non impossibile quella che un giorno il paese potesse adottare riforme politiche e magari perfino democratizzarsi: queste opinioni circolavano non solo tra gli intellettuali ma anche tra alcuni veterani del PCC. Con Xi Jinping, le cose sono andate diversamente.