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  • Giovedì 16 novembre 2023

Il controverso slogan «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera»

Alcuni lo considerano un potente e generico messaggio di liberazione, per altri contiene un messaggio antisemita

Una manifestazione filo-palestinese a Roma, il 28 ottobre (AP Photo/Andrew Medichini, File)
Una manifestazione filo-palestinese a Roma, il 28 ottobre (AP Photo/Andrew Medichini, File)
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Alle manifestazioni in solidarietà dei palestinesi della Striscia di Gaza tenute nelle ultime settimane in molti paesi non è stato raro osservare qualche cartello con la frase – spesso in inglese, più raramente in arabo o nella lingua locale – From the river to the sea, Palestine will be free (من النهر إلى البحر, o “Dal fiume al mare la Palestina sarà libera”).

Lo slogan nacque negli anni Sessanta del Novecento nel contesto dei movimenti per la creazione di uno stato palestinese, in un momento molto particolare della movimentata storia di quella regione. Nel 1967 Israele vinse la Guerra dei sei giorni e iniziò un’occupazione dei territori che secondo la stragrande maggioranza della comunità internazionale spettano ai palestinesi, e che dura ancora oggi.

Il “fiume” di cui si parla è il Giordano, che nasce dal Monte Hermon in una zona di confine fra Israele, Siria e Libano, e scorre verso sud fino al Mar Morto, un lago salato le cui sponde oggi si trovano in Israele, Giordania e Cisgiordania. Nella sua parte vicino al monte Hermon, il fiume Giordano separa Israele dalle Alture del Golan, occupate da Israele ma contese con la Siria. Immediatamente più a sud separa Israele dalla Giordania, poi ancora più a sud per un lungo tratto separa la Cisgiordania, cioè il territorio governato in maniera semiautonoma dall’Autorità Palestinese, l’entità parastatale palestinese, dalla Giordania. Nel tratto finale invece il Giordano torna a dividere il territorio israeliano da quello giordano. Il “mare”, invece, è il mar Mediterraneo.

Oggi i confini di questa regione sono piuttosto complessi, ma per circa trent’anni, dal 1917 al 1948, tutto il territorio dalla sponda est del Giordano al mar Mediterraneo era governato dalla stessa entità politica: una specie di protettorato del Regno Unito, chiamato Mandato britannico della Palestina, creato dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale dell’Impero ottomano, che governava da secoli la regione.

Per alcuni “Dal fiume al mare” è un appello a un immaginario stato unitario i cui confini ricalcano il Mandato britannico della Palestina, in cui sia la popolazione araba che quella ebrea abbiano gli stessi diritti e libertà. Altri lo interpretano come un generico slogan con un significato storico di liberazione del popolo palestinese dall’occupazione israeliana. Altri ancora ci intravedono un significato antisemita, perché oggi immaginare un territorio che vada dal Giordano al mar Mediterraneo significa ripensare la configurazione di Israele, l’unico stato ebraico al mondo.

“Dal fiume al mare” è diventato uno slogan usato da persone diverse con posizioni e obiettivi diversi. Oggi viene usato spesso nel contesto delle manifestazioni di protesta contro la pesante risposta militare dell’esercito israeliano contro Hamas nella Striscia di Gaza, che secondo il ministero della Salute locale (controllato da Hamas) ha portato all’uccisione di oltre 11mila civili palestinesi fino a oggi. Ma anche da fazioni estremiste come Hamas, che il 7 ottobre ha compiuto un attacco senza precedenti in territorio israeliano uccidendo 1.400 persone, soprattutto civili, e che nel suo statuto fondativo ha come obiettivo la distruzione di Israele.

Nelle ultime settimane l’utilizzo dello slogan è stato vietato sia in vari campus universitari statunitensi che nelle manifestazioni di diverse città europee, aprendo un ampio dibattito sulla libertà d’espressione.

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Non è chiaro chi abbia inventato lo slogan, ma secondo gli storici cominciò a diffondersi all’inizio degli anni Sessanta tra gli attivisti e gli intellettuali palestinesi che erano stati costretti a lasciare le proprie case durante la “Nakba”, ovvero l’esodo forzato di circa 700mila palestinesi durante e dopo la guerra che Israele combatté (e vinse) nel 1948 contro diversi paesi arabi per il controllo di una parte della regione. Molti di loro si rifugiarono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dove i loro discendenti abitano tuttora.

Maha Nassar, professoressa associata di storia del Medio Oriente e studi islamici presso l’Università dell’Arizona, ha spiegato di recente al New York Times che già da prima della guerra dei Sei giorni molti intellettuali palestinesi avevano cominciato a sviluppare l’idea di una “Palestina libera”, uno stato «laico, democratico e libero» che andasse dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.

Col tempo però il suo significato originario si è diluito e oggi lo slogan «ha un significato molto intimo per i palestinesi che lo usano, perché stanno dicendo “mi identifico con la mia terra nativa ancestrale, la Palestina, anche se oggi non esiste”», ma «non evoca degli specifici obiettivi politici». Piuttosto, «è un appello per un futuro di pace e libertà», che include «la fine dell’occupazione da parte di Israele» e la possibilità per i palestinesi espulsi di tornare nelle proprie terre native.

Dopo gli anni Sessanta lo slogan venne adottato da diverse fazioni palestinesi, alcune più moderate, altre meno. Tra loro c’era l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), organizzazione armata palestinese fondata nel 1964 che inizialmente si basava sulla convinzione che «la Palestina all’interno dei confini che esistevano al momento del mandato britannico è una singola unità regionale» e che avrebbe poi riconosciuto il diritto di esistere di Israele soltanto nel 1988 con la cosiddetta soluzione a due Stati: uno palestinese e uno israeliano, fianco a fianco.

Già dopo la guerra del 1967, però, la situazione sul campo cambiò decisamente. Israele conquistò la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e le Alture del Golan, e iniziò a occuparle militarmente realizzando una unità territoriale “dal fiume al mare”, ma sotto il governo e l’occupazione di Israele. In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, Israele iniziò a costruire delle colonie, che oggi sono diventate delle piccole città e sono considerate il principale ostacolo al raggiungimento di una pace e di una chiara divisione territoriale fra due stati, uno israeliano e uno palestinese.

Contemporaneamente il partito israeliano conservatore Likud, guidato oggi dal primo ministro Benjamin Netanyahu, e i partiti della destra religiosa hanno sostenuto e promosso la costruzione di colonie. Il Likud ha persino inserito nel proprio statuto fondativo una formulazione simile a “dal fiume al mare”: al suo interno si legge infatti che «tra il mare e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana».

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Più di recente slogan simili sono stati condivisi anche da Hamas, un’organizzazione  palestinese nata nel 1987 che promuoveva e promuove tuttora un modello di società che abbia alla base la dottrina dell’Islam, spesso interpretata in una prospettiva conservatrice, mischiata con posizioni nazionaliste.

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Le parole «Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera» non si trovano nello statuto originario di Hamas, ma appaiono in una formula simile in un documento programmatico più recente, pubblicato nel 2017, in cui si legge che «Hamas rifiuta qualsiasi alternativa alla liberazione completa e piena della Palestina, dal fiume al mare». In questi anni lo slogan è stato usato varie volte da miliziani di Hamas, anche molto importanti: nel 2012 Khaled Mashaal, ex leader di Hamas, aveva per esempio detto: «la Palestina è nostra, dal fiume al mare e da sud a nord».

Anche per questo da anni lo slogan viene interpretato da alcuni come un incitamento all’eliminazione di Israele e più in generale alla violenza contro le persone ebree. Già nel 2018 CNN aveva interrotto i propri rapporti con lo storico e attivista statunitense Marc Lamont Hill dopo che il professore aveva concluso un proprio intervento in occasione della Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese nella sede newyorkese dell’ONU dicendo: «Abbiamo l’opportunità non solo di offrire solidarietà a parole, ma di impegnarci nell’azione politica, nell’azione dal basso, nell’azione locale e nell’azione internazionale per ottenere ciò che sarebbe giusto, ovvero una Palestina libera dal fiume al mare».

Lamont si era detto «scioccato e rattristato» di essere stato accusato di incitare alla violenza contro gli ebrei, sottolineando di aver lavorato per anni come attivista per combattere l’antisemitismo negli Stati Uniti. Ma aveva anche spiegato che la sua decisione di usare lo slogan «si rifaceva a una lunga storia di attivisti – sia liberali che radicali, sia palestinesi che israeliani» che ritengono che l’unico modo per ottenere pari diritti e libertà tra israeliani e palestinesi nella regione sia la creazione di «un unico stato democratico binazionale che comprenda Israele, Cisgiordania e Gaza. Credo fermamente che questo sia il metodo migliore per raggiungere la pace, la sicurezza e l’autodeterminazione sia per gli israeliani che per i palestinesi. La giustizia richiede che tutti, non solo una parte della popolazione, siano liberi ed uguali».

Discussioni simili sono riemerse nelle settimane successive al violentissimo attacco di Hamas contro civili e militari israeliani del 7 ottobre, e nelle manifestazioni filo-palestinesi che sono scaturite dalla dura risposta dell’esercito israeliano. Varie università statunitensi, preoccupate della possibilità che si moltiplicassero gli attacchi antisemiti contro i propri studenti ebrei, ne hanno condannato l’uso nelle manifestazioni: la rettrice dell’università di Harvard Claudine Gay ha detto per esempio che «la nostra comunità deve capire che frasi come “dal fiume al mare” portano con sé significati storici specifici che per moltissime persone implicano lo sradicamento degli ebrei da Israele e generano dolore e paure esistenziali».

La Cisgiordania non ha uno sbocco sul mare, la Striscia di Gaza ce l’ha ma non condivide un confine di terra con la Cisgiordania: auspicare un’unica entità politica palestinese che vada dal Giordano al mar Mediterraneo da un punto di vista teorico significa chiedere un cambiamento di status dei territori israeliani, anche di quelli riconosciuti dall’ONU e dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale. Alcuni ritengono che lo slogan neghi del tutto il diritto di esistere di Israele.

L’Anti-Defamation League, storica associazione dedicata all’identificazione e alla lotta all’antisemitismo, il mese scorso ha diffuso una nota in cui definisce lo slogan «un attacco antisemita che nega il diritto ebraico all’autodeterminazione, anche attraverso l’allontanamento degli ebrei dalla loro patria ancestrale», e che fa sentire gli israeliani e le persone che li supportano «ostracizzati e in pericolo». Un’altra storica associazione che si occupa di rappresentare gli interessi della popolazione ebraica negli Stati Uniti, l’American Jewish Committee, ha scritto che «chiaramente non c’è niente di antisemita nel chiedere che i palestinesi abbiano il proprio stato, ma chiedere l’eliminazione dello stato d’Israele, lodare Hamas o altre entità che vogliono la distruzione di Israele o sostenere che gli ebrei non abbiano diritto all’autodeterminazione è antisemita».

L’8 novembre 234 parlamentari statunitensi (tutti quelli appartenenti al partito Repubblicano e alcuni Democratici) hanno votato per sottoporre a una mozione di censura l’unica parlamentare americano-palestinese del Congresso, Rashida Tlaib, perché aveva condiviso sui social network un video in cui si sentivano tra le altre cose dei manifestanti scandire From the river to the sea, Palestine will be free, “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Nella menzione di censura si legge che lo slogan «è ampiamente riconosciuto come un appello genocida alla violenza per distruggere lo stato di Israele».

Tlaib ha risposto che lo slogan «è un appello ambizioso alla libertà, ai diritti umani e alla convivenza pacifica, non alla morte, alla distruzione o all’odio», e  che «mia nonna, come tutti i palestinesi, vuole solo vivere la vita libera e dignitosa che tutti si meritano».

Nel Regno Unito invece il Partito Laburista ha temporaneamente sospeso un suo parlamentare, Andy McDonald, per aver usato quella frase durante una manifestazione in cui chiedeva la fine dei bombardamenti. McDonald aveva detto che «non avremo pace finché non ci sarà giustizia. Fino a quando tutte le persone, israeliani e palestinesi, tra il fiume e il mare potranno vivere in pacifica libertà». In seguito ha spiegato che «queste parole non dovrebbero essere interpretate in alcun modo diverso da quello in cui erano intese, vale a dire come un accorato appello per la fine delle uccisioni in Israele, Gaza e nella Cisgiordania occupata, e per tutti i popoli della regione a vivere in libertà senza la minaccia della violenza».

A ottobre la polizia di Vienna ha vietato una manifestazione filo-palestinese perché i volantini degli organizzatori contenevano lo slogan «dal fiume al mare», definendola un appello alla violenza. La procura di Berlino ha annunciato invece che lo slogan va considerato una forma di incitamento all’odio alla stregua di «morte agli ebrei» perché nega l’esistenza di Israele, e quindi può essere punito penalmente. Anche la piattaforma di vendita di prodotti online Etsy ha ammesso di aver limitato la vendita di prodotti con lo slogan (come magliette o tazze) perché «è stato cooptato da Hamas, che consideriamo un gruppo pericoloso in base ai nostri standard etici, e ci sono casi in cui la frase è usata insieme alla celebrazione o alla glorificazione degli attacchi di Hamas contro i civili israeliani». Un giudice olandese ha invece stabilito che «dal fiume al mare» si riferisce allo stato di Israele e non al popolo ebraico in senso lato, e che quindi gli attivisti che lo pronunciano durante le proteste non stanno incitando alla violenza.

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«Il motivo per cui questo slogan è così fortemente dibattuto è perché significa cose diverse per persone diverse» ha detto al New York Times Dov Waxman, esperto di conflitto israelo-palestinese e professore all’Università della California a Los Angeles. «Le interpretazioni contrastanti sono in un certo senso cresciute nel tempo», hanno aggiunto Karoun Demirjian e Liam Stack, i due giornalisti del New York Times autori dell’articolo. «Per molti palestinesi la frase ha ora un duplice significato: rappresenta il loro desiderio di un diritto al ritorno nelle città e nei villaggi da cui le loro famiglie furono espulse nel 1948, così come la speranza per uno stato palestinese indipendente, che incorpori la Cisgiordania, che confina con il fiume Giordano, e la Striscia di Gaza, che abbraccia la costa del Mediterraneo».

In sostanza per alcuni palestinesi lo slogan non andrebbe interpretato in maniera letterale come l’auspicio di un unico stato palestinese nei territori fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, ma come un’aspirazione più generale alla creazione di un vero e proprio stato palestinese.

Ma per Ethan Katz, professore associato di storia e studi ebraici presso l’Università di California a Berkeley, «la stragrande maggioranza degli ebrei in molti contesti, sentendo quello slogan, sente qualcosa che sembra profondamente minaccioso e offensivo e molti, molti ebrei lo caratterizzerebbero come antisemita». A suo dire, l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha amplificato le interpretazioni negative della frase.

Per Peter Beinart, editorialista dell’Atlantic e noto commentatore di vicende israeliane per i giornali statunitensi, «dipende tutto dal contesto»: «Se lo dicesse un membro armato di Hamas, allora sì, mi sentirei minacciato. Se lo sentissi da qualcuno che so che ha una visione di uguaglianza e liberazione reciproca, allora no, non mi sentirei minacciato».

Dal punto di vista di molti attivisti palestinesi, però, l’enorme interesse attorno all’utilizzo dello slogan contribuisce a distogliere l’attenzione dai motivi delle proteste e dalle condizioni estremamente difficili in cui vivono sia i palestinesi che a oggi vivono nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania o in Israele, sia quelli che hanno dovuto lasciare la regione in passato.

Già nel 2018, nel contesto della discussione attorno alle parole di Lamont Hill all’ONU, lo storico giornale progressista ebraico Forward aveva pubblicato un articolo  in cui si diceva che «respingere o ignorare ciò che questa frase significa per i palestinesi è un altro mezzo con cui mettere a tacere le prospettive palestinesi. Citare solo l’uso della frase da parte dei leader di Hamas, ignorando il contesto liberazionista in cui la intendono gli altri palestinesi, mostra un livello inquietante di ignoranza riguardo alle opinioni dei palestinesi, nella migliore delle ipotesi, e un tentativo deliberato di diffamare le loro legittime aspirazioni, nella peggiore».

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