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  • Sabato 14 ottobre 2023

La cronologia del conflitto israelo-palestinese

Le tappe principali dello scontro che da oltre un secolo coinvolge Israele, i palestinesi e i paesi arabi

(Leon Neal/Getty Images)
(Leon Neal/Getty Images)
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Quella cominciata sabato 7 ottobre con il massacro di centinaia di civili israeliani da parte di Hamas è soltanto l’ultima tappa del lunghissimo conflitto israelo-palestinese, che va avanti di fatto da oltre un secolo. Nei prossimi giorni la situazione si evolverà ulteriormente, visto che con ogni probabilità Israele invaderà via terra la Striscia di Gaza.

Il conflitto israelo-palestinese, che per decenni ha riguardato anche i paesi arabi della regione, è il risultato di tensioni politiche e rivendicazioni territoriali che nessun negoziato è mai riuscito a risolvere. Abbiamo messo insieme le tappe principali, per dare un’idea della complessità di quello che sta succedendo e di come ci siamo arrivati.

Il sionismo
I primi progetti che riguardavano la creazione di uno stato ebraico in Palestina risalgono al Diciannovesimo secolo. In quel periodo nacque e cominciò a svilupparsi il sionismo, un movimento che, in risposta alle persecuzioni e all’antisemitismo subiti dagli ebrei in Europa, invocava la creazione di uno stato in cui gli ebrei potessero vivere al sicuro. Si discusse molto a lungo di dove sarebbe potuto nascere: alla fine gran parte della comunità ebraica scelse la Palestina, che secoli prima era stata la sede di una serie di antichi regni ebraici e che dalla religione ebraica era considerata la “terra promessa”. A partire dalla fine dell’Ottocento, e in maniera sempre più intensa nei primi decenni del Novecento, prima centinaia e poi migliaia di ebrei cominciarono a emigrare dall’Europa alla Palestina.

Al tempo la Palestina era dominata dall’impero Ottomano, ed era abitata per la stragrande maggioranza da popolazioni arabe. In Palestina vivevano alcune comunità ebraiche, e lo avevano sempre fatto. Ma ai tempi erano una minoranza esigua della popolazione: meno del 10 per cento.

1917: Il dominio britannico e la dichiarazione di Balfour
Alla fine della Prima guerra mondiale (1914–1918) l’impero Ottomano crollò e la Società delle Nazioni (semplificando molto: il predecessore dell’ONU) affidò il controllo di ampie regioni del Medio Oriente all’Impero britannico, compresa la Palestina. Al tempo ormai la comunità ebraica che era emigrata in Palestina era molto numerosa, e si verificarono sempre più frequenti scontri etnici tra i residenti arabi e i nuovi arrivati ebrei, che spesso disponevano di migliori mezzi economici e che cominciarono a comprare enormi quantità di terra dai palestinesi.

Nel 1917 l’allora ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour, rese pubblica una lettera in cui diceva che il Regno Unito era favorevole alla formazione di uno stato ebraico in Palestina che avrebbe dovuto essere un «focolare nazionale per il popolo ebraico», a patto che non «pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina».

Negli anni Trenta del Novecento gli scontri etnici divennero sempre più violenti, e nel 1936 le popolazioni arabe si rivoltarono in massa contro il dominio britannico, per protesta contro l’immigrazione ebraica sempre più forte. I britannici repressero la rivolta con la violenza, ma la situazione rimase molto complicata ancora per anni.

– Leggi anche: Quando iniziò tutto, fra Israele e Palestina

1945: l’Olocausto
Durante la Seconda guerra mondiale (1939-1945) i conflitti fra ebrei e palestinesi si ridussero (contingenti di entrambe le parti, anzi, combatterono assieme nell’esercito britannico), ma ritornarono estremamente intensi dopo la Seconda guerra mondiale. La Germania nazista e suoi alleati uccisero sei milioni di ebrei in tutta Europa, e rese piuttosto chiaro al popolo ebraico che l’Europa non era più un luogo sicuro in cui stare. L’Unione Sovietica e i suoi stati satelliti nell’Europa orientale, peraltro, continuarono per anni a discriminare gli ebrei e a promuovere forme di antisemitismo.

L’Olocausto contribuì a creare un certo imperativo morale per gli altri stati del mondo a dare agli ebrei un proprio stato. Centinaia di migliaia di ebrei, molti dei quali avevano perso famiglia e averi a causa dell’Olocausto, emigrarono allora in Palestina, e questo fece ripartire le tensioni.

1948: Lo stato di Israele e la prima guerra con i paesi arabi
Nel novembre del 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approvò la risoluzione 181, che prevedeva un piano di ripartizione dei territori della Palestina tra ebrei e palestinesi. Il piano prevedeva che il 56 per cento del territorio fosse concesso agli ebrei, e il resto ai palestinesi. Gerusalemme sarebbe stata governata direttamente dall’ONU e sarebbe rimasta territorio neutrale. La leadership ebraica accettò la proposta dell’ONU, e il 14 maggio 1948 David Ben Gurion, il presidente dell’Organizzazione sionista mondiale che poi sarebbe diventato il primo primo ministro israeliano, dichiarò la fondazione dello stato di Israele. Entrambe le grandi potenze del tempo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, riconobbero il nuovo stato.

I palestinesi invece rifiutarono. Ampie frange della società non accettavano l’idea che quello che fino a un secolo prima era stato territorio quasi interamente abitato da popolazioni arabe dovesse accogliere lo stato di Israele.

Nei giorni successivi alla dichiarazione di indipendenza israeliana una coalizione di stati arabi solidali con la causa palestinese – l’Egitto, l’Iraq, la Giordania (che allora si chiamava Transgiordania) e la Siria – attaccarono lo stato di Israele appena nato da tutti i fronti. Diversi leader politici e militari di questi paesi ritenevano che sarebbe stato piuttosto semplice sconfiggere le forze militari di uno stato appena nato. L’esercito israeliano, che a quel tempo era composto soprattutto da varie milizie nazionaliste, era però più preparato del previsto. Respinse l’attacco e anzi contrattaccò, conquistando enormi porzioni di territorio che l’ONU aveva attribuito ai palestinesi.

Alla fine della guerra, nel luglio del 1949, Israele controllava il 72 per cento del territorio della Palestina (contro il 56 previsto dall’ONU). Circa 700mila palestinesi dei territori conquistati furono costretti a lasciare le loro case e a trasferirsi in campi profughi, nei paesi confinanti. Questa prima sconfitta è conosciuta dai palestinesi e dal mondo arabo come la nakba, la “catastrofe”: viene ricordata ogni anno con proteste e manifestazioni. Le centinaia di migliaia di palestinesi che ancora vivono in campi profughi e le condizioni del loro “diritto al ritorno” sono da sempre una delle questioni più complicate del conflitto israelo-palestinese.

Dopo la guerra del 1948 anche centinaia di migliaia di ebrei (alcuni stimano un milione) che vivevano nei paesi arabi subirono minacce e aggressioni e furono costretti a emigrare, in buona parte in Israele.

La mappa della Palestina secondo il piano di ripartizione dell’ONU, nel 1948 (Wikimedia)

1956: La crisi di Suez
La guerra del 1948 aprì una lunghissima stagione di scontri tra Israele e i paesi arabi confinanti. Nel 1956 Israele attaccò l’Egitto assieme a Regno Unito e Francia, in quella che è nota come la “crisi di Suez”, cominciata dopo la decisione del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser di nazionalizzare il canale di Suez. L’operazione però fu un insuccesso, soprattutto a causa delle pressioni internazionali di Stati Uniti e Unione Sovietica: gli israeliani, che nel frattempo avevano conquistato la penisola del Sinai, si ritirarono.

Il Canale di Suez il 12 novembre del 1956 (Fox Photos/Getty Images)

1967: La guerra dei Sei giorni
Le tensioni tra Israele e i paesi arabi vicini, in particolare l’Egitto, proseguirono negli anni successivi e scoppiarono di nuovo con la guerra dei Sei giorni: nella primavera del 1967 Egitto, Siria e Giordania sembravano pronti ad attaccare ancora una volta Israele (tra le altre cose, l’esercito egiziano era schierato nella penisola del Sinai, vicino ai confini israeliani), ma l’esercito israeliano li anticipò con un attacco preventivo devastante.

Benché in inferiorità numerica, l’esercito israeliano, meglio preparato e armato, conquistò enormi porzioni di territorio, tra cui l’intera penisola del Sinai, Gerusalemme est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e le alture del Golan, al confine con la Siria. La guerra cominciò il 5 giugno e il 10 si era già conclusa con una vittoria israeliana: per i paesi arabi fu un’umiliazione senza precedenti.

La mappa della guerra dei Sei giorni (Wikimedia)

1973: La guerra dello Yom Kippur
Il conflitto riprese nel 1973 con la guerra dello Yom Kippur, quando una coalizione di stati arabi, ancora una volta guidati da Egitto e Siria, attaccò Israele a sorpresa. Secondo alcune interpretazioni, in realtà, l’intelligence israeliana si era accorta di un possibile attacco, ma la leadership politica israeliana aveva rinunciato a fare un nuovo attacco preventivo perché temeva di perdere il sostegno internazionale dell’Occidente, e in particolare degli Stati Uniti, se Israele fosse apparso come l’aggressore.

I paesi arabi attaccarono Israele il 6 ottobre, giorno dello Yom Kippur, una delle feste più importanti per la religione ebraica, e inizialmente ebbero successo: trovarono le difese israeliane impreparate e dilagarono. Nel giro di una settimana, però, l’esercito israeliano riuscì a riorganizzarsi. Sfruttando la sua superiorità organizzativa e tecnologica, riconquistò le alture del Golan, il 14 ottobre, e dopo una settimana di combattimenti durissimi alcuni carri armati israeliani entrarono in territorio egiziano oltrepassando il canale di Suez. Il cessate il fuoco fu imposto dall’ONU, e Israele mantenne di fatto i propri confini.

Il ministro della Difesa israeliano Moshe Dayan durante la guerra dello Yom Kippur, nel 1973 (Harry Dempster/Express/Hulton Archive/Getty Images)

1978: Gli accordi di Camp David
Dopo la guerra dello Yom Kippur l’Egitto cominciò un processo di normalizzazione dei rapporti con Israele, di gran lunga il suo vicino più ingombrante. Nel settembre del 1978 a Camp David, negli Stati Uniti, il presidente egiziano Anwar Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin firmarono un accordo storico: Israele si ritirò dalla penisola del Sinai e l’Egitto riconobbe lo stato israeliano. Si cominciò anche a parlare per la prima volta di un processo di pace e di autonomia di governo per i palestinesi.

Israele e il Libano
Israele invase il Libano tre volte in pochi decenni. Lo fece per la prima volta nel marzo del 1978 per scacciare dal confine libanese i membri dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), la principale organizzazione armata palestinese guidata da Yasser Arafat: l’esercito israeliano si ritirò dopo una settimana.

Invase una seconda volta nel 1982, ancora una volta a causa di scontri con l’OLP, ma questa volta l’esercito israeliano non si ritirò, e continuò a occupare il sud del Libano per quasi vent’anni. Durante l’occupazione israeliana nacque Hezbollah, un’organizzazione militare islamista che tuttora continua a contrastare Israele.

L’ultimo attacco avvenne significativo nel 1996, con l’obiettivo di eliminare proprio i miliziani di Hezbollah. Israele occupò militarmente il sud del Libano per altri quattro anni ma si ritirò senza raggiungere il suo scopo.

1987: La prima Intifada
Dopo vent’anni di occupazione, nel 1987 la popolazione palestinese, dapprima a Gaza e poi negli altri territori palestinesi, si sollevò in massa contro l’occupazione israeliana. Questa sollevazione, detta Intifada, portò a proteste di massa, scioperi, boicottaggi, ma anche ad azioni violente che furono represse dall’esercito israeliano. La prima Intifada durò sei anni: morirono 160 israeliani e oltre 2.000 palestinesi.

1993: Gli accordi di Oslo
Il 13 settembre del 1993 furono ratificati gli accordi di Oslo, con cui per la prima volta Israele e Palestina si riconobbero come legittimi interlocutori. I negoziati, mediati in parte dagli Stati Uniti, furono guidati dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e da Yasser Arafat, il leader dell’OLP. Gli accordi avrebbero dovuto avviare un processo per mettere fine al conflitto tra israeliani e palestinesi. Tra le altre cose Israele riconobbe all’OLP il diritto di governare su alcuni dei territori occupati, mentre l’OLP riconobbe il diritto di Israele a esistere e rinunciò formalmente alla lotta armata per la creazione di uno stato palestinese.

Molte tra le questioni più complicate però non vennero discusse: rimase incerto lo status giuridico di Gerusalemme, che entrambi i paesi rivendicavano come propria capitale, e il destino degli insediamenti dei coloni ebraici in Cisgiordania, territorio che secondo la stragrande maggioranza della comunità internazionale appartiene ai palestinesi.

Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si stringono la mano dopo la firma degli accordi di Oslo a Washington, il 13 settembre 1993 (AP Photo/Ron Edmonds)

Proprio per gli Accordi di Oslo nel 1994 Rabin, Arafat e Shimon Peres, il ministro degli Esteri israeliano, ricevettero il Nobel per la pace.

1995: L’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin
La sera del 4 novembre del 1995 Rabin fu ucciso con un colpo di pistola da un fanatico religioso ebreo. Rabin, che aveva 73 anni, stava partecipando a una manifestazione a Tel Aviv in sostegno degli accordi di Oslo. L’attentatore fu Yigal Amir, un colono ebreo estremista nascosto tra la folla che venne poi condannato all’ergastolo. Ai funerali di Rabin a Gerusalemme parteciparono circa un milione di israeliani e molti leader politici da tutto il mondo.

Yitzhak Rabin, primo ministro di Israele tra il 1974 e il 1977, e tra il 1992 e il 1995 (Evening Standard/Getty Images)

Sfruttando il caos politico in seguito alla morte di Rabin nel 1996 il Likud, il principale partito di destra del paese, vinse le elezioni e Benjamin Netanyahu divenne primo ministro a capo di una coalizione di destra nazionalista e religiosa. Netanyahu è rimasto in carica per buona parte degli ultimi 20 anni e ancora oggi è ancora il primo ministro di Israele, sostenuto dal governo più di destra nella storia del paese.

2000: La seconda Intifada
Negli anni successivi agli Accordi di Oslo si diffuse un senso di scetticismo riguardo alla loro effettiva applicabilità e, più in generale, alla possibilità di arrivare a una pace concreta tra i popoli di Israele e Palestina, date le continue tensioni e la progressiva radicalizzazione di alcuni partiti politici e gruppi estremisti.

Il 28 settembre del 2000 il primo ministro israeliano Ariel Sharon, un ex militare e politico di destra noto per essere molto duro con i palestinesi, visitò la Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Il suo gesto fu interpretato da molti come una provocazione nei confronti dei palestinesi, dato che la Spianata delle Moschee è considerata un luogo sacro sia dagli ebrei che dai musulmani, e la sua gestione è contesa da decenni.

La visita di Sharon fu seguita da scontri e proteste tra israeliani e palestinesi che si trasformarono presto in una seconda Intifada, molto più violenta della prima. Alcuni gruppi di estremisti palestinesi organizzarono attentati suicidi in varie città israeliane, a cui l’esercito israeliano rispose con una durissima repressione. La seconda Intifada proseguì fino al 2005. Esistono diverse stime sul numero di vittime, ma si pensa che furono uccisi oltre 4mila palestinesi e circa mille israeliani.

Scontri nella città di vecchia di Gerusalemme, l’8 dicembre del 2000

2005: Il ritiro di Israele da Gaza
Dopo quasi quarant’anni di occupazione nel 2005 Israele si ritirò unilateralmente dalla Striscia di Gaza, con quello che fu definito il “disimpegno”. Il 12 settembre, quando l’ultimo soldato israeliano lasciò la Striscia, il territorio passò sotto il completo controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP, l’entità statale erede dell’OLP, che oggi governa solo la Cisgiordania).

Secondo il primo ministro Sharon rimanere in quel territorio non era più nell’interesse di Israele, e venne quindi disposta la rimozione degli insediamenti e il trasferimento dei loro abitanti. In quel momento erano presenti nella Striscia 21 colonie, abitate da circa 8.500 cittadini israeliani: una percentuale molto piccola di persone rispetto alla popolazione totale di Israele all’epoca (circa 7 milioni di persone), la cui sicurezza peraltro costava parecchi soldi allo stato. Non tutti i cittadini israeliani che abitavano a Gaza volevano andarsene, e ci furono molte proteste: in alcuni casi i coloni si barricarono nelle case, bloccarono le strade e cercarono di convincere i soldati a non procedere allo sgombero.

Truppe israeliane lasciano la Striscia di Gaza, nel settembre del 2005 (Uriel Sinai/Getty Images)

2006: La vittoria di Hamas e la guerra civile nella Striscia di Gaza
Il 25 gennaio del 2006 si svolsero le ultime elezioni legislative in Palestina, vinte a sorpresa dal gruppo radicale Hamas. Il suo principale avversario fu Fatah, un partito relativamente moderato guidato da Mahmoud Abbas. I due partiti non riuscirono a trovare un accordo politico per formare un governo e presto le rivalità si trasformarono in un conflitto armato nei due territori della Striscia di Gaza, dove era prevalente Hamas, e in Cisgiordania, dove vinse Fatah.

Nel giugno del 2007 a Gaza ci furono violenti scontri tra i militanti di Hamas e i sostenitori di Fatah: Hamas impose con la forza il suo controllo sulla Striscia, mentre Fatah rimase a governare sui territori della Cisgiordania, creando una frattura politica che continua ancora oggi.

– Leggi anche: Che cos’è Hamas

2007: L’embargo di Egitto e Israele sulla Striscia di Gaza
In seguito alla presa di potere di Hamas, Israele ed Egitto imposero un rigidissimo embargo su tutto il territorio della Striscia di Gaza: da quel momento le forniture di tutti i beni non prodotti internamente a Gaza – tra cui il carburante, l’acqua potabile, l’energia elettrica e le medicine – dipendono da Egitto e Israele. L’importazione di alcuni materiali è completamente vietata, tra cui le apparecchiature elettroniche (che potrebbero essere usate per costruire armi) e i materiali edili.

Israele giustificò l’embargo dicendo che i controlli servivano per fermare l’arrivo di armi a Gaza e quindi la militarizzazione dei gruppi radicali che operavano nel territorio, tra cui soprattutto Hamas. L’embargo però ha avuto conseguenze molto pesanti sulla popolazione civile: oggi a Gaza la disoccupazione è vicina al 50 per cento, le infrastrutture sono malridotte e il sistema sanitario è inadeguato, soprattutto a causa delle difficoltà nell’importare farmaci e strumentazioni mediche.

– Leggi anche: Vivere a Gaza è sempre stato difficile

2008: Un’altra guerra tra Israele e Gaza
Oltre all’embargo, Israele dichiarò Hamas come una “entità ostile”: il gruppo radicale non ha mai riconosciuto come legittimo lo stato di Israele, e si è sempre opposto ai tentativi di mediazione diplomatica.

Tra il 2007 e il 2008 ci furono continui attacchi e bombardamenti tra Hamas e Israele, interrotti solo da deboli cessate il fuoco. Gli scontri divennero particolarmente intensi tra il dicembre del 2008 e il gennaio del 2009. In risposta ai continui missili e razzi lanciati da Hamas sui territori israeliani vicini al confine con la Striscia, per tre settimane Israele bombardò Gaza e invase via terra il territorio della Striscia. Nei combattimenti, che si conclusero con un cessate il fuoco, furono uccisi almeno 1.200 palestinesi e 13 israeliani.

2014: L’ultima invasione di terra della Striscia di Gaza
Negli anni successivi i lanci di missili e razzi tra Israele e Hamas continuarono. Nell’estate del 2014 alcuni membri di Hamas rapirono e uccisero tre adolescenti israeliani che vivevano in una colonia in Cisgiordania, alimentando ulteriormente il circolo di attacchi e bombardamenti reciproci che andava avanti da anni.

Mezzi militari israeliani vicino al confine con la Striscia di Gaza, nel luglio del 2014 (Andrew Burton/Getty Images)

A luglio Israele entrò di nuovo nel territorio della Striscia con mezzi militari, con l’obiettivo dichiarato di distruggere le basi e le infrastrutture utilizzate dai miliziani di Hamas. Tra queste c’era anche l’estesa rete di tunnel sotterranei che i miliziani cominciarono a costruire nel 2007 per importare illegalmente beni di prima necessità e strumenti militari all’interno della Striscia, eludendo l’embargo imposto da Egitto e Israele.

– Leggi anche: Cosa sono i tunnel sotto la Striscia di Gaza

La guerra durò circa 50 giorni e furono uccisi oltre 2.200 palestinesi, tra cui moltissimi civili, e 71 israeliani (66 soldati e 5 civili). Centinaia di edifici nella Striscia di Gaza furono distrutti o danneggiati, tra cui scuole, case e ospedali. I combattimenti terminarono con un accordo simile ai tanti già sottoscritti negli anni passati, che prevedevano maggiori concessioni da parte di Israele verso gli abitanti della Striscia, mai davvero rispettati.

2018: Le proteste nella Striscia di Gaza
Nella primavera del 2018 furono organizzate varie proteste nelle zone della Striscia di Gaza vicine al confine con Israele, a cui parteciparono migliaia di persone. Le ragioni alla base delle manifestazioni erano tante, tra cui l’embargo imposto oltre dieci anni prima da Israele e dall’Egitto, l’assenza di lavoro e prospettive, il risentimento verso la classe dirigente palestinese e anche lo spostamento dell’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, città che sia israeliani che palestinesi considerano come capitale del proprio stato. I tanti malumori degli abitanti di Gaza furono sostanzialmente incanalati verso un’unica, grossa rivendicazione: il diritto a tornare ad abitare le terre da cui erano stati espulsi nel 1948, alla fine della prima guerra israelo-palestinese.

Le proteste furono organizzate da esponenti della società civile, ma ricevettero l’appoggio di Hamas: tra gli altri vi partecipò il leader del gruppo, Yahya Sinwar. In alcuni casi i manifestanti lanciarono rocce e bombe molotov al di là del confine, verso il territorio israeliano. Anche per questo Israele reagì con una dura repressione, uccidendo tra marzo e maggio del 2018 86 palestinesi e ferendone quasi 10mila con colpi di arma da fuoco sparati attraverso il confine dal territorio israeliano.

Proteste sul confine tra Israele e la Striscia di Gaza, nel giugno del 2018 (Ilia Yefimovich/Getty Images)

2021: Gli scontri a Gerusalemme, un’altra guerra a Gaza
Nel maggio del 2021 le tensioni sfociarono in una nuova guerra tra Israele e i gruppi radicali che operano nella Striscia, soprattutto Hamas. Le cause scatenanti furono principalmente due: lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, e l’intervento armato della polizia israeliana dentro e fuori la moschea di al Aqsa, nella Spianata delle Moschee, in seguito a vari scontri con le persone palestinesi arrivate sul posto in occasione delle celebrazioni per la fine del Ramadan.

Da Gaza, come ritorsione Hamas lanciò una decina di razzi verso Gerusalemme, a cui Israele rispose con pesanti bombardamenti sulla città di Gaza: iniziò una nuova guerra. I bombardamenti durarono 11 giorni e si conclusero con un cessate il fuoco. Almeno 256 palestinesi e 10 israeliani furono uccisi.