Le riforme della Costituzione sono sempre state complicate

E molto probabilmente lo sarà anche quella che vuole introdurre il governo Meloni: la storia repubblicana è piena di tentativi falliti

(Foto Roberto Monaldo / LaPresse)
(Foto Roberto Monaldo / LaPresse)

Venerdì 3 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge di revisione costituzionale il cui obiettivo principale è quello dell’introduzione del cosiddetto “premierato”, ovvero un rafforzamento delle prerogative del presidente del Consiglio, che verrebbe non più nominato dal presidente della Repubblica prima di ottenere la fiducia del parlamento, ma eletto direttamente dai cittadini e dalle cittadine. Il disegno di legge verrà ora inviato alle camere, che potranno però iniziare l’esame del provvedimento solo a partire dal 2024, dal momento che è ormai iniziata la sessione di bilancio in cui i lavori parlamentari sono concentrati esclusivamente sull’esame della legge di bilancio (oltre che sui decreti in scadenza).

Domenica il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha detto che fare previsioni sui possibili tempi di approvazione definitiva della riforma è difficile, ma che verosimilmente non ci sarà prima del 2025. Un percorso lungo, anche perché è la stessa Costituzione a prevedere procedure complesse in questi casi, e i precedenti degli ultimi decenni testimoniano come per i governi in carica si sia sempre rivelato complicato attuare una riforma costituzionale: specialmente se, come nel caso di Giorgia Meloni e della sua maggioranza, le proposte di revisione comportano un profondo cambiamento nell’assetto istituzionale dello Stato.

L’articolo 138 stabilisce che le leggi di revisione della Costituzione devono essere approvate da ciascun ramo del parlamento in due diverse sessioni, ad almeno tre mesi di distanza l’una dall’altra, e con la maggioranza assoluta degli eletti in ciascuna camera (e non la maggioranza semplice dei presenti in aula al momento del voto). Inoltre, se nella seconda votazione non si raggiunge la maggioranza dei due terzi dei componenti della Camera o del Senato, la riforma è approvata a meno che entro tre mesi non venga richiesto un referendum da un quinto dei membri di una delle due camere o da 500mila elettori o da cinque consigli regionali.

Le ultime quattro volte in cui il governo e la maggioranza parlamentare hanno cercato di introdurre modifiche sostanziali alla Costituzione, è stato richiesto il referendum confermativo: nel 2016 e nel 2006 gli elettori bocciarono la proposta di revisione, nel 2001 e nel 2020 invece la approvarono.

Ma i tentativi di riformare la Costituzione in realtà sono stati tanti. Dal momento della sua entrata in vigore il primo gennaio del 1948 si contano in totale 45 interventi normativi. In 26 casi si è trattato di leggi costituzionali, cioè che hanno lo stesso rango del testo costituzionale ma che non intervengono a modificarlo, bensì a integrarlo. Queste leggi hanno quasi interamente a che vedere con l’attuazione e le modifiche degli statuti regionali, oppure con la necessità di definire meglio il mandato di alcune istituzioni della Repubblica, e sono state quasi sempre approvate con un consenso largo e trasversale in parlamento. L’ultimo di questi esempi, nel settembre del 2023, è consistito nell’introduzione della promozione dello sport come valore educativo e sociale.

Le modifiche effettive alla Costituzione sono state invece 19. La prima risale al febbraio del 1963, e modificò tre articoli della Costituzione: il 56, il 57 e il 60. Con questa riforma, si stabilì che Camera e Senato avessero un numero di eletti fisso (630 deputati e 315 senatori), mentre prima veniva calcolato sulla base del numero degli elettori (un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni 200mila abitanti). Inoltre, uniformò la durata del mandato delle due camere in cinque anni, superando la formulazione originaria che prevedeva per il Senato un mandato di sei anni, anche perché le camere erano sempre state sciolte allo stesso momento anche prima. L’ultima riforma è stata approvata il 7 novembre scorso, e introduce il principio per cui la Repubblica si impegna a rimuovere gli svantaggi derivati dall’insularità, cioè dalla condizione di chi vive nelle isole.

In questi 75 anni sono stati numerosi anche i tentativi di riforma falliti. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta, quando la necessità di aggiornare la Costituzione diventò un tema ricorrente nel dibattito politico, e i partiti cercarono in varie occasioni di avviare in parlamento un lavoro di revisione costituzionale. Gli aspetti su cui insistettero di più le varie proposte di riforma furono principalmente due, sebbene declinati in modo diverso: il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio e il riconoscimento di una maggiore autonomia legislativa alle regioni.

L’inizio di questo lungo processo può essere fissato nel settembre del 1982, quando la presidente della Camera Nilde Iotti e il presidente del Senato Amintore Fanfani istituirono due comitati parlamentari (uno a Montecitorio, la sede della Camera, l’altro a Palazzo Madama, la sede del Senato) con il compito di suggerire gli interventi di riforma più utili. Il loro lavoro consistette nella formulazione di due «inventari», e nient’altro.

Nell’aprile del 1983, poi, venne creata una commissione bicamerale composta da venti deputati e venti senatori, e presieduta da Aldo Bozzi, allora capogruppo del Partito Liberale alla Camera e in passato ministro dei Trasporti. Dopo oltre un anno di lavoro, la commissione approvò una corposa relazione con varie proposte di modifica, che miravano tra l’altro proprio al potenziamento delle prerogative del capo del governo: il documento, consegnato al parlamento, non venne mai discusso.

Sul finire del 1988 ci fu un nuovo sviluppo sempre per volere dei presidenti delle due camere, Nilde Iotti e Giovanni Spadolini, ma anche questo fu sostanzialmente infruttuoso. Venne avviato un confronto che si prolungò fino al 1990, incentrato tra l’altro sull’opportunità di superare il bicameralismo perfetto, ma la proposta di riforma che ne uscì non superò mai una fase di analisi preliminare da parte della Camera.

Nel giugno del 1991 fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga a chiedere un nuovo sforzo ai partiti per riformare la Costituzione. Il dibattito parlamentare che ne seguì non portò ad alcun risultato concreto, ma fu in qualche modo il preludio all’istituzione di una nuova commissione bicamerale, composta da 30 deputati e 30 senatori, nell’estate del 1992. Fu presieduta inizialmente dall’ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita e poi dall’ex presidente della Camera Nilde Iotti.

Dopo oltre un anno di lavori, nel gennaio del 1994 presentò al parlamento un complesso disegno di riforma che prevedeva l’introduzione di 6 nuovi articoli e la modifica di 22 esistenti. La riforma avrebbe portato a una riduzione della durata della legislatura a quattro anni e al rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio, oltre all’introduzione del principio della sfiducia costruttiva per cui un governo può essere sfiduciato solo a patto che ci sia contestualmente una maggioranza alternativa pronta a sostenere un nuovo governo. In caso contrario si torna a votare. Nessuna delle due camere procedette all’esame del documento, tra le altre cose perché la legislatura finì in anticipo.

Con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, quel periodo storico che si concluse intorno al 1992 con le inchieste sulla corruzione dei partiti note come “Tangentopoli”, le cose non cambiarono molto. Il primo governo di Silvio Berlusconi istituì con un decreto un «Comitato di studio», presieduto dal ministro per le Riforme Francesco Speroni e composto da 16 giuristi e docenti universitari che elaborarono un’articolata proposta di revisione con due possibili forme di governo, una con il presidente del Consiglio eletto e l’altra con un semipresidenzialismo sul modello francese. Di fatto le proposte vennero ignorate dal parlamento.

Un tentativo più efficace ci fu nel 1997. Nel febbraio di quell’anno, durante il governo di Romano Prodi, venne istituita una commissione bicamerale composta da 70 parlamentari e presieduta da Massimo D’Alema. Sulla base di un accordo tra i partiti del centrosinistra e Forza Italia di Berlusconi, i lavori avevano lo scopo di introdurre un regime semipresidenziale, con l’elezione del capo dello Stato da parte dei cittadini, e proseguirono fino al giugno del 1998, quando fu lo stesso Berlusconi a rompere quell’accordo sancendo di fatto il fallimento dell’operazione.

Si chiuse così un periodo lungo oltre quindici anni in cui il progetto di revisione costituzionale venne affidato alla formazione di commissioni e comitati specifici. Di lì in avanti l’iniziativa riformatrice se la riprese il parlamento, come prevede la Costituzione stessa. Nel 2000 la maggioranza di centrosinistra avviò un processo di riforma costituzionale che modificava il Titolo V, cioè il rapporto tra governo, regioni e enti locali contenuto appunto nel quinto capitolo della seconda parte della Costituzione, quella dedicata all’ordinamento della Repubblica.

Il disegno di legge recuperava alcune delle proposte elaborate nella precedente commissione bicamerale, e non a caso lo volle proprio D’Alema, che nel frattempo era diventato presidente del Consiglio. La riforma prevedeva un rafforzamento dei poteri delle regioni, sottraendo buona parte della loro azione legislativa al controllo diretto del governo nazionale. Il processo di revisione avviato in parlamento nel novembre del 1999 e poi ripreso, dopo una lunga sospensione, nel settembre del 2000, fu approvato in via definitiva dal Senato l’8 marzo del 2001, quando mancava un mese alla fine della legislatura e con una maggioranza assoluta molto lontana dal limite dei due terzi.

Il 7 ottobre si tenne così il referendum confermativo, che era stato invocato da praticamente tutti i partiti in un contesto assai bizzarro: il centrosinistra che da maggioranza aveva voluto la riforma era nel frattempo diventato opposizione, mentre il centrodestra che aveva avversato la riforma ora si ritrovava al governo dopo aver vinto nel frattempo le elezioni. Il referendum si concluse con una netta vittoria dei “Sì”, con oltre il 64 per cento: la riforma costituzionale fu dunque approvata.

A quel punto il governo di centrodestra decise di proseguire nell’azione di revisione della Costituzione, con una modifica in senso ancor più chiaramente federalista rispetto a quella già entrata in vigore. Anche per questo tentativo di riforma non ci fu la maggioranza dei due terzi in parlamento, fu richiesto un referendum che anche in questo caso si tenne quando ormai la legislatura era finita e il rapporto tra maggioranza e opposizione invertito. Stavolta vinsero nettamente i “No” col 61 per cento, quindi la riforma non entrò in vigore.

Un decennio più tardi ci provò di nuovo il governo di Matteo Renzi, con risultati altrettanto scarsi. L’obiettivo fondamentale del disegno di revisione, in questo caso, era il superamento del bicameralismo perfetto con la creazione di un Senato con prerogative ridotte rispetto alla Camera, formato da sindaci e consiglieri regionali. La riforma prevedeva anche una riduzione dell’autonomia delle regioni, in controtendenza con le modifiche al Titolo V approvate nel 2001. Il disegno di legge “Boschi”, così chiamato perché la principale responsabile fu la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, iniziò il suo percorso in parlamento nell’aprile del 2014, venne approvato in via definitiva dalla Camera due anni più tardi ma senza la maggioranza dei due terzi. Si procedette così al referendum: il 4 dicembre del 2016 oltre il 59 per cento dei votanti bocciò la riforma.

La riforma costituzionale approvata nella scorsa legislatura ebbe una portata assai più limitata. Prevedeva la riduzione del numero dei parlamentari, portando da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori. Il progetto di revisione era stato inserito nel cosiddetto “contratto di governo”, cioè l’accordo politico tra Lega e Movimento 5 Stelle alla base del primo governo Conte nel 2018. Il disegno di legge concluse il suo percorso nell’ottobre del 2019, nonostante nel frattempo il governo fosse cambiato. Il referendum, nel settembre del 2020, confermò l’approvazione della riforma.

Ora lo scenario di un nuovo referendum, per quanto lontano nel tempo, sembra comunque scontato, perché è difficile che ci sarà una maggioranza dei due terzi di Camera e Senato a sostenere la riforma voluta dal governo Meloni. Tra le opposizioni l’unico partito a dirsi disponibile a un confronto, esprimendo comunque riserve e chiedendo già modifiche al testo, è Italia Viva di Matteo Renzi che comunque non è sufficiente per ottenere i voti necessari.