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  • Giovedì 19 ottobre 2023

Perché l’Egitto teme l’apertura del varco di Rafah

È l'unico passaggio che consente agli aiuti di entrare nella Striscia di Gaza e ai palestinesi di uscire: ma il regime egiziano ha problemi politici e di sicurezza

Il varco di Rafah visto dall'interno della Striscia di Gaza /EPA/HAITHAM IMAD)
Il varco di Rafah visto dall'interno della Striscia di Gaza /EPA/HAITHAM IMAD)
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L’Egitto sta avendo un ruolo importante e al tempo stesso controverso nella guerra tra Israele e Hamas, iniziata dopo l’attacco contro i civili israeliani del 7 ottobre. Il governo egiziano controlla il varco di Rafah, cioè l’unico passaggio di confine con la Striscia di Gaza che non porti in territorio israeliano, che consentirebbe agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia e ai profughi che scappano dai bombardamenti di uscire.

Il varco di Rafah, però, è chiuso da oltre dieci giorni, e ci sono ragioni militari, politiche ed economiche per cui ancora non è stato aperto. In questi giorni, su pressioni diplomatiche degli Stati Uniti, l’Egitto ha annunciato che consentirà un’apertura parziale del varco (il governo locale l’ha definita «sostenibile») per far entrare nella Striscia di Gaza alcuni aiuti umanitari. Su una cosa però il governo egiziano ha mantenuto una posizione intransigente fin dall’inizio del conflitto: l’Egitto non accetterà profughi palestinesi.

Questa è una cosa che il presidente autoritario egiziano Abdel Fattah al Sisi ha ripetuto più volte negli scorsi giorni. Mercoledì, in un discorso molto duro, ha detto per esempio che l’afflusso di migliaia di profughi palestinesi in Egitto sarebbe una minaccia per la pace nell’intera regione.

Il varco di Rafah era stato chiuso nei primi giorni del conflitto tra Israele e Hamas dopo che Israele aveva bombardato la zona circostante dal lato palestinese. I bombardamenti poi si sono placati, e ora di fatto è l’Egitto a tenerlo chiuso: sia per evitare passaggi di persone sia per il timore che, se l’Egitto farà entrare convogli di aiuti nella Striscia di Gaza, l’aviazione israeliana potrebbe bombardarli.

Questo rifiuto dell’Egitto di aprire il confine con la Striscia sta creando una situazione piuttosto critica attorno a Rafah. Il New York Times ha raccontato che da giorni ci sono decine se non centinaia di persone accampate all’addiaccio nella zona attorno al varco, in attesa di poter uscire. Molti sono cittadini con doppio passaporto, che sperano di poter essere evacuati. Il dipartimento di Stato americano, per esempio, stima che nella Striscia di Gaza ci siano ancora 5–600 persone con cittadinanza statunitense.

Persone accampate vicino al varco di Rafah (EPA/HAITHAM IMAD)

Ci sono alcune ragioni immediate per cui l’Egitto non vuole accogliere profughi palestinesi sul proprio territorio. La prima è che il paese non è preparato. La penisola del Sinai, che è la zona immediatamente confinante con la Striscia di Gaza, è una grande area semidesertica e scarsamente popolata priva di infrastrutture, dove peraltro negli anni scorsi c’era una forte presenza di gruppi jihadisti affiliati all’ISIS e dove tuttora operano milizie armate.

L’Egitto non ha i mezzi per accogliere decine o centinaia di migliaia di profughi, o per organizzare un sistema di accoglienza in breve tempo: l’economia egiziana è in condizioni disastrose, con un’inflazione al 38 per cento su base annuale (il massimo storico, in Italia siamo al 5,4) e uno stato che molto spesso non è in grado di pagare gli stipendi pubblici. Di recente il Fondo Monetario Internazionale si è rifiutato di concedere al paese alcuni prestiti già accordati, perché è convinto che l’Egitto non sarà in grado di ripagarli.

Bisogna anche considerare che, se anche il varco fosse aperto e ai palestinesi fosse concesso di fuggire, non tutti lascerebbero la Striscia di Gaza, nonostante gli intensi bombardamenti israeliani. Molti di loro, anzi, non intendono lasciare il proprio paese e le proprie case, convinti che se lo facessero avverrebbe una nuova nakba.

Nakba è una parola araba che significa “catastrofe” e indica il momento in cui, durante e dopo la guerra che seguì la formazione dello stato di Israele nel 1948, centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti a lasciare le proprie terre e a trasferirsi da profughi in Giordania e Libano. Da allora, Israele non ha più concesso ai profughi palestinesi di tornare, e attualmente si stima che circa cinque milioni di palestinesi vivano in campi profughi in vari paesi del Medio Oriente.

– Leggi anche: Breve storia della Nakba

Questa è un’altra ragione per cui il governo egiziano vuole evitare un afflusso di profughi palestinesi sul suo territorio: perché c’è il rischio concreto che una volta entrati non sarà più possibile farli tornare nelle proprie case. Il Financial Times ha riportato una conversazione tra un funzionario europeo e un collega del governo egiziano, che avrebbe detto: «Volete che ci prendiamo un milione di persone? Allora li manderò in Europa. Se ci tenete così tanto ai diritti umani, prendeteli voi». Il funzionario europeo ha poi commentato: «Gli egiziani sono molto molto arrabbiati».

Gli esempi di altri paesi che hanno accolto nei decenni scorsi profughi palestinesi sono piuttosto negativi: Libano e Giordania ospitano tuttora centinaia di migliaia di persone in campi profughi che da sempre costituiscono un enorme problema politico per i governi locali, a tal punto che in questi giorni anche re Abdallah II di Giordania ha ribadito che non intende accogliere più nessuno: «Niente profughi in Giordania, niente profughi in Egitto». Ovviamente le condizioni sono pessime anche per i profughi palestinesi, che nei campi vivono in condizioni inadeguate e subiscono discriminazioni e povertà.

L’Egitto teme inoltre che l’accoglienza dei profughi palestinesi si possa trasformare in un problema di sicurezza. Anche in tempo di pace il varco di Rafah è strettamente controllato. I palestinesi che vogliono entrare in Egitto devono affrontare una complicata burocrazia perché devono ottenere un permesso sia dalle autorità egiziane sia da quelle di Hamas, e spesso sono costretti a pagare somme piuttosto alte ad agenzie di viaggio nate apposta per velocizzare il processo.

Il confine è strettamente militarizzato. Il varco di Rafah prende il nome dalla città omonima, che è un luogo molto particolare perché dal 1982 è divisa in due tra la Striscia di Gaza e l’Egitto.

Da anni però l’Egitto, che è sempre più timoroso della situazione nella Striscia, porta avanti progetti per militarizzare il confine e trasformarlo in una specie di “zona cuscinetto” controllata in maniera capillare. Nel 2014 il regime di al Sisi decise di radere quasi completamente al suolo interi quartieri della città di Rafah per trasformare il suo territorio in una zona cuscinetto. Negli anni successivi cacciò dalla città parte della popolazione e demolì più di duemila edifici. Nel 2015 l’Egitto completò la costruzione attorno a Rafah di un fossato profondo 10 metri e largo 20, anche in questo caso con l’obiettivo di controllare meglio il passaggio di persone e mezzi.

Attualmente i timori del governo egiziano per la sicurezza sono di due tipi: il primo, più immediato, è che assieme ai profughi civili escano dalla Striscia di Gaza anche miliziani di Hamas e degli altri gruppi armati della Striscia, che potrebbero provocare disordini e scontri con Israele. Hamas peraltro, almeno in origine, faceva parte dei Fratelli Musulmani, un movimento islamista nemico di al Sisi e del suo regime.

– Leggi anche: Hamas è tante cose insieme

Mercoledì al Sisi ha anche fatto riferimento al fatto che, se si costituisse una comunità di profughi palestinesi in Egitto, i gruppi radicali palestinesi potrebbero usarla come base per lanciare attacchi contro Israele, e questo potrebbe mettere in pericolo la pace tra i due paesi, stipulata con gli accordi di Camp David del 1978. Fenomeni simili sono già avvenuti nei decenni scorsi in Libano, che a lungo fu usato dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), al tempo la principale organizzazione armata palestinese, come base per attacchi. Anche per questo Israele invase il Libano tre volte tra gli anni Settanta e l’inizio del Duemila.

– Leggi anche: La cronologia del conflitto israelo-palestinese