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  • Mercoledì 18 ottobre 2023

La Camera degli Stati Uniti è ancora senza speaker

Jim Jordan, parte della minoranza estremista dei Repubblicani, non ha ottenuto l'incarico nemmeno alla seconda votazione

La Camera dei rappresentanti, a Washington, il 18 ottobre 2023 (AP Photo/Alex Brandon)
La Camera dei rappresentanti, a Washington, il 18 ottobre 2023 (AP Photo/Alex Brandon)
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Negli Stati Uniti anche la seconda votazione per provare a eleggere il deputato Repubblicano Jim Jordan come nuovo speaker della Camera non è andata a buon fine. Jordan ha ottenuto solo 199 voti: per essere eletto speaker gliene sarebbero serviti 217, tutti all’interno del proprio Partito, dato che i voti contrari dei Democratici erano scontati e sicuri.

La Camera statunitense non ha uno speaker (l’analogo di un presidente) da due settimane, cioè da quando il precedente speaker Kevin McCarthy era stato rimosso con una mozione di sfiducia. Prima che fosse candidato Jordan il Partito Repubblicano aveva scelto come candidato per l’incarico Steve Scalise, leader della maggioranza alla Camera e Repubblicano di posizioni più moderate, ma Scalise stesso vi aveva rinunciato capendo di non aver sufficiente sostegno tra i deputati Repubblicani per ottenere l’elezione.

Le difficoltà dei Repubblicani nel trovare un nuovo speaker sono dovute alle profonde divisioni interne al partito, che negli ultimi anni si è spostato su posizioni sempre più estreme e la cui linea politica viene spesso decisa da una minoranza ancora più radicale e agguerrita, anche grazie allo scarso margine della maggioranza Repubblicana alla Camera: è di soli quattro seggi. Per la sfiducia a McCarthy erano bastati i voti di otto deputati, tra cui quello di Jordan. La sua elezione a speaker sarebbe stata un’altra vittoria per la componente estremista del partito.

Jordan, che è un deputato dell’Ohio, fa parte di questa minoranza di posizioni estremiste. Nel 2015 fondò l’House Freedom Caucus, gruppo che raccoglie alcuni degli esponenti Repubblicani più conservatori. L’ex speaker della Camera e collega di partito John Boehner lo definì un «terrorista legislativo», per sottolinearne le posizioni particolarmente radicali. Dal 2016 diventò uno dei più fedeli alleati di Donald Trump, fece parte del suo collegio difensivo durante il primo impeachment e successivamente ebbe un ruolo non marginale nel tentativo di mettere in discussione l’esito del voto delle presidenziali del 2020. Da gennaio è presidente della Commissione giustizia della Camera, posizione che gli ha permesso di avviare alcune indagini nei confronti del presidente Joe Biden.

Jordan era già stato votato dalla Camera martedì, ottenendo 200 voti, e successivamente alcuni Repubblicani che non lo avevano votato avevano detto di essere pronti a sostenerlo in una seconda votazione. Le cose però non sono andate in suo favore: mercoledì ha ottenuto un voto in meno. Dei 199 deputati che lo hanno sostenuto, due hanno cambiato il proprio voto da martedì, ma quattro che lo avevano votato al primo giro stavolta non lo hanno fatto (un altro che lo ha votato era assente martedì), quindi Jordan complessivamente ha perso più voti di quanti ne abbia guadagnati.

La scelta di vari Repubblicani di posizioni più moderate di non votare Jordan a costo di lasciare la Camera senza uno speaker rappresenta un’insolita prova di forza, perché in molte occasioni recenti i Repubblicani che rappresentano l’identità tradizionale del partito sono stati disponibili ai compromessi con quelli più radicali.

– Leggi anche: La crisi d’identità dei Repubblicani americani

Vista la difficoltà a eleggere un nuovo speaker tra i deputati si sta parlando dell’ipotesi di prolungare l’incarico di Patrick T. McHenry, deputato Repubblicano del North Carolina, che in questi giorni sta svolgendo i compiti dello speaker temporaneamente, al solo scopo di gestire le votazioni per eleggerne uno nuovo. I Repubblicani stanno discutendo della possibilità di votare una mozione per dare a McHenry il potere di svolgere pienamente i compiti dello speaker in questo periodo, ed eventualmente fino al 3 gennaio, per permettere alla Camera di votare nuove leggi. In particolare consentirebbe alla Camera di occuparsi dell’eventuale shutdown, la parziale chiusura delle attività del governo federale statunitense, a metà novembre, e dei conflitti in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza.