Chi fu Giorgio Napolitano

Primo presidente della Repubblica a essere rieletto, e prima a lungo leader dell'ala riformista del Partito comunista, è morto venerdì sera a 98 anni

(Fabio Cimaglia/LaPresse)
(Fabio Cimaglia/LaPresse)
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Giorgio Napolitano, ex presidente della Repubblica per due mandati tra il 2006 e il 2015 e primo della storia d’Italia a essere rieletto, è morto venerdì a 98 anni. Napolitano era in condizioni di salute precarie da molto tempo per via dell’età, e si era aggravato negli ultimi giorni: al momento della morte si trovava nella clinica privata Salvator Mundi a Roma. Una camera ardente verrà allestita a palazzo Madama, la sede del Senato, e martedì in piazza Montecitorio, fuori dal palazzo della Camera dei deputati, si celebreranno i funerali di Stato, laici: lo stesso giorno sarà dichiarato lutto nazionale.

Per decenni esponente di spicco del Partito comunista italiano (PCI) nella cosiddetta Prima Repubblica, poi presidente della Camera e ministro dell’Interno dopo il 1992, Napolitano raggiunse il massimo della sua influenza politica in tarda età, durante il primo mandato da presidente della Repubblica in cui si trovò a gestire momenti delicati dal punto di vista politico e turbolenti dal punto di vista economico.

Benché sia sempre rimasto all’interno dei dettami costituzionali, che prevedono un allargamento dei poteri del capo dello Stato nei periodi di maggiore instabilità del sistema politico, Napolitano è ricordato come un presidente della Repubblica particolarmente interventista. Durante il periodo della crisi dei debiti sovrani, che rischiò di far collassare l’economia italiana nel 2011, spinse per far dimettere l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nominando poi un governo tecnico presieduto da Mario Monti.

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Ma fu soprattutto durante la fase successiva, dopo le elezioni del 2013, che Napolitano diventò un presidente controverso, ritenuto a volte troppo ingombrante da alcune forze politiche. In quelle elezioni il Movimento 5 Stelle ottenne un risultato molto al di sopra delle aspettative, e il fatto che Napolitano nominò non uno ma due governi di “larghe intese” tra centrosinistra e centrodestra che escludevano il M5S venne usato a lungo come strumento di propaganda, per attacchi politici sia contro Napolitano stesso che contro i due presidenti del Consiglio di quegli anni, Enrico Letta e Matteo Renzi.

Sui giornali e tra i critici si cominciò a chiamare Napolitano “Re Giorgio”, un soprannome che poi avrebbe assunto in parte anche connotati positivi.

Napolitano nel 2006 (EPA/ALESSANDRO DI MEO)

Giorgio Napolitano nacque a Napoli il 29 giugno del 1925 in una famiglia della borghesia, tre anni dopo l’inizio del ventennio fascista. Il padre, Giovanni, era un avvocato e poeta, originario di Gallo di Comiziano, un piccolo paese della provincia di Napoli. La madre, Carolina Bobbio, era di origini piemontesi. Nei primi anni di vita abitò a Napoli, in via Monte di Dio, nei Quartieri Spagnoli a pochi passi da piazza del Plebiscito. Fece il liceo classico e si laureò in giurisprudenza all’Università di Napoli Federico II nel 1947 con una tesi di economia politica sul «mancato sviluppo del mezzogiorno».

Durante l’università Napolitano scrisse articoli per la rivista dei Gruppi universitari fascisti (GUF), un gruppo studentesco di volontari, e prese parte alle attività teatrali e cinematografiche. Recitò in alcuni spettacoli e scrisse sonetti in dialetto napoletano con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli.

Nel PCI Napolitano fece a lungo parte della corrente riformista, favorevole alla cosiddetta “via italiana al socialismo”. Per i riformisti la strada per arrivare al socialismo non era la contrapposizione netta al capitalismo o la rivoluzione. Bisognava portare avanti graduali riforme, con l’aiuto dei partiti socialisti italiani e ispirandosi ai partiti socialdemocratici europei. I riformisti furono sempre in contrapposizione con l’ala più radicale e di sinistra del PCI. Il principale esponente riformista era Giorgio Amendola, ma dopo la sua morte, negli anni Ottanta, Napolitano fondò la sua corrente di cui restò a lungo il capo: i “miglioristi”.

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L’adesione di Napolitano al comunismo moderato e riformista non fu immediata: fu un percorso lungo che nella sua autobiografia descrisse come «un’evoluzione» piena di un «grave tormento autocritico». Napolitano prese i primi contatti con gli esponenti del PCI già nel 1944, tramite le sue amicizie nei circoli intellettuali e culturali di Napoli, che era stata liberata dall’occupazione tedesca l’anno prima. Nel novembre del 1945, pochi mesi dopo la fine della guerra, si iscrisse al PCI. Prima di laurearsi, nel 1947, era divenuto segretario federale di Napoli e Caserta. Poi nel 1953 venne eletto per la prima volta al parlamento: da allora e fino al 1996, con l’unica eccezione della IV legislatura, venne sempre rieletto nella circoscrizione di Napoli.

Il momento più drammatico di quel periodo, come raccontò lui stesso, fu causato dall’invasione sovietica dell’Ungheria. In seguito agli accordi di pace stipulati alla fine della Seconda guerra mondiale l’Ungheria, come il resto dell’Europa orientale, si era trovata nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica. Gli ungheresi si ribellarono alla dittatura filosovietica e all’occupazione militare nel 1956, e la repressione della rivoluzione da parte dell’esercito russo costò più di duemila morti.

Fu un momento di crisi per il comunismo internazionale. In Italia il leader della CGIL Giuseppe Di Vittorio definì i sovietici «una banda di assassini». Diversi amici di Napolitano, tra cui Antonio Ghirelli e Giuseppe Patroni Griffi, si allontanarono definitivamente dal partito. La linea ufficiale però rimase saldamente filosovietica. L’Unità, all’epoca quotidiano del partito, definì i rivoluzionari «teppisti» e «spregevoli provocatori». Lo stesso Napolitano rimase su questa linea e disse che «l’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo», mentre quando avvenne una cosa simile il decennio successivo in Cecoslovacchia criticò l’invasione. Nel 2006 Napolitano volle fare la sua prima visita ufficiale da presidente della Repubblica a Budapest, la capitale dell’Ungheria, dove depose una corona di fiori sulla tomba di Imre Nagy, il presidente dell’Ungheria rivoluzionaria ucciso dai sovietici.

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Alla morte di Amendola nel 1980 la sua eredità venne raccolta dalla corrente dei “miglioristi”, di cui Napolitano fu leader a lungo. Il “migliorismo” derivava il suo nome dall’idea che fosse possibile “migliorare” gradualmente il capitalismo, attraverso una serie di riforme da portare avanti con una partecipazione attiva al governo.

Tra il 1989 e il 1991 si svolse il lungo processo iniziato con la cosidetta “Svolta della Bolognina”, che avrebbe portato allo scioglimento del PCI il 3 febbraio 1991. Per Napolitano furono anni in cui si distaccò sempre più dalla vita operativa nel partito per diventare una figura più istituzionale, una sorta di padre nobile della sinistra che  potesse assumere cariche importanti per cui era richiesta una certa imparzialità.
Nel 1992 venne eletto presidente della Camera, in piena crisi politica dovuta agli scandali di Tangentopoli e ai processi dell’inchiesta “Mani Pulite”. Durante il primo governo Prodi divenne il primo ministro dell’Interno proveniente dal PCI.

Per le stesse qualità venne nominato nel 2005 senatore a vita e poi diventò l’undicesimo presidente della Repubblica, eletto alla quarta votazione con 543 voti. All’inizio il suo mandato filò senza troppi scossoni, poi nel 2010 cominciò la crisi dei debiti sovrani. In estrema sintesi, nella crisi generale dell’economia dovuta al fallimento della grande banca d’affari americana Lehman Brothers, gli Stati europei più deboli dal punto di vista economico entrarono a loro volta in crisi, Italia compresa: lo spread, cioè il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, salì in maniera allarmante nel 2011 arrivando al suo massimo storico (574 punti base) a novembre.

Il governo era presieduto da Berlusconi, che non sembrava avere piena contezza della gravità della situazione, nonostante gli avvertimenti della Commissione Europea e degli altri capi di governo. Napolitano, si scoprì poi, aveva già sondato le possibilità di sostituire Berlusconi in estate. Berlusconi si dimise però soltanto il 9 novembre successivo, e Napolitano, sposando in pieno le indicazioni dell’Europa, nominò presidente del Consiglio l’economista Mario Monti. Disse che la cosiddetta austerity, fatta di tagli all’economia e rigore di bilancio, era necessaria e che sarebbe stato un periodo di sacrifici per l’Italia.

Per il modo con cui gestì la situazione e per l’immobilismo che stava attraversando il sistema politico di allora, alla scadenza del settennato Napolitano venne rieletto contro la sua volontà, a patto che da lì in avanti tutta la politica si impegnasse a portare avanti le riforme che servivano al paese. Questo messaggio venne sintetizzato efficacemente nel discorso al parlamento con cui Napolitano accettò di farsi rieleggere, un discorso fatto con i toni che avrebbe usato un docente di fronte a una scolaresca.

Si aprì un’altra fase di instabilità, perché c’erano appena state le elezioni nel febbraio precedente. Ne era uscito un quadro frammentato in tre poli, da un lato il centrodestra, dall’altro il centrosinistra, e in mezzo il Movimento 5 Stelle che non aveva intenzione di allearsi con nessuno. La formula che venne trovata fu un governo “di larghe intese” tra centrosinistra e centrodestra: individuò nel dimissionario vicesegretario del PD, Enrico Letta, la figura che avrebbe potuto mediare tra le due parti.

Il governo Letta però durò poco a causa dei sommovimenti interni al Partito Democratico e all’improvvisa crescita dei consensi dell’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi. A gennaio del 2014 diventò segretario del PD, mettendo Letta in minoranza, e il mese dopo fece cadere il suo governo. Di fronte a tutto questo Napolitano non ebbe un ruolo molto attivo, si limitò a dire che le sorti del governo dipendevano dal PD. La direzione del partito decise che Letta si doveva dimettere e Napolitano sancì la situazione nominando Renzi nuovo presidente del Consiglio.

A gennaio dell’anno successivo, viste le intenzioni riformatrici del governo che aveva nominato e vista l’età già piuttosto avanzata, Napolitano si dimise dalla sua carica: prima di lui lo avevano fatto solo Antonio Segni (per motivi di salute), Giovanni Leone e Francesco Cossiga, entrambi quando mancavano soltanto pochi mesi alla fine del settennato. Nel discorso di fine anno del 2014, Napolitano aveva detto: «A quanti auspicano – anche per fiducia e affetto nei miei confronti – che continui nel mio impegno, come largamente richiestomi nell’aprile 2013, dico semplicemente che ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono, e dunque di non esitare a trarne le conseguenze». Gli succedette Sergio Mattarella, ancora oggi in carica, anche lui al suo secondo mandato.

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