Come andò con Monti, dieci anni fa

L'ultima volta che fu affidato il governo a un economista esterno alla politica eravamo in mezzo a una grossa crisi, benché diversa: alcune cose funzionarono, altre no

Mario Draghi e Mario Monti alla sede della Banca d'Italia, Roma, 31 maggio 2017 (ANSA/CLAUDIO PERI)
Mario Draghi e Mario Monti alla sede della Banca d'Italia, Roma, 31 maggio 2017 (ANSA/CLAUDIO PERI)

L’attuale situazione politica, quella di un presidente del Consiglio incaricato come Mario Draghi scelto fuori dalla politica per cercare di risolvere una crisi di governo che si era sviluppata nel contesto di una crisi assai più grave e ampia, ricorda per molti versi quello che accadde nel 2011, quando l’ex commissario europeo Mario Monti formò un “governo tecnico”, il secondo nella storia repubblicana dopo quello presieduto da Dini alla fine degli anni Novanta. Non sappiamo ancora come sarà composto l’eventuale governo Draghi, ma le prime impressioni sono che invece si possa probabilmente arrivare a un governo più tradizionalmente “politico”, cosa che lo renderebbe ulteriormente diverso da quello di dieci anni fa. Ma il contesto e la genesi dell’incarico anomalo hanno fatto ricordare a molti l’eccezionalità di allora. Mario Monti era un economista di 68 anni, noto per i suoi ruoli nelle istituzioni economiche dell’Unione Europea e nell’Università Bocconi a Milano, e con una visibilità pubblica legata soprattutto alle collaborazioni con il Corriere della Sera.

Come andò il governo Monti è stato oggetto di estese discussioni, e ancora oggi certi aspetti di quel governo ritornano ciclicamente nel dibattito politico: ma che risultati ottenne davvero il governo Monti è un discorso più complesso di come viene solitamente presentato. Utile, tra le altre cose, per capire cosa accomuna e cosa distingue quell’esperienza da quella che potrebbe aprirsi adesso, al di là delle analogie più superficiali.

Il contesto
La crisi finanziaria del 2008, cominciata negli Stati Uniti con il fallimento della banca Lehman Brothers, aveva provocato nell’Unione Europea una grave recessione e, a partire dal 2010, la cosiddetta crisi del debito sovrano. Il debito di alcuni paesi era cioè aumentato in modo molto rischioso, e una bancarotta dell’Italia era diventata non solo realistica, persino probabile. Dal 2008, al governo c’era Silvio Berlusconi, e Giulio Tremonti era il suo ministro dell’Economia e delle Finanze.

Il 3 agosto del 2011 Berlusconi intervenne alla Camera per un’informativa sulla crisi e cercò di rassicurare tutti sulla solidità del sistema economico, bancario e politico del paese, nonostante il crollo della Borsa. A fine ottobre mandò una lettera all’Unione Europea con i propositi per affrontare la situazione e in novembre, dal G20 di Cannes, Berlusconi dichiarò che i consumi non erano diminuiti, che sugli aerei si faticava a prenotare un posto, e che i ristoranti erano «pieni». Pochi giorni dopo, con il compito di verificare l’attuazione delle misure promesse, in Italia arrivarono i commissari europei.

Nel frattempo, e nel giro di pochi mesi, lo spread aveva raggiunto livelli record, e quando toccò quota 574 punti, il 10 novembre del 2011 il Sole 24 Ore mise in prima pagina un titolo enorme: “Fate presto”, una citazione di un famoso titolo sul terremoto in Irpinia del 1980. Il giorno prima, il 9 novembre, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva nominato Mario Monti, ex commissario europeo, senatore a vita. Poco dopo, come senatore a vita, Monti si presentò al Senato dove era in discussione la legge di stabilità, ultimo atto del quarto (e ultimo) governo Berlusconi.

A quel tempo quello di Monti era il principale nome, praticamente l’unico, che veniva fatto tra i possibili presidenti del Consiglio che potessero guidare un governo capace di attraversare la grave crisi economica e finanziaria, di avere statura internazionale e un profilo super partes. Tra chi evocava un commissariamento della politica e della democrazia, chi si rassegnava al fallimento della classe politica e riteneva necessario un aiuto esterno, e chi in questa stessa richiesta vedeva comunque un’opportunità, Monti riuscì alla fine a formare un governo scegliendo personalità al di fuori della politica attiva. Rimase in carica dal 16 novembre del 2011 all’aprile del 2013.

Nel governo Monti c’erano professori universitari, avvocati, un magistrato, un banchiere (Corrado Passera), due giuristi, una prefetta (Anna Maria Cancellieri), un ambasciatore e anche un ammiraglio (Giampaolo Di Paola, unico caso nella storia della Repubblica di un militare ancora in servizio a diventare ministro). Alcune ministre sarebbero state ricordate più di altri.

«All’epoca lo stato non era sicuro di potersi finanziare, erano in dubbio i pagamenti delle pensioni e i pagamenti degli stipendi dei dipendenti pubblici. C’era una pressione vera dei mercati finanziari» riassume Ferruccio De Bortoli che all’epoca era direttore del Corriere della Sera. «I mercati costrinsero Berlusconi a rinunciare alla presidenza del Consiglio. Allo stesso tempo – e questo dovrebbe essere di insegnamento – vi fu una responsabile presa di posizione delle forze politiche: di Berlusconi, e delle forze politiche. Un gesto di responsabilità nazionale che però durò assai poco».

Il governo Monti cadde quando nel dicembre del 2012 il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi lasciò la maggioranza e quando, subito dopo l’approvazione della legge di stabilità, Monti rimise il proprio mandato al Presidente della Repubblica, scegliendo poi di candidarsi alle politiche del 2013 alla guida di una lista centrista.

L’economia
Una volta ricevuto l’incarico, Monti dichiarò subito di voler completare per intero il mandato, e nel discorso che fece al Senato e alla Camera, che poi gli votarono la fiducia, parlò di un «governo di impegno nazionale» che si sarebbe retto su tre pilastri: rigore di bilancio, crescita ed equità.

«In un primo momento», scrisse il Post in un editoriale del 2013, «il governo Monti diede la sensazione che degli interventi drastici e dei cambiamenti di direzione fossero stati presi, e che i ministri avessero delle idee in testa. Sbagliate, in alcuni casi, sbadate in altri, e chissà dove avrebbero portato: ma per diversi mesi sembrò si stesse andando da un’altra parte, con altre persone e altri approcci, almeno. Sembrava diverso. Non ci diede passioni ed entusiasmi, il governo Monti, ma almeno ci convinse che fosse sensato rinunciarci per un po’ e inevitabile fidarsi».

Quello di Monti fu il governo delle “scelte impopolari” e dell’austerità, delle riforme economiche, fiscali e previdenziali che l’Unione Europea chiedeva all’Italia e che i partiti non erano stati in grado di attuare. Fu quello della riforma delle pensioni di Elsa Fornero (contenuta nel cosiddetto “decreto Salva Italia”, la prima norma introdotta dal governo Monti), dell’IMU sulla prima casa, del pareggio di bilancio in Costituzione, delle liberalizzazioni, e della razionalizzazione della spesa pubblica.

Ferdinando Giugliano, opinionista di Bloomberg ed esperto di economia che scrive anche per Repubblica, dice che il giudizio più condiviso sul governo Monti «è che impiegò il suo capitale politico per le misure di consolidamento fiscale, mentre lasciò in larga parte inevasa la sua agenda di riforme strutturali». Il successo forse maggiore del governo, spiega, «fu la riforma Fornero, uno degli interventi che aiutò di più la sostenibilità dei conti pubblici a lungo termine e che favorì l’equità intergenerazionale. Questo al netto del fatto che la riforma è stata poi politicamente catalogata come un disastro».

Nonostante la discussione sul bilancio complessivo del governo Monti sia ancora in corso, oggi molti economisti credono che le scelte di aumenti delle tasse fatte in quel periodo siano state eccessive. Giugliano spiega che «Monti si trovò a operare in un contesto difficile e a dover fare delle scelte di politica di bilancio molto forti: e non è detto che quelle soluzioni siano state le migliori. Ma dato il contesto forse c’era poco altro che si potesse fare».

Dario Di Vico, giornalista del Corriere della Sera, spiega a sua volta che sul governo Monti grava una sorta di damnatio memoriae: «Penso che ci sia un punto mediano, nelle critiche anche eccessive che circolano. Ha fatto delle cose importanti, e ha fatto anche degli errori. Storicamente resterà il fatto che in un momento di grave crisi, ha messo in sicurezza il paese».

Le riforme
È vero che il governo Monti venne considerato un “governo tecnico” di emergenza, ma è anche vero che intervenendo sul risanamento dei conti prese molte decisioni che ebbero conseguenze politiche: la riforma del lavoro e la sostanziale modifica dell’articolo 18, la responsabilità civile dei magistrati, l’assenza di interventi sul conflitto d’interessi e la stessa riforma delle pensioni. Ed è sul piano delle riforme che, secondo gli osservatori, il governo Monti si rivelò più debole.

La riforma Fornero costituiva il punto principale del cosiddetto “decreto Salva Italia”. Fu presentata come un cambiamento necessario, per lo stato dei conti pubblici, anche se doloroso: sostanzialmente, allungava i tempi necessari per andare in pensione ed estendeva il metodo contributivo. Inizialmente fu accolta piuttosto bene dall’opinione pubblica, che alla fine del 2011 era molto preoccupata dai rischi derivati dalla situazione economica e dalla crisi della zona euro, ma poi venne criticata in maniera sempre più trasversale. Scritta in fretta e in un momento di emergenza, non dedicava sufficiente attenzione ad alcune categorie: per esempio i cosiddetti “esodati”, persone che avevano accettato il licenziamento in cambio di aiuti economici per arrivare fino all’età della pensione. Con l’entrata in vigore della riforma questi esodati si ritrovarono in un limbo, un lungo periodo scoperto sia dagli assegni frutto dell’accordo che da quelli pensionistici.

De Bortoli racconta che all’epoca disse che il governo Monti «aveva una sola cartuccia: la riforma delle pensioni, che fu fatta velocemente, ma così velocemente che si dimenticò degli esodati, tanto che nel tempo abbiamo avuto otto deroghe a quella stessa legge. Fu  una riforma brutale, ma necessaria, e va tenuto conto che in emergenza non c’è garanzia di equità. Quando si arrivò all’altra riforma necessaria, quella del lavoro, vennero fuori tutti i problemi del rapporto con le parti sociali, che avevano già ingoiato una legge sulle pensioni abbastanza dura».

Furono mesi, quelli del governo Monti, di proteste generali: protestarono tassisti e camionisti, benzinai e avvocati, farmacisti e giornalai, operai, notai, professori, studenti, movimenti e sindacati.

Le proteste contro Monti, Roma, ottobre 2012 (ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

«A un certo punto, quello di Monti sembrò un governo tecnocratico» spiega Di Vico: «Affrontò le questioni con competenza, prese anche decisioni molto coraggiose perdendo però di vista quello che stava avvenendo e senza accompagnare le riforme con un’attenzione alle dinamiche sociali. Fece tagli rapportati all’agenda di quel tempo, correttamente rapportati a quella fase, ma senza la capacità di raccordarsi con le persone e le parti sociali».

Monti, ha scritto Giugliano in un recente articolo, non riuscì «a ottenere abbastanza sostegno per riforme durature e significative»: «iniziò il proprio mandato con un forte sostegno popolare, che iniziò a crollare mentre cercava di approvare una riforma del mercato del lavoro impopolare».

Monti e l’Europa
Ciò che decisamente cambiò, con il governo Monti, fu il ruolo dell’Italia in Europa. Come era andata con Silvio Berlusconi fino a quel momento, è forse riassumibile nel famoso video dell’ottobre 2011 quando la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, rispondendo alle domande dei giornalisti sulla fiducia che riponevano nel presidente del Consiglio italiano, sorrisero a metà tra l’imbarazzo e lo scherno, anticipando una risata collettiva della sala stampa.


«Monti era tutto ciò che non era Berlusconi, e l’ampiezza iniziale del consenso anche parlamentare nei suoi confronti era la diretta conseguenza di un diffuso desiderio di voler uscire dal berlusconismo», dice Di Vico.

«Con Monti» spiega ancora Giugliano «avvennero cambiamenti importantissimi: la creazione del cosiddetto “fondo salva stati”, e l’ormai celebre whatever it takes di Mario Draghi che allora era presidente della BCE, che cambiò il modo di agire della BCE durante una crisi». Monti ritiene che si arrivò a quella svolta perché l’Italia, grazie al rigore di bilancio e alle riforme da lui introdotte, aveva guadagnato credibilità: intestandosi, di fatto, il raggiungimento di un rinnovato peso e spazio politico. Ma c’è chi, prosegue Giugliano, vede le cose in un altro modo: «Il cambio di passo da parte della BCE fu indipendente: arrivò da parte della BCE grazie al suo presidente di allora e al vasto consenso che quei cambiamenti trovarono nel suo consiglio direttivo».

Monti ieri, Draghi oggi
Il contesto attuale è molto diverso. «In entrambi i casi c’entra la parola crisi, ma sono crisi molto diverse» spiega Giugliano: «Quella di Monti fu una crisi economica ma soprattutto finanziaria, l’andamento dei titoli di stato era fuori controllo, e c’era il rischio default dell’Italia. Oggi la crisi è soprattutto sanitaria, c’è una pandemia in corso, quella economica è molto forte perché c’è una contrazione significativa del PIL, ma non c’è una crisi finanziaria. E la BCE, oggi, ha un atteggiamento in politica monetaria diverso da quello del 2011».

Dal punto di vista del lavoro che si appresta a dover affrontare, il governo che forse si formerà con Draghi presenta ben pochi parallelismi con quello di Monti. La differenza principale è che Draghi dovrà spendere, non tagliare: «L’incarico di Monti era portare disciplina di bilancio, tagliare la spesa e aumentare le tasse. Draghi dovrà perseguire una politica di bilancio espansiva anche attraverso la stesura del Recovery Plan e l’utilizzo dei fondi che arriveranno» spiega Giugliano.

Dal punto di vista delle riforme strutturali, le due esperienze potrebbero invece presentare delle similitudini: Monti doveva farle, e non è andata molto bene. E anche Draghi se ne dovrà occupare. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (da cui dipenderanno i circa 210 miliardi di euro di fondi che potrebbero arrivare all’Italia dall’Unione Europea con il programma Next Generation Eu, chiamato comunemente Recovery Fund) prevede infatti per l’approvazione un corposo programma di riforme.

«Viviamo in un momento di grande difficoltà e di fratture sociali che non vanno ignorate. In questa fase è necessario un governo che sappia fornire soluzioni competenti ai problemi strutturali che già c’erano, e ai quali si aggiunge la pandemia: oggi i temi della vita pesano di più, ci sono altre gerarchie di problemi. È dunque necessario un governo che sappia ricucire un rapporto con la società: con le imprese, con i sindacati e soprattutto con il terzo settore, cosa che un governo freddo come lo è stato quello di Monti non è riuscito a fare», dice Di Vico. E ancora: «Se Monti fece quell’errore, con Draghi l’errore sarebbe raddoppiato. Perché allora non vivevamo con la mascherina».

Nonostante le molte differenze, quindi, l’esperienza del governo Monti suggerisce dei rischi potenzialmente comuni al governo che Draghi potrebbe formare: che dovrà non soltanto creare un consenso sociale sulle riforme, ma anche politico, attraendo la maggioranza dei partiti verso le proprie posizioni. Sarà forse più semplice, soprattutto se l’eventuale governo Draghi sarà in parte formato da politici, magari anche da ministri già presenti nel precedente esecutivo, ed espressione diretta dei partiti che lo sosterranno.

Ma l’altra grande differenza, dal punto di vista del rapporto tra il governo più o meno tecnico e l’arco politico, è che con Monti non c’era alcun interesse a intestarsi i tagli, mentre con Draghi la tendenza potrebbe essere esattamente contraria. I partiti che dovessero andare a sostenere un governo di questa natura, spiega Giugliano, «comparteciperebbero a un programma di spesa, mentre prima si trattava di un programma di tagli, cosa più difficile da far accettare». Ma è anche vero, nota Di Vico, che «oggi Draghi non gode del vantaggio che aveva Monti: quello cioè di aver evitato il finale del Caimano. Draghi, insomma, inizialmente non godrà di quella rendita». Il presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte, del resto, gode di un esteso e trasversale consenso personale nei sondaggi di gradimento, a differenza di Berlusconi nel 2011.

Per De Bortoli, la situazione di crisi non è quella di allora, «ma è come se lo fosse: quindi non vorrei che il gesto di responsabilità nazionale che mi auguro avvenga oggi possa avere un corto respiro, come lo ebbe allora. Quell’emergenza c’è ancora adesso: se fallisse Draghi sarebbe fallita l’ultima carta del paese e ci ritroveremmo in condizioni non analoghe a quelle del 2011 ma nella sostanza non diverse, anche se avvertiamo meno il pericolo perché abbiamo una campana di vetro, quella dalla Banca Centrale Europea».