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  • Giovedì 4 febbraio 2021

«Whatever it takes»

Storia della frase più famosa di Mario Draghi, pronunciata nel 2012, nel momento peggiore della crisi economica in Europa

Mario Draghi a Cannes, in Francia, nel novembre 2011 (AP Photo/Remy de la Mauviniere)
Mario Draghi a Cannes, in Francia, nel novembre 2011 (AP Photo/Remy de la Mauviniere)

«Whatever it takes» è la frase più famosa di Mario Draghi, nuovamente molto citata e ricordata dopo che Draghi ha accettato l’incarico di formare un nuovo governo, mercoledì. È una frase che fu pronunciata il 26 luglio del 2012 durante un forum di investitori a Londra, nel mezzo della profonda crisi economica che aveva colpito l’Europa. Draghi, che allora era presidente della BCE, disse in inglese che la BCE avrebbe fatto «whatever it takes», «tutto il necessario» per salvare l’euro:

«All’interno del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto quel che è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza»


Draghi all’epoca era in carica da meno di un anno, e quella frase fu il simbolo non solo della sua presidenza ma di tutta la politica economica europea degli anni successivi a sostegno dei paesi dell’eurozona. Con quella frase, secondo gli esperti, Draghi riuscì a bloccare un processo di speculazione contro i debiti sovrani che stava minacciando di provocare default a catena tra i paesi più deboli dell’area euro e perfino di rompere l’unione monetaria. Christine Lagarde, che è succeduta a Draghi alla guida della BCE, ha definito quel discorso «le parole più potenti nella storia delle banche centrali». È grazie al «whatever it takes» e a tutte le misure arrivate in seguito per dare consistenza alle sue parole che Draghi è considerato oggi come il salvatore dell’euro.

Per capire l’importanza di questo discorso bisogna ricordare il contesto di crisi in cui fu pronunciato.

Tutto era cominciato nell’estate del 2011, quando lo spread – un indicatore economico della differenza tra il rendimento dei titoli di stato decennali italiani (i BTP) e quelli tedeschi (i Bund) – oltrepassò per la prima volta nella storia quota 300 punti base. Un rendimento basso (e dunque uno spread, dato che il rendimento dei Bund è rimasto sostanzialmente invariato e bassissimo negli anni) significa che gli investitori ritengono quel paese in grado di ripagare facilmente i suoi debiti, mentre un rendimento alto significa che ci sono dei dubbi (e quindi gli investitori vogliono essere “premiati” per il rischio che si prendono). Più il rendimento dei titoli aumenta, più diventa costoso per un paese rifinanziare il proprio debito. Anche se non c’è una connessione diretta tra le due cose, normalmente si ritiene che quando lo spread aumenta troppo il debito diventi insostenibile, e che l’unica soluzione sia un default o il ricorso ad aiuti internazionali.

Dopo la grande crisi globale del 2008-2009, cominciata negli Stati Uniti, alcune economie europee, principalmente quelle dei paesi periferici dell’eurozona, entrarono in recessione e iniziarono a mostrare grosse difficoltà, facendo temere gli investitori di non essere in grado di ripagare i propri debiti pubblici. Il primo fu la Grecia, nel 2010, e nell’anno successivo anche altri paesi come Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo cominciarono a vedere rialzi nei loro spread.

– Leggi anche: Mario Draghi: l’italiano che ha salvato l’euro

Con la crisi della Grecia che diventava sempre più evidente, nell’estate del 2011 tra esperti e operatori di mercato cominciò a diffondersi la preoccupazione di una rottura dell’area euro. In Italia lo spread aumentò gradualmente per tutta l’estate, fino ad arrivare al record di 574 punti base a novembre. Il 9 novembre di quell’anno Berlusconi si dimise e pochi giorni dopo venne sostituito da Mario Monti, un ex commissario europeo la cui figura autorevole, si pensava, avrebbe contribuito a rassicurare i mercati.

In realtà nei mesi successivi in Italia lo spread ebbe un andamento altalenante, finché nel luglio del 2012 il peggioramento della situazione dell’economia spagnola ebbe ripercussioni anche sugli altri paesi periferici, e in Italia provocò un ritorno dello spread sopra i 500 punti base. A quel punto, sembrava davvero possibile che senza un intervento deciso anche alcuni paesi grandi come Italia e Spagna avrebbero fatto default.

Si arrivò così al 26 luglio, e al famoso «whatever it takes». Con quella frase, Draghi avvertì i mercati che sarebbe stato disposto a usare gli enormi mezzi della Banca centrale europea per difendere ad ogni costo la tenuta dell’euro ed evitare che eventuali default dei paesi membri potessero mettere in crisi l’unione monetaria.

Lo disse con forte decisione (anche il tono ebbe una sua importanza), e per la prima volta in maniera così esplicita e chiara, facendo capire a banchieri e finanzieri che fino ad allora avevano scommesso contro la tenuta dell’euro che da quel momento avrebbero dovuto scommettere contro la BCE e le sue risorse praticamente infinite – e non si può vincere se si scommette contro una banca centrale.

Questo fu un segnale importantissimo per i mercati, perché fino a quel momento la BCE e in generale l’Unione Europea erano state piuttosto timide e indecise su come affrontare la crisi del debito sovrano: mentre negli Stati Uniti e in altri paesi sviluppati già da anni le banche centrali avevano cominciato ad acquistare titoli di stato e immettere liquidità nell’economia, nell’UE erano ancora in corso discussioni molto aspre tra i paesi membri.

Alcuni, come la Germania, erano contrari a far intervenire la BCE per abbassare lo spread di paesi come la Grecia, l’Italia e gli altri, perché temevano che questo avrebbe provocato un aumento pericoloso dell’inflazione. Inoltre, erano restii a usare le risorse comuni della BCE per aiutare paesi poco disciplinati dal punto di vista delle finanze, e per comprare enormi quantità di titoli di stato a rischio.

Il «whatever it takes» di Draghi pose fine a quest’incertezza. Già dopo pochi giorni i mercati internazionali invertirono la tendenza negativa e nel giro di qualche mese la crisi si calmò.

Nei mesi e negli anni successivi Draghi mantenne fede alla sua promessa. Presentò un piano di risanamento dell’economia europea che prevedeva l’acquisto di titoli di stato dei paesi in difficoltà senza limiti predeterminati. Nel gennaio del 2015, annunciò poi un nuovo piano di acquisto di titoli per 1.100 miliardi di euro, il cosiddetto “Quantitative Easing”, che ha sostenuto il mercato dei titoli di stato europei e posto fine alla crisi del debito sovrano.