L’italiano che ha salvato l’euro

Storia di Mario Draghi, «l'uomo di stato europeo più importante dell'ultimo decennio», che questa settimana ha lasciato la Banca Centrale Europea dopo otto anni

di Davide Maria De Luca

(Thomas Lohnes/Getty Images)
(Thomas Lohnes/Getty Images)

Quando nella sua ultima conferenza stampa da presidente della Banca Centrale Europea hanno chiesto a Mario Draghi se avesse progetti per il futuro, lui ha risposto: «Non lo so, dovreste chiedere a mia moglie». Dopo otto anni passati alla guida di una delle istituzioni più potenti d’Europa, l’uomo celebrato come la persona che ha salvato l’euro non se ne è andato con una grande cerimonia al Teatro dell’Opera di Francoforte, come aveva fatto il suo predecessore, ma soltanto con una modesta festa nel palazzo della BCE in cui ha ufficialmente passato le consegne al suo successore, l’ex direttrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde.

Nonostante l’uscita di scena sottotono, quello che è stato definito «il più importante uomo di stato europeo dell’ultimo decennio» ha lasciato dietro di sé un’eredità che mette d’accordo critici e apologeti soltanto su un punto: è un’eredità enorme. Mario Draghi ha profondamente cambiato la BCE e con essa ha contribuito a cambiare un intero continente. Anche i suoi più accaniti avversari non possono negare che l’Europa che abbiamo di fronte oggi è, in buona parte, l’Europa di Mario Draghi.

Ma cosa ha fatto Draghi per meritare questi riconoscimenti? Il mestiere di banchiere centrale appare remoto e per molti è difficile comprendere come le scelte di Draghi abbiano influenzano la nostra vita di tutti i giorni. Di recente il Financial Times, il grande quotidiano finanziario a lui più vicino, ha provato a riassumere in cinque punti la sua guida della BCE. Draghi, scrive il quotidiano, ha prima di tutto creato nuovi strumenti che la BCE oggi può utilizzare nello svolgere il suo mandato (che consiste nell’assicurare la stabilità dei prezzi e, di conseguenza, la stabilità economica della zona euro). Il più famoso di questi nuovi strumenti è il Quantitative Easing (QE). Con questi strumenti, Draghi ha sostenuto il mercato dei titoli di stato pubblici europei, contribuendo ad abbassare gli spread dei paesi periferici e consentendogli di finanziarsi a prezzi accessibili. Gli stessi strumenti hanno contribuito a combattere la disoccupazione, che oggi è scesa in Europa al livello più basso da un decennio. Infine, grazie alla sua fermezza e alla sua capacità di comunicare le sue intenzioni, Draghi ha scongiurato i timori di una possibile rottura della zona euro.

Il quinto punto della lista del Financial Times è anche l’unico che Draghi non è riuscito a raggiungere: mantenere l’inflazione a un tasso vicino ma inferiore al 2 per cento. Questo è anche l’unico obiettivo che è scritto a chiare lettere nel mandato della BCE. Ma per quanto Draghi abbia provato a raggiungerlo, il tasso-obiettivo gli è sempre sfuggito e l’inflazione è rimasta sotto le aspettative. Come ha scritto Frederik Ducrozet, economista e attento osservatore della BCE: «Il più grande paradosso di Mario Draghi è che è stato uno dei più attivi e credibili banchieri centrali europei nella storia moderna, ma lascia la BCE con il suo risultato peggiore in termini di inflazione-obiettivo». In questo però Draghi può contare su una discreta consolazione: l’inflazione non è sparita soltanto nell’Eurozona, ma sembra scomparsa inspiegabilmente da gran parte del mondo sviluppato.

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Criticare Draghi per non essere riuscito a portare l’inflazione al 2 per cento nel corso del suo mandato (come hanno fatto molti dei suoi avversari in questi giorni) significa allo stesso tempo smentire l’altra accusa che gli è stata mossa con ancora maggiore insistenza. Quella secondo cui, dando nuovi strumenti alla BCE (strumenti che, in un modo o nell’altro, portano tutti alla creazione di nuovo denaro) Draghi avrebbe portato l’inflazione fuori controllo. Tra i critici di Draghi i più duri sono stati, e sono tuttora, i grandi quotidiani e una parte consistente dell’opinione pubblica tedesca, tra cui spicca la Bundesbank, la banca centrale del paese: tutti dotati di una storica avversione all’inflazione e, più in generale, ai colpi di testa quando si parla di politiche monetarie. Draghi, dal loro punto di vista, si è comportato come un avventuriero che ha messo in campo una misura avventata dopo l’altra senza curarsi delle conseguenze allo scopo di aiutare i suoi amici italiani, spagnoli e greci.

Eppure i rapporti tra Draghi e l’opinione pubblica tedesca erano iniziati piuttosto bene. All’epoca della sua nomina a capo della BCE, nell’estate del 2011, Draghi si presentava come un esponente della più tradizionale ortodossia, un tipo senza grilli per la testa, come dovrebbe essere ogni banchiere centrale che si rispetti. Se era leggermente sospetto in quanto italiano (gli italiani, per molti i commentatori tedeschi, sono soprattutto spendaccioni che si approfittano del Nord Europa) aveva comunque una lunga e tradizionale carriera alle spalle in grado di tranquillizzare anche il più critico degli osservatori.

Al momento della nomina Draghi aveva 64 anni e negli ultimi sei aveva guidato con successo la Banca d’Italia in un percorso di graduale modernizzazione. Draghi è nato nel 1947 in una famiglia benestante. Il padre era un dirigente di Banca d’Italia, la madre una farmacista. Orfano di entrambi i genitori da quando aveva 15 anni, Draghi frequentò le più prestigiose scuole e università italiane e mondiali e studiò con alcuni dei più importanti economisti italiani, come Federico Caffè alla Sapienza di Roma e Franco Modigliani al MIT di Boston.

Dopo alcuni anni trascorsi a insegnare economia, Draghi iniziò una brillante carriera nel settore pubblico, arrivando a ricoprire per dieci anni il prestigioso incarico di direttore generale del ministero del Tesoro. Negli anni Ottanta, Draghi era il rampollo più promettente di una nuova generazione di tecnici che in quegli anni stava crescendo all’ombra dell’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, un gruppo a cui erano vicini tra gli altri i futuri commissari europei e presidenti del Consiglio Romano Prodi e Mario Monti. Formatosi durante l’iperinflazione degli anni Settanta e durante i governi del pentapartito negli anni Ottanta, il gruppo aveva sviluppato un forte scetticismo nei confronti della classe politica italiana, ritenuta incapace di fare le riforme necessarie al paese per tornare a crescere.

Ai loro occhi, l’unica strada per lo sviluppo passava per l’imposizione di una serie di vincoli esterni ai governi italiani, una sorta di camicia di forza che impedisse ai leader politici di sfruttare la spesa pubblica per ottenere consenso e che li obbligasse a perseguire riforme e politiche economiche prudenti. Quella camicia di forza era rappresentata dalle severe regole di bilancio europee e dalla trasformazione della Banca d’Italia in una moderna banca centrale indipendente, con la Bundesbank tedesca come modello. Nel corso degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, il gruppo fu al centro delle manovre che permisero all’Italia di entrare all’euro, un cammino portato avanti con l’appoggio quasi unanime delle forze politiche dell’epoca. Il prezzo da pagare fu l’applicazione di una severa disciplina ai conti pubblici. Per quasi un quindicennio l’Italia mantenne un avanzo primario – cioè una differenza positiva tra entrate e uscite, al netto della spesa per interessi – che, insieme ai proventi delle massicce privatizzazioni, portò alla riduzione del 20 per cento del debito pubblico. Sotto la supervisione dei “tecnici” come Mario Draghi, tra l’inizio degli anni Novanta e l’inizio della crisi economica l’Italia fu uno dei paesi più rigorosi d’Europa.

Terminata la fase di entrata nell’euro, Draghi trascorse due anni nella banca d’affari Goldman Sachs e, nel 2005, tornò in Italia dove venne nominato presidente della Banca d’Italia. Fu il culmine della sua carriera fino a quel momento. Alla testa del più prestigioso tra gli istituti economici italiani, Draghi supervisionò un fase di consolidamento del settore bancario italiano. Fu un periodo convulso di acquisizioni e fusioni durante il quale avvennero non pochi episodi controversi: parecchi dei semi sbocciati oggi in grandi fallimenti bancari furono seminati in quegli anni. L’episodio più controverso rimane probabilmente l’acquisto da parte di Monte dei Paschi di Siena di Banca Antonveneta, nel 2007, un anno prima della crisi. Fu un’acquisizione fortemente voluta dal settore bancario italiano, che temeva che Antonveneta potesse finire in mani straniere, e Draghi diede il suo benestare. Successivamente quell’acquisizione venne considerata l’ultima goccia che portò al fallimento della banca senese.

Se la storia della vigilanza bancaria negli anni Duemila è un capitolo che deve essere ancora scritto, per il resto Draghi fu un fedele seguace dei suoi maestri durante il suo mandato da governatore di Banca Italia. Nei suoi discorsi pubblici e nelle sue esortazioni ai governi, Draghi consigliava di mantenere i conti in ordine, di tagliare tasse e spesa pubblica e di ridurre il debito. La sua continua azione di “pungolamento” avrebbe potuto portarlo a una rottura con i governi guidati da Silvio Berlusconi, quelli che si allontanavano di più dalla tradizionale ricetta di rigore e prudenza condivisa in quegli anni. Anche se non mancarono alcuni scontri, Draghi seppe invece rimanere sempre molto diplomatico. Nel 2011, pochi mesi prima della caduta dell’ultimo governo Berlusconi, si complimentò con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti per la «prudente gestione della spesa durante la crisi» che aveva fatto sì che lo sforzo per restare immuni dal contagio economico fosse «minore che in molti altri paesi avanzati». Proprio in quei mesi il suo nome iniziò a circolare come possibile successore del francese Jean-Claude Trichet come terzo governatore nella storia della BCE, e il governo Berlusconi lo sostenne con convinzione.

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Quello di Draghi era un profilo gradito in tutta Europa. Durante l’estate si era ingraziato i paesi indebitati dell’eurozona appoggiando la decisione del suo predecessore di effettuare acquisti straordinari per sostenere il valore dei loro titoli di stato. Allo stesso tempo, però, aveva evitato l’inimicizia dei paesi ricchi del Nord firmando insieme a Trichet le dure lettere in cui la BCE elencava le riforme e i tagli di spesa che i vari governi dovevano impegnarsi a fare per avere accesso ai programmi di acquisto straordinario. Come hanno raccontato Alessandro Speciale e Jana Randow nella loro biografia di Draghi, L’Artefice, il futuro governatore della BCE riteneva di aver capito quale fosse la ricetta del successo. Ad alcuni amici spiegò che bisognava abbracciare la linea dura tedesca, dimostrandosi allo stesso tempo sensibili verso i problemi della periferia europea. Il risultato fu che quando a novembre Draghi si insediò ufficialmente nella Eurotower di Francoforte, il popolare tabloid tedesco Bild, che sarebbe diventato poi il suo più feroce critico, gli regalò un pickelhaube, il famoso elmetto chiodato di cuoio e ottone indossato dai militari prussiani (l’elmetto era un cimelio storico e risaliva alla guerra del 1870 tra Prussia e Francia).

La storia economica europea degli otto anni successivi è stata in gran parte scandita dalle sue scelte economiche e, soprattutto, dalle sue parole. Draghi è uno dei pochissimi uomini politici europei i cui discorsi sono già passati alla storia. Il più famoso è senza dubbio quello che tenne a un forum di investitori a Londra nel luglio del 2012, quando annunciò che la BCE avrebbe fatto «whatever it takes», «tutto il necessario» per salvare l’euro. Le sue parole ebbero un effetto immediato: i banchieri e i finanzieri che fino a quel momento avevano scommesso contro la tenuta dell’euro capirono che se avessero continuato Draghi avrebbe messo in campo la capacità della BCE di creare infinite quantità di denaro. Non si può scommettere contro una banca centrale e così, dal giorno dopo, gli spread iniziarono a calare e da allora non sono più tornati ai livelli che avevano raggiunto in quei giorni. Lagarde, succeduta a Draghi in questi giorni, ha definito quel discorso «le parole più potenti nella storia delle banche centrali».

Anche se chi accusava Draghi di spalancare le porte a una tempesta di inflazione è stato smentito, altre critiche non sono mancate. In questi giorni i media finanziari americani hanno descritto la sua eredità con toni molto meno celebrativi dei loro omologhi europei. Il Wall Street Journal, per esempio, ha pubblicato un commento in cui è scritto che Draghi lascia una BCE «divisa» sulle sue scelte. L’agenzia Bloomberg ha scritto che Draghi si lascia alle spalle un’eredità “tossica” per i banchieri. Insomma, Draghi avrebbe salvato l’euro, ma a un prezzo troppo alto: oggi c’è così tanto denaro in giro che le banche faticano a fare profitti prestandolo.

La stessa critica arriva dai commentatori tedeschi, che lo attaccano perché i bassi tassi di interesse hanno ridotto il rendimento dei conti correnti e dei fondi pensione dei risparmiatori tedeschi. In un recente articolo Draghi è stato rappresentato come il “Conte Draghila” intento a succhiare il sangue dei poveri cittadini tedeschi. Non stupisce che la Bild abbia formalmente chiesto a Draghi di restituirgli l’elmetto picklhaube che gli aveva donato (in una conferenza stampa, Draghi ha risposto molto seriamente alla richiesta: “Geschenk ist Geschenk”, ha detto in tedesco, “un regalo è un regalo”). Per le stesse ragioni, cioè per avere reso molto conveniente chiedere soldi in prestito, Draghi è anche accusato di aver reso la vita troppo facile ai governi indebitati, diminuendo la pressione dei mercati nei loro confronti che in teoria dovrebbe spingerli a fare le famose “riforme” necessarie a far ripartire la crescita.

Nel corso di decine di conferenze stampa durante il suo mandato, Draghi ha sempre risposto con pazienza a queste obiezioni. Ai risparmiatori tedeschi ha ricordato che la loro situazione sarebbe molto peggiore se la BCE non fosse intervenuta, perché in quel caso ci sarebbe stata recessione, crisi economica e maggiore disoccupazione. Alle critiche dei banchieri ha risposto dicendo loro che se è vero che fare profitti oggi è più complicato, la BCE li ha di fatto sussidiati per tutti questi anni, concedendo loro prestiti a tassi bassissimi. A coloro che lo criticano per l’azzardo morale che avrebbe causato allentando la pressione sui governi in crisi, ha risposto che le ricerche della BCE mostrano che dal 1975 ad oggi non esiste alcuna prova che la pressione dei mercati (leggi: lo spread alto) spinga i governi a fare riforme utili alla crescita.

Quelle di Draghi sono risposte largamente condivise. In un editoriale particolarmente duro pubblicato pochi mesi fa, il Financial Times ha scritto che i critici di Draghi «non hanno imparato niente, e non hanno dimenticato niente». Martin Wolf, principale commentatore economico del quotidiano, ha ricordato quanto Germania e risparmiatori tedeschi stiano già beneficiando grazie all’euro e nonostante gli effetti negativi della “cura Draghi”. Il Guardian ha puntato il dito contro la mancanza di soluzioni e proposte alternative da parte dei suoi critici.

Ma accanto alla critiche che potremmo definire “da destra”, Mario Draghi è stato anche uno dei bersagli preferiti della sinistra. Le lettere firmate insieme a Trichet in cui si suggeriva ai governi di Spagna e Italia una serie di misure da intraprendere (tra cui un’ulteriore flessibilizzazione delle regole sul lavoro) sono state duramente criticate come indebite intromissioni da parte di tecnici non eletti in una materia che dovrebbe essere squisitamente politica. L’ostilità nei confronti delle intromissioni della BCE è stata al centro delle grandi proteste di piazza in Spagna nel corso del 2011 e del 2012 e Draghi è stato per lungo tempo uno dei bersagli preferiti del Movimento 5 Stelle in Italia.

Tra le azioni di Draghi poche hanno incontrato critiche e accuse come l’appoggio fornito dalla sua BCE alla “Troika” formata insieme alla Commissione Europea e al FMI, incaricata di gestire gli aiuti alla Grecia. Draghi venne attaccato in particolare per la sua decisione di chiudere le banche greche nell’estate del 2015, quando il nuovo governo guidato da Alexis Tsipras annunciò la sua intenzione di ridiscutere le draconiane condizioni imposte al paese in cambio degli aiuti internazionali. L’allora ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, ne ha fatto un ritratto insolitamente severo nel suo libro Adulti nella stanza, in cui il governatore della BCE è descritto come una figura irresoluta e impotente. Varoufakis scrive che nel loro primo incontro, avvenuto il giorno in cui venne deciso di sospendere gli aiuti alle banche greche, Draghi gli fece capire che si era rassegnato ad accettare una decisione già presa dalla maggioranza del consiglio direttivo della BCE anche senza condividerla.

Servo dei poteri forti, oppure italiano spendaccione, quello che è certo è che Mario Draghi non è stato né un avventuriero né un rivoluzionario. Tutte le sue decisioni alla guida della BCE, anche le più controverse, sono sempre state assecondate da una schiacciante maggioranza del consiglio direttivo della banca, formato dai rappresentanti di tutte le banche centrali dell’eurozona. E sono state condivise anche fuori dalla BCE, dalla maggioranza degli altri banchieri centrali e degli accademici esperti della materia. Quando sono state sottoposte a un giudizio legale, hanno passato lo scrutinio persino dei severi tribunali tedeschi. Il suo annuncio che la BCE avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per proteggere l’euro era atteso da tempo, mentre il suo Quantitative Easing è arrivato soltanto cinque anni dopo che decisioni simili erano già state prese da tutte le principali banche centrali dei paesi sviluppati. Anche la sua ultima e più criticata decisione, quella di far ripartire il QE alla fine del 2019, è stata assecondata da una fetta maggioritaria del Consiglio della BCE (13 paesi contro 6). Come molti hanno notato nelle settimane successive, gli ultimi dati sulla situazione economica europea, con il motore tedesco della crescita continentale che sembra essersi arrestato, gli hanno dato ragione.

Lo stesso discorso si potrebbe fare sulla sua gestione del sistema bancario italiano o su quella della crisi greca. La decisione di trattare la Grecia con estrema severità non fu una scelta fatta soltanto da Draghi. L’accordo venne preso in maniera quasi unanime dai leader europei e fu condiviso da gran parte dell’opinione pubblica. Quando arrivò il momento di decidere, il governo di Syriza si trovò isolato e nemmeno i capi di governo di centrosinistra di Italia e Francia gli prestarono aiuto. Varoufakis può ragionevolmente sostenere che Draghi si lavò le mani della Grecia, ma con altrettante ragioni i difensori di Draghi possono sostenere che il governatore della BCE preferì non combattere una battaglia che era già persa per vincerne un’altra.

Nella sua ultima conferenza stampa, Draghi ha detto che il suo motto è «mai arrendersi». Ma avrebbe benissimo potuto dire «scegli bene le tue battaglie». Pur avendo avversari formidabili, Draghi è infatti sempre riuscito a manovrare in modo da trovarsi le spalle coperte da alleati potenti. E quando è arrivato il momento di fare le scelte importanti, Draghi ha fatto quelle giuste. Se alcuni possono accusarlo di non aver fatto abbastanza, anche loro devono ammettere che ha fatto abbastanza per evitare il peggio: una rottura disordinata dell’unione monetaria e la serie di default a catena che ne sarebbero seguiti. Di questo i molti che ne hanno beneficiato, soprattutto tra gli italiani, gli saranno grati a lungo.