• Cultura
  • Mercoledì 20 settembre 2023

Perché ci piace così tanto fare foto nei musei?

Ormai è permesso praticamente ovunque, anche se tra gli esperti d'arte c'è chi continua a pensare che svaluti l'esperienza

La Gioconda di Leonardo Da Vinci al Museo del Louvre, Parigi (AP Photo / Thibault Camus)
La Gioconda di Leonardo Da Vinci al Museo del Louvre, Parigi (AP Photo / Thibault Camus)
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La scorsa settimana il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, più spesso conosciuto come Reina Sofía, ha tolto il divieto di fotografare “Guernica”, il celebre dipinto di Pablo Picasso che ritrae il bombardamento tedesco e italiano sull’omonima città basca nel 1937, durante la guerra civile spagnola. Un portavoce del museo ha detto che «consentire che si scattino fotografie di “Guernica” ha lo scopo di migliorare l’esperienza della visione del quadro, avvicinandolo al pubblico e permettendo ciò che è stato possibile fare in altri musei per molto tempo».

La decisione del Reina Sofía ha portato a nuove riflessioni sul senso di fare foto nei musei e sull’ostinazione di alcune istituzioni che continuano a vietarle, ritenuta da qualcuno anacronistica. Dopo averlo vietato per anni, da una decina d’anni infatti sempre più musei hanno permesso al proprio pubblico di fotografare le opere esposte, anche se rigorosamente senza il flash, che potrebbe col tempo rovinare i pigmenti dei dipinti.

Come ha spiegato al New York Times l’esperta di musei Nina Simon, autrice del saggio The Participatory Museum, prima della diffusione degli smartphone e dei social media i musei vietavano le foto tra le altre cose perché temevano che le persone non avrebbero visitato di persona le esposizioni se avessero potuto vedere le immagini online. Questa paura però si è rivelata infondata, e anzi sono ormai i musei stessi a mettere sul loro sito e sui loro profili social le foto ad alta definizione delle opere esposte. Alcuni musei, come il Museo d’Orsay a Parigi, possono anche essere interamente visitati virtualmente, ma questo non ha portato a una diminuzione dei visitatori.

Il divieto di scattare foto è rimasto principalmente in musei privati, gallerie o mostre temporanee per motivi di copyright, dato che i diritti di riproduzione sono spesso riservati alla persona proprietaria dell’opera e si vuole evitare che qualcuno faccia una foto per rivenderla online. Ma ci sono alcuni musei più grandi che lo hanno mantenuto, giustificandolo con ragioni di sicurezza. Nel caso di “Guernica”, per esempio, il Reina Sofía proibiva di fare foto e di avvicinarsi troppo proprio per proteggere il dipinto da chi avrebbe potuto urtarlo o da chi, visto anche il grande numero di turisti, lo avrebbe fotografato senza togliere il flash.

Per molti anni “Guernica” è stato esposto al Museum of Modern Art di New York, finché nel 1974 Tony Shafrazi, un artista che divenne poi un celebre mercante d’arte, dipinse sulla tela “Kill Lies All” in lettere rosse, sia come gesto d’arte concettuale sia come protesta contro il rilascio di un tenente condannato per il suo ruolo nel massacro di My Lai durante la guerra del Vietnam. Il dipinto fu ritirato e restaurato e non riportò danni permanenti grazie a uno strato di vernice protettiva. Fu restituito alla Spagna nel 1981.

Altri musei importanti che mantengono il divieto, sempre giustificandolo con ragioni di sicurezza, sono per esempio il Prado a Madrid o la Cappella Sistina a Roma. Ma molti esperti sostengono che vietare le foto sia preferibile anche per altri motivi. Principalmente perché è un modo per migliorare l’esperienza di visita, viste le resse e gli intralci che causa un gran numero di persone intente a fare foto, ma anche per evitare che i musei diventino troppo dipendenti dall’immagine che i loro visitatori costruiscono per loro sui social media.

Guernica, Pablo Picasso, 1937, Reina Sofía, Madrid (Photo by Denis Doyle/Getty Images)

Secondo alcuni esperti d’arte Instagram ha contribuito ad accrescere la percezione dell’opera d’arte come di un feticcio, che fa sì che migliaia di persone ogni giorno siano disposte a fare lunghissime code dentro al Louvre per stare pochi secondi davanti alla “Gioconda” di Leonardo Da Vinci. Spesso impiegando quei pochi secondi per scattare un selfie che li ritrae davanti al quadro, posizionato dietro a un vetro e a debita distanza, per poi mostrare agli altri di esserci stati.

Questo comportamento, sostengono alcuni, svaluta l’esperienza intellettuale ed emotiva che si può avere davanti all’arte, e disturba coloro che invece la stanno cercando, contribuendo a quella che alcuni definiscono una progressiva “morte dei musei”. Già nel 2009 il critico d’arte britannico Jonathan Jones aveva definito quella creata dalle macchine fotografiche davanti alla “Gioconda” una «violenza distruttiva».

Inoltre, come spiega Simon, c’è anche la preoccupazione da parte dei curatori che il museo modifichi i propri obiettivi in merito alle mostre temporanee, preferendo quelle che hanno più potenziale di diventare virali a quelle più di nicchia (nonostante non ci sia per forza una correlazione fra quanto un’opera d’arte è “instagrammabile” e il suo valore artistico).

Altri sostengono che questa idea sia frutto di una concezione elitaria dell’arte e di come dovrebbe essere vissuta, quando dovrebbe essere di tutti e per tutti. Come scrive il critico d’arte Tom Emery sul Guardian, «l’idea di vietare la fotografia nelle gallerie porta con sé l’aspettativa che le persone debbano seguire delle regole non scritte per rapportarsi con l’arte. Ciò implica che se non sai comportarti bene, allora l’arte non fa per te, ma l’arte dovrebbe essere per tutti».

Il concetto di museo per come lo conosciamo oggi, d’altronde, deve molto all’Assemblea nazionale costituente della Rivoluzione francese, che decise di creare il Museo del Louvre affinché tutti i cittadini e le cittadine francesi potessero ammirare e imparare dai capolavori finora di proprietà delle classi nobili, che vennero comprati o direttamente sequestrati ai legittimi proprietari. Un pensiero simile era stato formulato già nel 1737 da Anna Maria Luisa de’ Medici, ultima discendente della famiglia Medici, che alla sua morte aveva lasciato la sua eredità vincolata alla città di Firenze «per ornamento dello Stato, e per utilità del Pubblico, e per attirare la curiosità dei Forestieri».

Di per sé, vietare le foto non rende l’esperienza dell’arte meno democratica, perché non esclude qualcuno ma soltanto un determinato comportamento, che peraltro può creare disturbo agli altri. È evidente però che per molte persone la possibilità di scattarsi foto nei musei, anche solo per mostrare di esserci stati, può rappresentare un’attrattiva senza la quale magari sceglierebbero di fare altre attività, col risultato di privarli della possibilità di avere, anche per caso, quell’esperienza emotiva e intellettuale tanto cara agli esperti del settore.

In più, scattare una foto non è necessariamente in conflitto con la contemplazione di un’opera e in molti casi può anche aiutarci in questo senso. Siamo abituati a pensare che fare troppe foto ci porti a ricordare meno le cose, poiché ci permette di delegare ai telefoni la responsabilità di preservare una memoria per noi. Tuttavia, proprio facendo visitare a delle persone una mostra e chiedendo solo a metà di loro di scattare delle foto, diversi studi hanno provato che chi aveva fatto foto, nonostante si ricordasse meno gli oggetti esposti che aveva visto rispetto agli altri, si ricordava invece molto bene alcuni loro dettagli. L’atto di scegliere un’inquadratura e scattare una foto può avere infatti un effetto positivo.

Come spiega l’esperta in gestione dei beni culturali Yuha Jung in Il museo ignorante: trasformare il museo elitario in un luogo di apprendimento inclusivo, «se il museo non incoraggia i visitatori a confrontarsi con gli oggetti a modo loro e a considerarne la rilevanza per i propri ricordi, la propria storia e la propria conoscenza, il museo diventa un semplice deposito di cui beneficiano solo poche persone».

Infatti, se fosse vero che le persone scattano foto nei musei solo per metterle sui propri profili social, questo non spiegherebbe l’enorme quantità di foto che le persone fanno alle opere d’arte e che poi non vengono pubblicate da nessuna parte, e finiscono quindi per non essere viste da nessuno.

Secondo uno studio condotto da tre università statunitensi fra cui quella di Yale, il semplice atto di scattare foto, anche se non verranno mai riguardate, può amplificare il nostro coinvolgimento in un’esperienza e farcela valutare in modo più positivo, se si tratta di un’esperienza positiva, e viceversa. In più, dato che guardare una foto ci può dare la sensazione di rivivere un momento del nostro passato, scattare fotografie in musei molto grandi e pieni di capolavori esposti in fila uno dopo l’altro può essere un modo per fissare da qualche parte le sensazioni provate e che si teme di scordarsi. E farsi un selfie o scattare una foto dove è inquadrato solo un dettaglio di un’opera, secondo Emery «trasforma quell’opera in qualcosa di personale, dandoti un senso di proprietà in modo che tu possa non solo vedere un Van Gogh ma portartene via un pezzo – uno che è tuo e di nessun altro».