Il British Museum è nei guai

Lo scandalo degli oggetti rubati si è allargato e ha portato alle dimissioni del direttore, in un periodo già molto complicato per il museo di Londra

(Eric Pouhier / Creative Commons)
(Eric Pouhier / Creative Commons)
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Da circa due settimane il British Museum di Londra, uno dei musei più importanti al mondo, è al centro di uno scandalo che sta avendo ripercussioni importanti sulla sua credibilità internazionale: Peter Higgs, curatore della collezione di antichità greche e romane, è sospettato di aver rubato circa duemila oggetti archeologici dai depositi del museo, che avrebbe poi rivenduto sulla piattaforma di e-commerce eBay, anche a prezzi molto bassi. Higgs è accusato di aver compiuto questi furti nell’arco di vent’anni, sottraendo gioielli d’oro, pietre semipreziose e oggetti di vetro datati tra il 1500 a.C. e l’Ottocento dalla collezione del museo, che complessivamente conta oltre 8 milioni di opere.

A fine luglio, il museo aveva annunciato all’improvviso le imminenti dimissioni del suo direttore, Hartwig Fischer, in carica dal 2016, poi avvenute il 25 agosto. Due settimane più tardi, dopo che la notizia era stata anticipata da alcuni quotidiani britannici, il museo aveva diffuso un comunicato in cui ammetteva che alcuni oggetti della collezione erano «scomparsi, rubati o danneggiati». In poco tempo si era però scoperto che erano moltissimi, quasi duemila, e che il museo era a conoscenza di questo problema almeno dal 2021, nonostante avesse licenziato Higgs solo a fine luglio del 2023. Per questo scandalo, Fischer si è dimesso.

Come spiega il Telegraph, che è stato il primo quotidiano a rivelare l’identità di Higgs, a febbraio del 2021 un commerciante danese, Ittai Gradel, aveva inviato al museo una email in cui dimostrava di aver acquistato su eBay un oggetto che sembrava provenire dalle sue collezioni. Per mesi, Gradel aveva continuato a contattare il museo, scrivendo di essersi accorto di aver acquistato a partire dal 2016 70 gioielli che sembravano essere custoditi negli archivi del museo. Tutti gli oggetti gli erano stati venduti dalla stessa persona su eBay, un certo Paul Higgins a cui però era collegato un conto PayPal intestato a Peter Higgs. Tuttavia, fino allo scorso ottobre, Fischer e il suo vicedirettore, Jonathan Williams (che si è dimesso in questi giorni), gli avevano risposto che era stata fatta un’indagine interna che non aveva rivelato alcun illecito.

Il presidente del consiglio di amministrazione del British Museum George Osborne ha detto alla BBC che alcuni pezzi sono già stati recuperati, e che è stata avviata «un’indagine indipendente» per capire se si sarebbe potuto evitare quanto successo e come impedire che accada di nuovo. Anche la polizia metropolitana di Londra ha avviato delle indagini, ma per ora non ci sono stati arresti. Peter Higgs non ha commentato pubblicamente la questione, ma suo figlio, intervistato dal Telegraph, sostiene che sia innocente.

Questo scandalo arriva in un momento molto delicato per il British Museum, che è impegnato in una campagna di raccolta fondi per finanziare un ambizioso progetto di restauro e riqualificazione delle collezioni. Ma da tempo la sua reputazione a livello nazionale e internazionale è compromessa dalle accuse, arrivate anche da alcuni membri del parlamento inglese, di essere «il più grande ricevente di beni rubati al mondo», come ha detto il King’s Counsel – un titolo attribuito dal re o dalla regina a un avvocato particolarmente autorevole nel suo campo – Geoffrey Robertson.

Negli ultimi anni i più importanti musei internazionali, specialmente quelli inglesi e francesi, sono al centro di un grande dibattito sulla necessità e sull’opportunità di restituire le opere nelle loro collezioni che furono saccheggiate durante il colonialismo. Se vari musei europei e americani hanno cominciato a restituirne alcune, il British Museum, la cui collezione è stata composta in larga parte in questo modo, è una delle istituzioni che più si oppongono a questa possibilità, appellandosi al British Museum Act del 1963, che vieta la restituzione di un’opera a meno che non si tratti di un duplicato, che sia danneggiata o «inadatta a essere mantenuta nella collezione» e non più di interesse pubblico. La discussione più nota su questo tema riguarda i marmi del Partenone, custoditi da oltre due secoli al British Museum dopo che furono staccati dal celebre tempio di Atene.

Il British Museum ha da sempre sostenuto di essere il luogo più adatto e sicuro per conservare queste opere, la cui importanza ha trasceso i confini dei paesi da cui provengono e le ha rese un patrimonio dell’umanità. Ad esempio, a differenza di alcuni musei che l’hanno già fatto, si rifiuta da tempo per questo motivo di restituire alla Nigeria la sua parte dei bronzi del Benin, un corpus di migliaia di manufatti che risalgono almeno al Sedicesimo secolo, 900 dei quali furono saccheggiati durante un’incursione punitiva delle truppe britanniche nel 1897. Commentando il recente scandalo Abba Isa Tijani, direttore della Commissione nazionale per i musei e i monumenti della Nigeria, ha detto che «è scioccante sentire che i paesi e i musei che ci hanno detto che i bronzi del Benin non sarebbero stati al sicuro in Nigeria sono essi stessi vittime di furti».

Come spiegato in un recente articolo di Le Monde, non è così difficile far scomparire dei piccoli oggetti dai depositi di un museo così grande, se si ha l’autorizzazione ad entrarci. Infatti, al British Museum solo una minima parte di opere – circa 80mila pezzi su 8 milioni – è esposta al pubblico in maniera permanente, mentre la stragrande maggioranza è conservata nei depositi, dove è accessibile ad esperti, ricercatori e personale del museo. Alcuni oggetti, come monete, pietre o anche gioielli, vengono anche archiviati in gruppo, e a meno che non si vada a contarli non è difficile sottrarne (o perderne) qualcuno senza farsi notare, cosa che è successa anche in altri musei importanti. Tuttavia la quantità di reperti rubati, le numerose segnalazioni e il lungo periodo di tempo in cui sono avvenuti i furti rendono quello del British Museum un caso unico.

In un articolo pubblicato dal mensile The Art Newspaper, Dan Hicks, curatore del Pitt Rivers Museum, il museo dell’Università di Oxford, ha scritto che a suo avviso, anche prima dello scandalo, il British Museum non raggiungeva gli standard minimi per quanto riguarda le modalità di archiviazione delle sue opere non esposte. Infatti, come dice lo stesso British Museum, il museo ha iniziato a catalogare la sua collezione solo 40 anni fa, e finora, degli «almeno 8 milioni di oggetti», ne ha registrati «circa la metà» in «più di due milioni di schede».

Di questi circa 4 milioni di oggetti catalogati, «due milioni» sono consultabili anche online dal pubblico. Hicks fa notare che l’utilizzo di queste cifre tonde e approssimative e il fatto che la catalogazione non sia ancora completa non si addicono ad un museo che sostiene di essere il luogo migliore al mondo per la conservazione delle opere d’arte. Secondo lui, questo ritardo è dovuto al fatto che il British Museum negli ultimi anni si è concentrato più sulle mostre temporanee e ha lasciato perdere il progetto di archiviazione, e che un catalogo completo e accessibile a tutti potrebbe generare ulteriori problemi in merito alla restituzione delle opere, dato che «dopotutto, è difficile chiedere le restituzioni, se non si sa cosa c’è nei depositi».

Tuttavia, come puntualizza Charlotte Higgins, caporedattrice della sezione cultura del Guardian, i fondi destinati ai musei statali britannici, incluso il British Museum, sono stati ridotti notevolmente dai governi in carica negli ultimi 15 anni, cosa che ha portato a un’inevitabile riduzione dei salari, del personale e ad un rallentamento di un lavoro, quello della catalogazione, che per un numero così elevato di oggetti ha bisogno di moltissime persone e mezzi.

Anche Lina Mendoni, ministra greca della Cultura, ha commentato l’accaduto ribadendo la richiesta che la Grecia fa da anni di avere indietro i marmi del Partenone. Secondo un sondaggio del 2021 citato da Le Monde il 59% dei cittadini britannici ritiengono che la Gran Bretagna debba restituirli alla Grecia. In questo caso però, il museo aveva già iniziato a muoversi nel 2022, aprendo una trattativa con il governo greco per riportare i marmi del Partenone nel paese attraverso un prestito della durata di cento anni, trattativa che rimane aperta.