Le trattative per restituire i marmi del Partenone

Vanno avanti da più di un anno tra il governo greco e il British Museum, ma ci sono pareri diversi su come stiano procedendo

La sala dei marmi del Partenone al British Museum (Dan Kitwood/Getty Images)
La sala dei marmi del Partenone al British Museum (Dan Kitwood/Getty Images)
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Quando il conte Elgin, ambasciatore britannico nell’Impero Ottomano, si prese i marmi dal Partenone di Atene e li portò a Londra, non poteva sapere che da lì a 220 anni si sarebbe ancora parlato delle conseguenze di quell’iniziativa. Soprattutto, non poteva sapere che sul lungo periodo quei marmi, che oggi si trovano al British Museum, sarebbero stati forse l’argomento più controverso e delicato delle relazioni diplomatiche tra Regno Unito e Grecia.

Mentre il Regno Unito sostiene che i marmi siano stati regolarmente acquistati da Elgin, i greci ritengono da tempo che si tratti invece di un tesoro saccheggiato, e in quanto tale vada restituito. Dopo anni di comunicazioni più o meno inesistenti e relazioni difficili, adesso sembra che le cose si stiano sbloccando e stiano prendendo una piega positiva per la Grecia: ma è presto per fare previsioni, perché i colloqui tra i due paesi sono ancora a uno stadio iniziale.

Che siano noti questi colloqui è un elemento già di per sé notevole. Finora le due parti si erano limitate a dichiarazioni pubbliche circostanziate, senza mai mostrare aperture in un senso o nell’altro. A inizio gennaio invece il British Museum ha confermato che è in corso una trattativa riservata con il governo greco che potrebbe portare alla restituzione di alcuni frammenti ma non di tutti. E questa settimana il New York Times ha pubblicato un articolo con una serie di dettagli sulla trattativa e alcune informazioni inedite sulle rispettive posizioni nel negoziato.

Chiamiamo “marmi del Partenone” i gruppi scultorei e i fregi che un tempo si trovavano nel principale tempio dell’Acropoli di Atene, e che ancora oggi sono considerati tra i maggiori capolavori artistici prodotti dall’umanità. Prima del passaggio di Elgin nell’Ottocento erano stati su quel tempio fin dal V secolo avanti Cristo, nella fattispecie sui due frontoni e sui quattro lati del tempio dell’Acropoli. I frontoni erano decorati ciascuno con una ventina di statue molto realistiche e dettagliate, che all’epoca dovevano costituire uno spettacolo ancora più notevole.

(Dan Kitwood/Getty Images)

I primi a tentare di saccheggiare il Partenone furono i veneziani, nel Seicento. In quel periodo la Grecia era un dominio dell’Impero Ottomano. Lo era anche a fine Settecento, quando Elgin venne nominato ambasciatore presso il Sultano di Costantinopoli. Da ambasciatore intraprese un viaggio in Grecia con l’obiettivo di studiare e acquisire le opere della Grecia antica, scontrandosi inizialmente con il vice-console francese Louis-François-Sébastien Fauvel. Quando Fauvel e altri francesi vennero arrestati dai turchi, Elgin si fece dare dalle autorità turche il permesso di effettuare sopralluoghi sull’Acropoli di Atene, con lo scopo di fare rilievi, disegni e calchi.

Poi nel 1803 riuscì a ottenere dal Sultano stesso un permesso che lo autorizzava a prelevare qualsiasi scultura o iscrizione dall’Acropoli, purché non mettesse a rischio le strutture della rocca.

Non si sa se Elgin agì su incarico del governo britannico o per iniziativa personale. Quello che si sa è che fu molto probabilmente agevolato da una posizione dominante, perché in quel periodo l’Impero Ottomano contava sul Regno Unito per proteggersi dalla Francia, ed era incline a fare concessioni. Qui sta la complicazione: tecnicamente ha ragione il British Museum a dire che l’acquisizione fu regolare, tuttavia la Grecia ritiene che Elgin abbia abusato della sua posizione, rivendicando tra le altre cose il fatto di non essere stata una nazione autonoma all’epoca.

Abusando della sua posizione oppure no, Elgin trasferì via nave più di 60 casse con dentro i gruppi scultorei e i fregi del Partenone. Li fece arrivare a Londra e nel 1816 li vendette alle autorità, che li esposero al British Museum.

In queste settimane sono usciti vari articoli che parlano dell’avanzamento della trattativa, pubblicati anche da testate affidabili come Bloomberg e il quotidiano greco Ta Nea. Secondo questi articoli, la trattativa avrà quasi sicuramente esito positivo e la chiusura di un accordo sarebbe vicina. Il New York Times, invece, ha smentito questa versione riportando informazioni provenienti da due fonti anonime vicine a chi sta negoziando, le quali ritengono che un accordo sia ancora lontano.

Secondo queste due fonti il negoziato va avanti da novembre del 2021, condotto dal primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e da George Osborne, ex ministro dell’Economia e ora presidente del British Museum. Gli incontri sarebbero avvenuti prevalentemente in un hotel di lusso o nella casa in città dell’ambasciatore greco. A volte a fare le veci di Mitsotakis c’era Giorgos Gerapetritis, un ministro senza portafoglio del governo greco.

Le due persone sentite dal New York Times sarebbero a conoscenza rispettivamente della posizione greca e di quella britannica nel negoziato. Stando a quanto detto da queste fonti, Mitsotakis vorrebbe che il British Museum restituisse tutti i fregi che un tempo ornavano il tempio, quasi ottanta metri di lastre di marmo intagliate e scolpite, per esporle in Grecia almeno per vent’anni. L’idea è che dopo quel lasso di tempo la posizione britannica si sarà ammorbidita ulteriormente, e a quel punto la Grecia potrà chiedere di farli restare lì in maniera permanente. Nel frattempo, Mitsotakis avrebbe offerto in cambio al British Museum il prestito di alcune opere d’arte e oggetti antichi di grande valore, che non hanno mai lasciato la Grecia prima d’ora.

Per quanto riguarda i marmi, cioè le statue dei frontoni, Mitsotakis vorrebbe negoziare un loro ritorno in Grecia in un secondo momento.

La controparte però non è nelle condizioni di accettare questa offerta. La posizione di Osborne è che il museo faccia un prestito a breve termine di una parte dei fregi e dei marmi, al massimo un terzo del totale. Una volta restituita la parte prestata, il museo ne presterebbe un’altra parte, via via più consistente «per riflettere la crescente fiducia tra le due parti», scrive il New York Times.

Il punto è che il British Museum può rimuovere un oggetto dalla propria collezione solo se questo è «inidoneo» all’esposizione, ovvero se presenta qualche tipo di irregolarità legale. Ma visto che secondo il museo Elgin acquisì i marmi legalmente, qualora un eventuale accordo non preveda la restituzione dei marmi, la decisione potrebbe essere oggetto di ricorsi e controversie legali. Per questo il British Museum spinge per un prestito a breve termine. Le fonti assicurano comunque che un eventuale accordo verrebbe scritto in modo tale che la Grecia non debba riconoscere la legittima proprietà al British Museum.

(EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA)

Nel frattempo il negoziato sta attirando l’attenzione di un gran numero di studi legali, esperti d’arte e direttori di musei. Comunque andrà a finire, la vicenda dei marmi influenzerà probabilmente il futuro del British Museum, che custodisce molti altri oggetti dalla provenienza controversa.

Peraltro il museo ha in programma per quest’anno un profondo intervento per rinnovare la struttura. Secondo il Financial Times i lavori costeranno 1,15 miliardi di euro circa, per cui servirà necessariamente il contributo di investitori e donatori, i quali potrebbero essere interessati all’esito della trattativa con la Grecia per scegliere se e quanto sborsare. Secondo Leslie Ramos, fondatrice di un’agenzia di consulenza per musei, il fatto che il British Museum abbia ammesso l’esistenza di una trattativa sui marmi del Partenone potrebbe essere un tentativo di «attirare nuove generazioni di filantropi».

La sensibilità intorno al tema delle restituzioni di opere d’arte, infatti, sta cambiando ormai da qualche anno. Spesso è un tema che si lega a quello del colonialismo, perché le collezioni di certi musei occidentali sono anche frutto delle antiche dominazioni dei paesi che ospitano quei musei. Il più delle volte è difficile dimostrare che un oggetto o un’opera siano stati acquisiti illegalmente, ma le restituzioni possono avvenire lo stesso come segno di riconoscimento e presa di distanza dal passato: è una pratica definita repatriation e avviata soprattutto grazie all’iniziativa dell’UNESCO, che nel 1978 creò una commissione intergovernativa proprio per incentivare le restituzioni dei beni culturali acquisiti illegalmente. L’obiettivo della commissione è di promuovere le relazioni bilaterali tra i paesi coinvolti, aiutandoli a trovare un accordo per eventuali restituzioni.

In ogni caso ultimamente le restituzioni sono aumentate: se prima erano soprattutto musei minori a farle, ora è un tema che è penetrato anche in realtà storiche e di rilievo. Soltanto lo scorso dicembre il Vaticano ha annunciato che donerà all’arcivescovo di Atene tre frammenti del Partenone che si trovano ai Musei Vaticani da due secoli. Anche lo Smithsonian di Washington e l’Humboldt Forum di Berlino si sono mossi in questa direzione, mentre il British Museum ha sempre mostrato una certa riluttanza anche solo a discutere pubblicamente argomenti di questo tipo. Nella collezione del museo non ci sono solo i marmi del Partenone che sono oggetto di controversie e richieste di restituzione, ma anche la stele di Rosetta, alcuni bronzi del Benin e una statua dell’isola di Pasqua.

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