Di chi sono le cose antiche nei musei?

Un dibattito articolato e complesso tra gli storici dell'arte cerca da tempo di dare una risposta, ma ci sono opinioni contrastanti

Una parte dei marmi del Partenone esposti al British Museum (Dan Kitwood/Getty Images)
Una parte dei marmi del Partenone esposti al British Museum (Dan Kitwood/Getty Images)

Per quanto antichi, i marmi del Partenone che si trovano nel British Museum di Londra sono in grado ancora oggi di provocare animosità e conflitti, anche a livello politico.

Chiamiamo “marmi del Partenone” i gruppi scultorei e i fregi che un tempo si trovavano nel principale tempio dell’Acropoli di Atene, e che ancora oggi sono considerati un capolavoro della storia umana. A inizio Ottocento furono rimossi e portati in Inghilterra dal conte Elgin, ambasciatore nell’Impero Ottomano (di cui la Grecia faceva parte). La questione di quale museo dovrebbe ospitarli è ancora aperta, e in Grecia è sentita sia tra la popolazione sia tra i politici: più volte il governo greco ha chiesto a quello britannico la loro restituzione – se n’è parlato anche in un incontro molto recente – ma finora ha ricevuto solo categorici rifiuti.

I “marmi di Elgin”, un altro nome con cui vengono chiamati, sono uno degli esempi più noti ed eclatanti che rimandano a una questione in realtà più estesa e complessa, cioè la legittima proprietà di oggetti e monumenti antichi presenti in molti musei occidentali.

La maggioranza di queste opere in origine non apparteneva all’entità politica in cui hanno sede i musei che le ospitano, e da lungo tempo in ambito politico, storico e artistico si dibatte su quale sia la sistemazione più sensata dal punto di vista storico e artistico per le statue antiche, spesso derubate o acquistate per pochi soldi secoli fa dai paesi che oggi le custodiscono. Un altro celebre caso di questo tipo è l’altare di Zeus del tempio di Pergamo, la cui parte più consistente oggi si trova a Berlino, ma che fu realizzato nel II secolo d.C. in un territorio che oggi fa parte della Turchia.

Di recente la rivista History Today ha raccolto le opinioni di alcuni storici e storiche che aiutano a orientarsi in questo dibattito. Va tenuto presente però che è impossibile delineare princìpi che vadano bene per ogni contesto e per tutti i casi, dato che molto spesso la collocazione di certe opere d’arte è frutto di passaggi tortuosi e frammentati.

Ioannis Stefanidis, docente di storia della diplomazia all’Università di Salonicco, cita per esempio la storia dei Cavalli di San Marco, un gruppo scultoreo in bronzo che raffigura quattro cavalli e che un tempo – probabilmente tra il IV e il II secolo d.C. – era collocato all’ippodromo di Costantinopoli, l’attuale Istanbul. Nel 1204, quando la città fu saccheggiata dai crociati, i cavalli furono portati a Venezia, e lì ci rimasero per secoli. Nel 1797 Napoleone li sottrasse durante le sue campagne militari in Italia, e li posizionò sull’Arco di Trionfo a Parigi. Dopo la sconfitta di Waterloo, i cavalli furono di nuovo trasportati a Venezia, nella Basilica di San Marco, dove si trovano tuttora.

I Cavalli di San Marco (Wikimedia Commons)

«Chi avrebbe diritto a reclamare il rimpatrio dell’opera?» si chiede retoricamente Stefanidis, citando la repatriation prevista dall’UNESCO. «I francesi, che l’hanno rubata per secondi? Dal punto di vista cronologico, la risposta è semplice: Costantinopoli nella sua forma odierna, Istanbul. Sono quindi i turchi che hanno il diritto di reclamare le statue, dato il loro legame con l’ippodromo, e nonostante l’assenza durata nove secoli e sebbene i cavalli non abbiano un legame con la cultura ottomana o turca?» (i cavalli sono infatti di produzione romana o ellenistica, a seconda delle interpretazioni).

«Il rimpatrio dei manufatti rimossi dalla loro collocazione originaria prima che questa pratica diventasse illegale solleva domande a cui non si può rispondere in modo generico o indiscriminato», sostiene Stefanidis.

Marie Rodet, docente di storia africana alla SOAS di Londra, ha invece opinioni più radicali. Secondo Rodet, i manufatti antichi andrebbero restituiti perché «furono saccheggiati o acquistati per un valore molto più basso di quello del mercato d’arte dell’epoca», e il fatto che sia complicato ricostruirne l’origine è una «fallacia». Spesso infatti la mancanza di informazioni su un certo oggetto è dovuta a incompetenza piuttosto che a difficoltà oggettive, dice Rodet: «Sono molto colpita dalla quantità di errori che trovo girando per mostre sull’Africa, grandi e piccole».

Molti degli oggetti provenienti dai paesi africani e mediorientali hanno dietro storie di saccheggi e traffico illegale. Ed è un problema che non appartiene solo al periodo coloniale, spiega Rodet, ma indicativo più in generale dello squilibrio tra collezionisti e artisti, che fu portato all’estremo durante i saccheggi dell’età coloniale: «È tempo che le gallerie, i musei e i collezionisti privati facciano il loro lavoro e ricostruiscano la storia degli oggetti in loro possesso, restituendoli come parte di un processo di riparazione in favore di quei paesi che furono vittime del colonialismo e dell’imperialismo europei».

Negli ultimi anni ci sono stati diversi casi di restituzioni di questo tipo, a cui di solito vengono attribuiti anche significati politici e diplomatici: un gesto di solidarietà e vicinanza del paese che restituisce nei confronti di quello che reclamava la restituzione. È un risultato che si deve principalmente all’azione dell’UNESCO, che dal 1978 ha creato una commissione intergovernativa per incentivare le restituzioni dei beni culturali acquisiti illegalmente. L’obiettivo della commissione è di promuovere le relazioni bilaterali tra i paesi coinvolti, aiutandoli a trovare un accordo per eventuali restituzioni.

 

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Nel 1978 l’allora direttore generale dell’UNESCO, il senegalese Amadou-Mathar M’Bow, scrisse:

«Oggi la speculazione sfrenata, fomentata dall’andamento del mercato dell’arte, spinge i trafficanti e i saccheggiatori a sfruttare l’ignoranza delle popolazioni locali e ad approfittarsi di ogni connivenza che incontrano. In Africa, in America del Sud, in Oceania e persino in Europa, pirati moderni con ingenti risorse […] spogliano e derubano i siti archeologici ancora prima che arrivino gli studiosi a fare gli scavi. Le donne e gli uomini di questi paesi hanno il diritto di recuperare i loro beni culturali: sono parte della loro identità».

Per essere considerata valida, la richiesta all’UNESCO deve includere un’attestazione del fatto che il bene chiesto indietro sia stato acquisito in modo illecito o a causa di un’occupazione straniera. La maggior parte delle restituzioni, comunque, avviene in casi in cui la provenienza illegale dei beni è acclarata: di solito sono oggetti rubati in tempi recenti, recuperati dalle autorità e restituiti ai legittimi proprietari.

«È difficile che un museo non si renda conto di avere un oggetto dalla provenienza illegale» dice Marcello Barbanera, docente di archeologia classica alla Sapienza di Roma. Le leggi negli ultimi anni sono cambiate, e oggi i beni culturali rubati o acquisiti illegalmente finiscono di solito in collezioni private, nascosti al pubblico, proprio per evitare che si scopra la loro provenienza. Per quanto riguarda le acquisizioni storiche che fanno parte di collezioni pubbliche, invece, il discorso è meno lineare.

«La maggior parte dei vasi greci antichi e più preziosi, per esempio, si trova in Francia, in Germania o in Inghilterra» spiega Barbanera. «Perché furono trovati durante gli scavi dell’Ottocento e acquistati regolarmente, con i diritti di esportazione e tutto il resto». In una situazione simile, stabilire la legittima proprietà di un oggetto diventa difficile: a chi spetta per esempio il diritto di esporre una statuetta etrusca, dato che gli etruschi sono scomparsi da secoli e gli abitanti della Toscana non possono definirsi in alcun modo i loro discendenti?

Quale che sia il modo in cui è stato acquisito un certo bene, secondo Barbanera certi ragionamenti hanno poco senso dal punto di vista storico: «Nel momento in cui un oggetto viene rimosso dalla sua collocazione originaria, il danno è già fatto. Riportarlo nel paese di origine, magari dopo secoli e a condizioni radicalmente diverse, non ripara quel danno».

Inoltre, certe acquisizioni storiche producono un nuovo senso, forniscono un ulteriore contesto alle statue o ai beni nei musei, specie quelli più celebri. I marmi del Partenone «hanno un’importanza enorme nella storia dell’arte europea. Furono uno shock dal punto di vista estetico, perché non si era mai visto nulla del genere. Vennero chiamati i maggiori esperti per studiarli, vennero invitati artisti da tutto il mondo per esaminarli, tra cui anche Antonio Canova», il celebre scultore italiano.

«Un modo migliore per sanare certe situazioni sarebbe, secondo me, quello di instaurare forme di collaborazione tra i paesi» conclude Barbanera. «Cioè, invece di mettersi l’uno contro l’altro sull’onda del nazionalismo, le istituzioni dovrebbero dirsi “ok, tu ti tieni questi due vasi, però mi finanzi ogni anno dieci borse di studio per imparare la tecnica del bronzo”, tanto per fare un esempio. Sarebbe un tipo di collaborazione più proficuo».

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