Qual è il problema delle sentenze sui casi di stupro in Italia

Spesso colpevolizzano le vittime e sminuiscono le violenze, per via di un sessismo diffuso e poca specializzazione nella magistratura

(ANSA/LUCA ZENNARO)
(ANSA/LUCA ZENNARO)
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La scorsa settimana sui giornali italiani sono usciti alcuni articoli molto critici sulle motivazioni di una sentenza emessa a marzo dal tribunale di Firenze: due giovani imputati per uno stupro di gruppo sono stati assolti perché non avevano «la piena consapevolezza della mancanza di consenso» della giovane violentata, la quale era alterata dall’assunzione di alcol e secondo il giudice aveva avuto comportamenti in passato che potevano aver creato un «fraintendimento». Il dibattito e l’indignazione su questo caso nei giorni successivi si sono sommati a quelli sullo stupro di gruppo avvenuto a Palermo, di cui sono accusati sette ragazzi intorno ai vent’anni. Sul caso le indagini sono però ancora in corso.

In generale da alcuni anni è diventato molto frequente che le sentenze su casi di violenze sessuali vengano commentate dai giornali e suscitino dibattiti. Spesso il motivo è che contengono argomenti o spiegazioni considerate sessiste ed espressione di una concezione dei rapporti sessuali e di genere che è alla base della cosiddetta “cultura dello stupro”, cioè un sistema radicato nella società che minimizza, normalizza e a volte incoraggia le violenze contro le donne. È un problema che non emerge solo dai giornali o dal dibattito online sui social network, ma che è stato in più occasioni condannato da istituzioni nazionali e internazionali, e che dipende dalla diffusione di pregiudizi e stereotipi radicati nei confronti delle donne, oltre che dalla mancanza di risorse e di una formazione specifica.

Le sentenze di cui si è parlato di più negli ultimi anni hanno alcuni tratti in comune ma sono comprensibilmente tutte diverse tra loro, come lo sono i casi su cui si esprimono. Se molte critiche si concentrano sulla decisione di assolvere l’imputato accusato di stupro, ci sono anche molti casi – la maggior parte – in cui ciò che viene messo in discussione non è tanto la decisione del giudice, quanto gli argomenti e il linguaggio che vengono usati.

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La sentenza del tribunale di Firenze è per certi versi esemplare di uno degli approcci che più spesso vengono criticati nelle sentenze di casi di stupro, e cioè quello di sottolineare precedenti episodi o atteggiamenti che riguardano la vittima ma che nulla hanno a che fare con la vicenda su cui i giudici sono chiamati a valutare. In questo caso infatti la sentenza riconosce che c’è stata una violenza sessuale, nel senso che effettivamente la vittima non era consenziente almeno da un certo momento in poi. Stabilisce però che i due imputati avevano «frainteso l’apparente disinvoltura di comportamento», e giustifica questo fraintendimento col fatto che la vittima «aveva “accettato” la presenza di “spettatori”» durante un rapporto sessuale che aveva avuto con uno dei due l’estate precedente.

Il fatto che la vittima avesse mostrato un anno prima di avere un rapporto con la sessualità disinibito, quindi, spiegherebbe il fraintendimento e la conseguente violenza, in un momento in cui peraltro la coscienza della donna era molto limitata dall’assunzione di alcol, condizione che semmai avrebbe dovuto indurre negli autori della violenza una maggiore attenzione alla sua espressione di consenso. L’articolo del codice penale sulla violenza sessuale, il 609 bis, dice infatti che la pena per questo tipo di reato vale anche per chi abusa «delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto».

La sentenza di Firenze è un esempio di un approccio molto diffuso che tende a giustificare le condotte maschili e colpevolizzare quelle femminili, spesso causando quella che viene chiamata vittimizzazione secondaria, che tra le altre cose consiste nel trasferire parte della responsabilità di quel che è accaduto sulla persona che quella cosa l’ha subita.

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Il limite più evidente della sentenza del tribunale di Firenze è che non viene spiegato come il giudice sia arrivato alla conclusione che almeno da un certo punto in poi dell’atto sessuale sia mancato il consenso della donna, ma riconosca comunque agli imputati un errore di valutazione, che toglie alla violenza compiuta uno degli elementi necessari per una sentenza di condanna, e cioè l’intenzione, il cosiddetto “dolo”.

Rispetto alla questione di come debba essere stabilita la presenza o meno di consenso nei casi di stupro è in corso da alcuni anni un denso dibattito giuridico e filosofico. In Spagna per esempio l’anno scorso è stata approvata una legge – conosciuta come la “ley del solo sí es sí” (la legge per cui solo il sì è sì) – che prevede che venga considerato stupro qualsiasi atto sessuale in cui una delle persone coinvolte non abbia dato il proprio consenso esplicito. In Italia una legge del genere è ritenuta da molti esperti non necessaria, dal momento che la Corte di Cassazione ha ribadito in più occasioni che il consenso deve essere esplicito (non necessariamente a parole, anche con comportamenti che lo implicano), e non si può mai presumere.

Le critiche fatte a quest’ultima sentenza ricordano per certi versi quelle a una nota sentenza del 2015, per il caso diventato noto come stupro della Fortezza da Basso. La Corte d’Appello di Firenze aveva assolto sei imputati, condannati in primo grado per violenza sessuale di gruppo, citando la «vita non lineare» della vittima, che era stata definita «un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la sua (bi)sessualità e di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta». Per quella sentenza l’Italia era stata condannata (ma non era la prima volta) dalla Corte Europea dei Diritti Umani, perché a prescindere dalla valutazione dei fatti nell’elencare le argomentazioni il giudice aveva riprodotto stereotipi sessisti e pregiudizi sul ruolo della donna, che in quanto «disinibita» se la sarebbe in un certo senso andata a cercare.

Non solo lo stile di vita di una donna e il suo rapporto con la sessualità non dovrebbero essere considerati nella valutazione di un caso di presunta violenza sessuale, ma ci sono numerose pronunce della Corte di Cassazione che sottolineano la rilevanza in ambito penale del “dissenso sopravvenuto”: anche in un rapporto sessuale che inizia con consenso, cioè, il giudice non dovrebbe mettere in dubbio che si sia consumata una violenza sessuale se a un certo punto dell’atto il consenso viene meno.

La questione della presenza di convinzioni e stereotipi sessisti nel lavoro della magistratura italiana è da tempo dibattuta all’interno della magistratura stessa, ma la discussione si è intensificata negli ultimi anni per via delle maggiori e più diffuse sensibilità rispetto al tema delle violenze sessuali, e ai richiami fatti da organismi internazionali. A luglio del 2022 l’Italia è stata richiamata dal comitato della CEDAW – la convenzione internazionale adottata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna – per una sentenza di un caso in cui una donna aveva accusato di stupro il carabiniere incaricato di raccogliere la sua denuncia di molestie nei confronti dell’ex marito.

Nel documento in cui il Comitato si pronunciava sul caso si leggeva:

Spesso i giudici adottano standard rigidi su ciò che considerano un comportamento appropriato per le donne e penalizzano coloro che non si conformano a tali stereotipi. Gli stereotipi influiscono anche sulla credibilità delle voci, delle argomentazioni e delle testimonianze delle donne come parti e testimoni. Questi stereotipi possono indurre i giudici a interpretare o applicare in modo errato le leggi. Ciò ha conseguenze di vasta portata, ad esempio nel diritto penale, dove i colpevoli non vengono ritenuti legalmente responsabili per le violazioni dei diritti delle donne, sostenendo così una cultura dell’impunità.

Tra le varie cose che il Comitato aveva fatto notare c’era che la Corte d’Appello aveva citato come prova del consenso della vittima il fatto che il carabiniere avesse fatto in tempo a mettersi il preservativo, spiegando che in quel caso «ci sarebbe stato un momento in cui una vera vittima di stupro sarebbe certamente fuggita».

In questo caso il pregiudizio riguarda l’idea che si ha comunemente di come una vittima di stupro dovrebbe comportarsi, ma che ha ben poco a che vedere con quello che dicono invece studi di psicologia ed esperti del campo. Nonostante sia un fenomeno ampiamente descritto, quando si valuta l’attendibilità del racconto di una donna che ha denunciato uno stupro viene spesso trascurato il cosiddetto freezing (congelamento). È una reazione di paralisi momentanea che si manifesta molto spesso nel caso di aggressioni sessuali e che impedisce a chi le subisce di reagire. Anziché essere considerata una risposta a un’azione violenta, spesso chi giudica questi casi la valuta come una “non azione” e quindi come evidenza del fatto che la vittima fosse in realtà consenziente.

In occasione del richiamo della CEDAW nel 2022, Paola Di Nicola Travaglini, magistrata tra le maggiori esperte di linguaggio sessista nelle sentenze, ha fatto notare come l’Italia sia uno dei paesi europei con «le legislazioni più avanzate ed efficaci in contrasto alla violenza contro le donne e l’unico paese europeo ad aver subito due condanne da corti internazionali per l’uso di pregiudizi discriminatori da parte della magistratura».

In Italia infatti gli articoli del codice penale e le leggi che regolano i procedimenti giudiziari nei casi di violenze sessuali ci sono, sono spesso aggiornati e recepiscono le più recenti direttive internazionali. La prima fra queste è la convenzione di Istanbul, il principale strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica, che l’Italia ha ratificato nel 2013. La convenzione di Istanbul riconosce tra le altre cose un diretto collegamento tra le violenze di genere e la cultura maschilista radicata nella società, presentando quest’ultimo come un dato oggettivo di cui i paesi che l’hanno ratificata non possono non tenere conto. Dice nello specifico che la violenza di genere «è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi», che ha «natura strutturale» ed è «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata».

Il problema in Italia quindi non sta nell’assenza di leggi o strumenti, ma in una cultura maschilista molto radicata e nella mancanza di risorse per applicare le leggi come si dovrebbe, oltre che per creare percorsi di formazione, aggiornamento e specializzazione adeguati. «La legge sul femminicidio del 2013, il “codice rosso” e tutte le riforme proposte sono quasi sempre a costo zero, e in un paese con un maschilismo così radicato non si può pensare di lavorare bene senza risorse», dice Elisabetta Canevini, giudice del tribunale di Milano che si occupa da anni di violenza di genere.

Canevini aggiunge che la specializzazione, cioè la presenza in un ufficio di magistrati che si occupano quasi esclusivamente di maltrattamenti e violenze di genere è prevista dalla Convenzione di Istanbul ed è stata resa obbligatoria in Italia da ripetute circolari del Consiglio superiore della magistratura. «Dai dati più recenti però risulta che mentre l’89 per cento delle procure è effettivamente specializzata, tra i giudici di primo grado sono specializzati solo il 24 per cento e nelle Corti d’Appello la specializzazione è praticamente nulla, così come anche negli uffici dei giudici per le indagini preliminari». Secondo Canevini infatti «non è un caso che le sentenze di cui si legge sui giornali siano spesso delle Corti d’Appello: poi certo, non è detto che chi non è specializzato non sappia dare risposte adeguate, ma c’è il rischio di un approccio non tecnico, basato su una visione personale, e non ci si può affidare solo alla buona volontà delle persone». 

Un altro esempio recente è la sentenza del tribunale di Roma in cui veniva assolto un addetto alle pulizie di una scuola accusato da una studente minorenne di averle palpeggiato i glutei infilandole una mano sotto le mutande. Sebbene il giudice avesse riconosciuto che il palpeggiamento c’era stato, aveva ritenuto che gli elementi a disposizione non consentissero «di configurare l’intento libidinoso o di concupiscenza generalmente richiesto dalla norma penale».

Il passaggio della sentenza che aveva suscitato più indignazione era stato quello che sminuiva il gesto descritto dalla studente (l’imputato aveva negato di aver messo la mano sotto le mutande) definendolo «sfioramento dei glutei, per un tempo sicuramente minimo, posto che l’intera azione si concentra in una manciata di secondi, senza alcun indugio nel toccamento». La studente aveva infatti parlato di una molestia durata tra i 5 e i 10 secondi. Anche in questo caso però è stato fatto notare che esistono pronunce della Cassazione che definiscono molto chiaramente che pochi secondi di palpata possono essere una violenza sessuale se non c’è consenso, e che si tratta di un’invasione della sfera sessuale a prescindere dalla durata, dalla soddisfazione sessuale che ne ha tratto l’imputato e dal suo «intento libidinoso».

Il problema della cultura sessista radicata nella società e che si riflette anche nel lavoro della magistratura in generale va molto oltre i contenuti delle sentenze. Le leggi italiane e le convenzioni internazionali definiscono molto dettagliatamente tutta una serie di cautele, strumenti e procedure che dovrebbero essere impiegate per tutelare i diritti delle vittime di maltrattamenti e violenze di genere, e che non sempre vengono rispettate. Tra questi ci sono per esempio il diritto di non subire vittimizzazione secondaria, quello di sentirsi al sicuro di fronte all’autorità giudiziaria, quello di non dover rispondere a domande personali che non c’entrano con le indagini e quello di non vedere l’imputato quando si testimonia o di non incontrarlo in tribunale.