La notte in cui finì il regime fascista

Tra il 24 e il 25 luglio del 1943 una riunione del Gran Consiglio sfiduciò Mussolini e preparò l'uscita dell'Italia dalla guerra

Una riunione del Gran Consiglio del fascismo a Palazzo Venezia (AP Photo)
Una riunione del Gran Consiglio del fascismo a Palazzo Venezia (AP Photo)
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Nel 1943 le cose si stavano mettendo male per il regime fascista in Italia. La vittoria lampo della Germania di Hitler nella Seconda guerra mondiale non era arrivata, e tra il 1940 e il 1942 l’esercito italiano aveva subito alcune clamorose sconfitte che si sarebbero trasformate in disfatta senza l’intervento dei tedeschi. I più importanti esponenti del regime si convinsero che la responsabilità fosse tutta o quasi del capo assoluto del fascismo, Benito Mussolini, nonostante la cieca fedeltà di cui aveva goduto per quasi vent’anni sia tra i ministri del suo governo sia tra la popolazione.

Il 10 luglio del 1943 gli Alleati anglo-americani sbarcarono in Sicilia, aumentando la pressione sul regime. Uno dei più lucidi ad analizzare la situazione era Giuseppe Bottai, fascista della prima ora, più volte ministro, ex governatore di Roma e di Addis Abeba, in Etiopia. Per Bottai il regime aveva perso smalto, era stato incapace di rinnovarsi, si era intorpidito: «Non una crisi “militare”; e neppure “politica”, nel senso che queste due parole sono dai più l’una all’altra opposte: ma intima, personale, di ognuno di noi, singolarmente preso», scrisse nei suoi diari.

Nelle prime settimane di luglio Bottai ebbe diversi incontri con alcuni importanti gerarchi fascisti, compreso Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, che in quella fase era anche uno dei suoi critici più intransigenti. Tutti insieme convinsero Mussolini a convocare il Gran Consiglio del fascismo, l’organo supremo del regime. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio ci fu una riunione in cui venne votato il famoso Ordine del giorno Grandi, che prevedeva di riportare in carico al re il comando delle forze militari come prevedeva la costituzione allora in vigore, lo Statuto Albertino. Così, con un semplice ordine del giorno di un organo consultivo, si mise in moto il meccanismo che avrebbe portato all’uscita dell’Italia dalla Seconda guerra mondiale.

La riunione del 24 luglio era la prima dal 1939, quando il Gran Consiglio del fascismo era stato convocato per votare la decisione di mantenere l’Italia neutrale nella guerra appena iniziata: una decisione non vincolante, come tutte quelle prese dal Gran Consiglio. Dopo il 1939 Mussolini aveva preso tutte le più importanti decisioni senza consultare il Gran Consiglio, probabilmente per il timore di scontrarsi con i suoi stessi gerarchi. All’interno del Gran Consiglio erano presenti tutte le numerose correnti del fascismo, dai rivoluzionari che avrebbero voluto l’abolizione della monarchia fino ai più moderati, contrari all’alleanza con la Germania.

Mussolini era a conoscenza del contenuto dell’ordine del giorno. I gerarchi glielo presentarono come una mossa per costringere la monarchia a condividere la responsabilità dell’andamento della guerra, che andava sempre peggio.

Lo sbarco degli Alleati in Sicilia fu fondamentale nell’accelerazione degli eventi. L’esercito italiano si era dimostrato incapace di difendere l’isola. Soltanto pochi reparti italiani e le truppe tedesche erano riuscite a rallentare l’avanzata degli americani, dei canadesi e degli inglesi. Il 19 luglio gli aerei americani avevano bombardato Roma per la prima volta. Lo stesso giorno Mussolini aveva incontrato Adolf Hitler a Feltre, vicino a Belluno. Nell’incontro Mussolini avrebbe dovuto persuadere Hitler a fornire all’esercito italiano armi e mezzi sufficienti a proseguire la guerra, ma Hitler non lo fece parlare e Mussolini non riuscì a imporsi.

La riunione cominciò alle 17 del 24 luglio nella Sala del Pappagallo, a Palazzo Venezia, quello con il celebre balcone da cui si affacciava Mussolini. Non c’erano stendardi alle pareti e nemmeno la guardia d’onore, formata di solito da 12 moschettieri di Mussolini. Il palazzo, però, era pieno di agenti di polizia in borghese e nel cortile erano schierati diversi membri delle Camicie Nere, la milizia volontaria fascista.

Tutti i 28 membri del Gran Consiglio erano presenti: i Quadrumviri (i veterani della marcia su Roma), i principali ministri del governo, il presidente del Tribunale Speciale, quello dell’Accademia d’Italia, il comandante della Milizia Volontaria, le Camicie Nere, i presidenti del Senato e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (che aveva sostituito la Camera dei deputati), il segretario del Partito Fascista. Gli altri membri presenti erano stati scelti per meriti speciali, e facevano parte del Consiglio con un mandato di tre anni.

Mussolini entrò nella Sala del Pappagallo per ultimo, alle 17 e 14, e chiese a un commesso di fare l’appello dei presenti. Alberto De’ Stefani, membro del Gran Consiglio per meriti speciali, scrisse:

L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio è stato silenzioso; un’accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi.

Nei suoi diari Bottai descrisse quella riunione come un «bivio» fondamentale, «un decidere che separa dentro, che torce, che dilania». A proposito dell’intervento di Mussolini, scrisse:

Finora ha parlato col volto curvo sui suoi incartamenti; e i tratti, nella luce trasversa della lampada, ne apparivano disumanati, in uno scorcio caravaggesco di chiarità violente e d’ombre fosche. Non uomo, ma trasfigurazione d’un uomo, già visto di là dalla vita, in quel tenace sforzo di fissarsi nella storia, che lo ha estraniato a sé e ai suoi, fuori d’ogni contatto cordiale, con l’incisiva crudezza della maschera. Ora, la sua testa si solleva nella luce dall’alto, che tutti c’investe: e la maschera cade. Appare il volto suo vero, su cui leggo i segni d’una volontà ormai rassegnata alla gran resa dei conti.

Non esistono resoconti stenografici della riunione ma molti dei testimoni, tra cui lo stesso Mussolini, lasciarono dei racconti su cosa venne detto quella sera. Si sa che la riunione cominciò con un lungo discorso di Mussolini. Secondo alcuni testimoni parlò per due ore in una specie di lunga autodifesa. Riassunse gli ultimi anni di guerra e spiegò che non era stata sua intenzione prendersi il comando supremo delle forze armate e che aveva lasciato sempre libertà di decidere ai generali e allo stato maggiore dell’esercito.

Cercò di prevenire le critiche e disse che era pronto a rivoluzionare la struttura di governo e quella del partito. Disse che era pronto a «cambiare gli uomini» e a «dare un giro alla vite». Alla fine del discorso disse che in fondo anche nella Prima guerra mondiale alcune province erano state perse, ma che nonostante questo la guerra era stata vinta. Il discorso non lasciò soddisfatti i gerarchi presenti. Il ministro delle Finanze, Giacomo Acerbo, descrisse quella relazione come «fiacca, disordinata, contraddittoria».

Dopo Mussolini presero la parola altri due gerarchi, che parlarono per un altro paio d’ore. Erano le 21 quando fu il turno del presidente della Camera, Dino Grandi. Era arrivato a Palazzo Venezia con due bombe a mano infilate nella valigetta e, scrisse poi, si era molto preoccupato vedendo il gran numero di Camicie Nere che attendevano nel cortile del palazzo. Grandi parlò per circa un’ora e, dopo aver premesso la sua fedeltà al re, espose e chiese di mettere ai voti il suo ordine del giorno: Mussolini doveva rimettere i poteri al re, rinunciare al comando supremo delle forze armate e ripristinare la costituzione, ossia lo Statuto Albertino.

Sembra che Mussolini non reagì in modo particolare di fronte a questo ordine del giorno. Diede semplicemente la parola al gerarca successivo. È anche vero che conosceva da tre giorni il contenuto di quel documento, perché lo stesso Grandi glielo aveva fatto esaminare il 22 luglio. Grandi era un moderato, era contrario all’alleanza con la Germania e sperava che Mussolini sfruttasse il suo ordine del giorno come via d’uscita per abbandonare il potere e permettere all’Italia di uscire dalla guerra.

Anche alcuni dei gerarchi più intransigenti, come Roberto Farinacci e Carlo Scorza, segretario del Partito Fascista, volevano che Mussolini si facesse da parte, ma chiedevano anche di continuare a combattere accanto alla Germania. E infatti, poco dopo l’intervento di Grandi, venne presentato da Farinacci un secondo ordine del giorno per continuare la guerra accanto alla Germania e riconsegnare al re il comando dell’esercito.

Alle 23 la riunione era ancora in corso e venne decisa una pausa di mezz’ora. I gerarchi si spostarono in un’anticamera dove consumarono una cena preparata in fretta, visto che nessuno aveva previsto che la riunione sarebbe durata così a lungo. La pausa durò 45 minuti. Grandi fece girare il suo ordine del giorno, che era già stato firmato da alcuni dei gerarchi più importanti, e riuscì a ottenere 20 firme su 28.

Al ritorno nella sala la riunione proseguì con diversi interventi. Il più importante fu quello del capo delle Camicie Nere che, secondo i presenti, pronunciò un discorso in cui sembrava voler minacciare chi si opponeva a Mussolini. In precedenza le riunioni del Gran Consiglio si erano concluse quasi sempre in questo modo: dopo aver permesso ai vari membri di esporre i loro ordini del giorno, Mussolini ne preparava un altro, che sintetizzava i principali punti discussi, e quindi lo metteva ai voti. Questo ordine del giorno di solito otteneva l’unanimità.

Quella sera molti si aspettavano che Mussolini facesse qualcosa di simile. Ma alle 2 e 30, con grande sorpresa di quasi tutti quelli che lasciarono resoconti della riunione, Mussolini disse che era arrivata l’ora di concludere e stabilì che il primo documento che doveva essere votato era proprio quello di Grandi. Ci fu un solo astenuto, otto contrari e 19 voti a favore. Mussolini chiese chi avrebbe portato il documento al re e poi aggiunse: «Signori, con questo documento voi avete aperto la crisi del regime». Quando il segretario del partito Scorza gridò: «Saluto al Duce!», Mussolini rispose: «Ve ne dispenso».

La mattina del 25 non venne nemmeno data la notizia della riunione. Secondo la gran parte delle testimonianze di quei giorni Mussolini non appariva troppo preoccupato per il voto della notte precedente. Uno dei firmatari dell’ordine del giorno gli aveva già comunicato la sua decisione di ritrattare il voto della sera prima e Mussolini, a quanto pare, pensava che gli altri avrebbero presto fatto lo stesso. Inoltre riteneva di poter rabbonire Grandi offrendogli il ministero degli Esteri. La mattina chiese un’udienza al re per riferire l’esito della riunione.

Mussolini non sapeva che la notte precedente Grandi era andato direttamente da alcuni membri della corte per comunicargli che il Gran Consiglio lo aveva sfiduciato, e che quel voto era ciò che il re stava aspettando. Si presentò nel pomeriggio del 25 a Villa Savoia (oggi Villa Ada). Parlò con il re per venti minuti ma di quel colloquio non sono rimaste trascrizioni. Stando a quanto raccontò lo stesso Mussolini, Vittorio Emanuele III gli comunicò che era sollevato dall’incarico di capo del governo e sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio. Stando ad altri racconti, per una volta Vittorio Emanuele III non si fece intimidire da Mussolini e fu rapido nel sottoporgli le dimissioni da firmare.

All’uscita dalla villa lo aspettavano 50 carabinieri. Mussolini fu caricato su un’ambulanza e portato in una caserma di Roma. Secondo il racconto di Mussolini, l’ufficiale che lo arrestò gli disse che lo stavano portando in un luogo sicuro per proteggerlo da un complotto. All’una di notte Mussolini ricevette una lettera di Badoglio che gli assicurava che quelle misure di sicurezza erano solo per proteggerlo e che poteva muoversi come preferiva.

In realtà Mussolini era prigioniero e in pochi giorni il nuovo governo Badoglio sciolse il Partito Fascista e mise fine al regime. Mussolini venne continuamente spostato in vari luoghi, fino a che non fu sistemato in un albergo a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. L’8 settembre Badoglio annunciò che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati a Cassibile, in Sicilia, aprendo una nuova fase della guerra per l’Italia. Il 12 settembre Mussolini fu liberato da una pattuglia di paracadutisti tedeschi e portato verso Nord per instaurare un nuovo regime satellite di quello nazista, la Repubblica di Salò, che durò appunto dal 1943 al 1945.

Nonostante l’estremo tentativo di formare un nuovo Stato fascista alleato con la Germania, la guerra andò sempre peggio tanto per Mussolini quanto per Hitler, e dopo anni di Resistenza partigiana nell’aprile del 1945 iniziarono le insurrezioni fuori Milano. Il 27 aprile Mussolini fuggì verso la Svizzera travestito da tedesco, ma venne riconosciuto nei dintorni di Dongo, sul lago di Como, catturato e poi fucilato il giorno dopo dai partigiani.

Storici, politici e giuristi hanno discusso a lungo per stabilire se quello che accadde il 24 luglio sia stato un colpo di Stato, una congiura, o se sia stato un gesto legale. Sulla legalità dell’ordine del giorno di Dino Grandi persino alcuni di coloro che lo firmarono ebbero dubbi. Altri, tra cui lo stesso Grandi, sostennero il contrario, e in ogni caso quasi nessuno riteneva di aver messo in atto un colpo di Stato: secondo loro Mussolini, mettendo ai voti l’ordine del giorno, lo aveva implicitamente considerato legale.